tra reale e virtuale
S'avanza l'amore social. Glossario dell'erotismo digitale
Cybersex, ghosting, sexting, dating fatigue e molto altro in un mondo in cui il sesso, quello vero, si fa sempre meno. Specie tra gli adolescenti
Mentre la carne langue affiora l’isola dell’amore digitale, col suo dizionario erotico in allegato. Sarà che l’anno vecchio si chiude così come iniziava: coi corpi offline e l’amor cyber che è un vulcano attivo. Nel gennaio 2022 uno studio di Archives of sexual behavior, analizzando i comportamenti sessuali, mostrava come la percentuale degli adolescenti casti, negli ultimi dieci anni, fosse salita dal 28 al 44 per cento per i maschi e dal 49 al 74 per cento (74 per cento!) per le femmine.
Vuoi che questo delle femmine non sia effetto-paradosso di un femminismo baciapile? D’altro canto, però, “un ruolo importante potrebbe essere l’aumento nell’uso dei social network e dei videogiochi, attività che al sesso portano via tempo”. Sono le parole di Tsung-chieh Fu, autrice dello studio. E il punto è proprio questo: il sesso vero è diventato un lusso. Quel che fino a ieri costava niente, neppure l’abbonamento a illimitati giga, oggi va bene solo per chi può permetterselo. Quel che fanno un po’ tutti – persino gli animali – è reputato quasi un malcostume. In compenso si sviluppa il galateo del sentimento online. E s’inventano parole qui raccolte in un compendio. Come in un glossario che metta in fila gioie e dolori del giovane Gen Z. (Poiché qui si è in pace con la storia, le parole sono in inglese e restano in inglese. Finito il tempo dei sandwich tradotti in tramezzini. Del resto, non è colpa di nessuno se l’italiano nel mondo oggi non è D’Annunzio, ma Roberto Saviano).
Cybersex
È il sesso del quinto dominio. Ma cosa spinge, oggi, all’accoppiamento cibernetico? L’amore fisico sta sparendo perché necessita di forza: più morale che muscolare. Ha bisogno di calma, lo dice Tsung-chieh Fu. Ha bisogno di un letto (e che sia almeno alla francese!). Non da ultimo, ha bisogno di quel silenzio euforizzante prima del tuffo nei sensi. È evidentemente un lusso, si diceva, stando alla fortunata definizione che ne dà Thierry Paquot: “Tempo, spazio, silenzio”. Niente scroll, dunque, niente schermini scomodi e ronzio di pixel… Ed ecco che, difettoso di forza morale, l’agamico Gen Z né si accoppia né tace.
L’eros è un bene che non può concedersi, intorcinato com’è in tutte le fisime che fanno di lui il mammifero più complessato della storia: metti una battuta a letto sulle grazie di lei ed è subito bodyshaming; conta quaranta minuti offline e scatta l’allarme Fomo (letteralmente: la paura di essere tagliati fuori, fear of missing out). E allora perché cimentarsi con la gravità d’un corpo esterno, si domanda il nostro Gen Z. Perché disconnettersi quanto tutto può tenersi insieme in un display? Egli naviga sicuro, nel suo lettino, lungo i corsi dell’amor cyber.
Là dove l’amato diventa un’ombra e l’io si decompone. Come in una poesia di Apollinaire: “Nei nostri letti diversi / i nostri sogni si avvicinano / oggetti nella stessa tasca / E viviamo confusi / nello stesso pazzo sogno…”. E con l’oggetto in mano – lo smartphone – fuori dalla tasca, lui e lei, lei e lui, lui e lui, lei e lei, nei loro letti tutti diversi, si confondono tutti nello stesso pazzo sogno. Legati da fili invisibili. Surriscaldati come l’iPhone o l’Android stretto fra le dita. Come quell’oggetto che sembra asettico, senza peli e senza capelli, che non urta e non grida. Mentre è proprio lì che essi scrivono l’educazione sentimentale. Tutti confusi nel loro pazzo sogno.
Sexting
Strano ma vero. Quando si scrivono messaggi libidinosi allora si fa sexting, e quasi mai ci si lascia andare al refuso. Accade così che il delta di Venere si mimetizzi in certe spunte Whatsapp. E forse il sexting è quell’anfratto d’amore digitale che zitto zitto cova nuova letteratura. Sarà capitato anche a voi – almeno una volta nella vita – di sentirvi Henry Miller o Anaïs Nin. Mentre agli altri scrivete cose sgrammaticate, tipo grugniti, e come fra primati non parlate ma comunicate, col vostro tesoro digitale siete già più scrittori. Sarà forse per quel principio nicciano di “serietà nel gioco” se nel comporre messaggi sconci finanche un minorato si risveglia poeta. Serio, meticoloso, “trappista della perfezione”.
È un paradosso, ma nei momenti in cui il cuore si scatena alle dita non sfuggono punti fermi e virgole, reticenze e troncamenti nell’imperativo (modo verbale per ovvie ragioni più consono al sexting). Si è precisi con le parole: oscene ma giuste, puntuali ma non chirurgiche. Né troppo anatomiche da smontare l’euforia. E ai seni nudi nel cloud perché pensarci adesso? Ora che tu sei la sua Nora e lui il tuo James. Adesso che come i coniugi Joyce gareggiate in sconcezze e sentimento. E avete finalmente inteso che l’osceno è a un passo dal sublime.
Forse il sexting è la parte più umanista di tutto l’amor cyber. Tanto che il termine, apparso ufficialmente nel 2012 sul Merriam/Webster’s Collegiate Dictionary, fu usato per la prima volta nel 2005 dal Daily Telegraph. Quasi vent’anni fa, fra sms e mms, la parola era già giornalismo. E se oggi è già lingua (grazie all’inserimento nel dizionario), domani sarà letteratura. Forse perché il sexting deriva da un bisogno antico: sarà un’urgenza, come la preghiera.
Micro-cheating
Se nel paleodigitale, a forza di T9, eravamo già Miller o Joyce, figuratevi adesso cosa siamo diventati. Abbiamo codificato parole, reati nuovi. E non solo. Perché oggi scendiamo fino in fondo, alle radici della morale. Micro-cheating significa micro-tradimento. È dunque una forma specifica di sexting che avviene nell’illecita intesa di ragazzi già impegnati. Micro, appunto, perché riguarda scambio di testi e immagini che non necessariamente si risolvono in fornicatio fisica. Sul web ci si arrovella per venirne a capo: il micro-cheating – che certo non è reato – in che misura è peccato? Degna questione del più casuista dei gesuiti.
Come fra Cinque e Seicento il teologo Francisco Suarez si domandava dopo quanti millimetri fosse peccato il sesso anale, così oggi i filosofi dell’Internet si chiedono dopo quante foto l’inganno smette d’essere “micro”. Se il sexting è letteratura, il micro-cheating è filosofia. E più precisamente teologia morale. Col micro-cheating ci si domanda se il peccato è nei fatti o già nei desideri. E l’invio di fotine porno dove si colloca in un Confiteor: esso è pensiero, parola, opera o omissione? Sarà opera se per scattare bisogna disporsi in certa e ben studiata posa. Ma sarà pure omissione di carne se si chatta e poi non si compare, e si pensa così di non lasciare tracce: capelli e segni sul corpo che certo pesano come pietre ma prima o poi vanno via (i whatsapp chi lo sa).
Dick-pic (o Clit-pic)
Idea distorta – quelli che studiano direbbero: bias cognitivo – è pensare sia afrodisiaco il primo piano del pene. Cioè: del proprio pene. Quando abbiamo chiesto ad amiche e amici una mano con questo glossario, i maschi hanno tutti risposto: dick-pic. Millenni di vita umana per battere il passo sullo stesso punto: scorporato dal contesto, il fallo è ridicolo. Se si sgancia dal corpo, o è un vibratore (in quel caso è il “sex-appeal dell’inorganico”) o diventa apotropaico come il cornetto rosso. E la sua foto, a volerci trovare un senso, serve solo a svegliarci col sorriso.
Abbiamo chiesto alle amiche più libertine cosa ne pensassero: “Ero divertita da quanto fosse squallido”, risponde la più giovane (minorenne ma già superdonna). La dick-pic non è discreta come la clit-pic (corrispettivo femminile dove “clit” sta per clitoride): se quest’ultima è spesso un premio alla pazienza, l’altra è irruenta. L’una arriva per fiducia di lunga data, l’altra troppo spesso si firma “anonimo”. E non c’è bisogno d’iscriversi a Tinder, bastano Instagram e un profilo aperto perché ogni ragazza carina prima o poi ne riceva una. E presto capirà che a mandarla è l’anello mancante fra l’uomo e la scimmia.
Giudizio impietoso? Non tanto se nel 2015 è persino comparso un sito, “Critique my dick pic”, dove fra consimili ci si scambiava feedback su luci e angolature. E se su Onlyfans, adesso, ci sono utenti che si valutano l’asta da pari a pari. Come in un cortile di pavoni in sfoggio di livrea. Nessuna pietà, dunque. Si scrive “dick-pic”, si legge: corteggiamento metà digitale metà animale, metà umano metà babbeo.
Ghosting e Orbiting
Sexting è poesia lirica. Micro-cheating, filosofia. Dick-pic, farsa. Ma la generazione più complessata della storia vive nel melodramma. Quando il fidanzato scompare, quando lo ignora o blocca dopo averlo amato, il Gen Z si sente vittima di ghosting: la malacreanza di chi, svanendo, diventa ghost. All’atto pratico chi “ghosta” vuole solo sfilarsi da una relazione. Nel 2016 il sito di incontri online Plenty of Fish rilevava, su un campione di utenti fra i 18 e i 33 anni, come l’80 per cento si fosse misurato col trauma della sparizione.
S’è detto sino alla noia che se il Novecento fu il secolo degli psicologi, questo terzo Millennio continua coi traumatologi. No, non nel senso medico di chi s’interessa di tessuti lesi: parliamo dei traumi che ledono il cuore, l’anima, la dignità. Che per inciso: la perde solo chi non ce l’ha. Ma cosa possiamo capirne noi, figlie di Sade, che senza saperlo pratichiamo addirittura l’orbiting da quando ci siamo iscritte su Facebook nel 2009. Orbitiamo, cioè, attorno alla vittima. In crudele buona fede mettiamo “mi piace”: per incoraggiamento, per caso, per compulsione, chissà. Cuoricini che non portano a nulla, per noi (nessuna chiamata seguirà a quei click). Ma che portano a sterile malumore, per lui.
Digitate “ghosting” sul vostro motore di ricerca ed ecco una sfilza di link che lo catalogano in “violenza”. Un traumatologo scrive: “Il ghosting è la violenza psicologica della nostra generazione”. È Jonathan Bazzi su The Vision. Un talebano del bene che per un abbandono si sente violentato. Cantore di un mondo che scambia un fisiologico addio per un abuso. E che vede sevizie in un capello torto.
Catfishing
C’è un programma su Mtv che analizza il fenomeno dell’alter-ego online: Catfishing-False identità. È il fenomeno dell’inganno sui social network attraverso la creazione e l’uso di account con nome, cognome e foto non corrispondenti all’utente fisico. Truffe d’amore operate da profili falsi che nascondono un “io” sfaccettato. Il programma di Mtv racconta storie di maligni e malcapitati. Mentre questi ultimi si innamorano, quelli – chattando – ripetono a sé stessi: io non sono io. Perché nel maligno l’io è un altro. Ed è altrove. E come i poeti francesi anche i catfisher sono “grandi malati, grandi criminali, grandi maledetti”. Grandi scrutatori di anime in pena.
Il punto è questo: nel catfisher il male non è mai banale ma è trascendente. Il catfisher colpisce anime idealiste che Zuckerberg ha reso ultraplatoniche. Cuori troppo sensibili al simulacro di un profilo online. Troppo inclini a innamorarsi di un’idea, di un nome. E adesso pure di un “link in bio”. Col brutto vizio – collaterale in un esprit de finesse – di sottovalutare il corpo.
Il catfishing è stregoneria: male metafisico che scorre e rompe i capillari degli occhi appiccicati a uno schermo. È “il digitale e il male”, parafrasando Bataille. Se dunque il ghosting è robiglia da Jonathan Bazzi, cosuccia da gerarchi del bene che persino nell’addio esigono emoji col gattino, il catfishing è un tema serio. Un fatto che smonta ogni pretesa bontà originaria.
Dating fatigue
Alla fine è tutta una fatica. Judith Duportail, giornalista francese e cultrice di Tinder, definisce quest’amore volatile “un vagare fra rapporti vaghi”. Nel suo ultimo libro trova un nome ancora più preciso: Dating fatigue. Amours et solitudes dans les années (20)20. Nell’era digitale la Dating fatigue è la “fatica dell’appuntamento”, spesso rimandato o malandato. Perché i canali online smistano miliardi d’individui su zattere della speranza, in un mare senza approdo.
Nel mondo dei giovani adulti, prima di Facebook, forse per flirtare col tuo simile dovevi andare a teatro se eri melomane o al parco se salutista. Adesso fra tag e follow sai degli interessi in comune. Ma le possibilità si moltiplicano: da un profilo se ne aprono mille. In un caleidoscopio dove l’uno rimanda all’altro. Così vaghi a vuoto sino al riscontro empirico – chissà perché – più raro che mai. Per quello ti devi organizzare, e l’organizzazione è pur sempre una cosa fisica. Costa tempo, spazio, silenzio. È un lusso come il sesso (di cui il momento più bello pare sia proprio il momento prima). E allora te ne stai a letto, sfiancato da un libertinaggio inconcludente.
I giovani adulti più complessati della storia, che vivono il corpo come un peso, provano che l’uomo è stanco anche se non combina niente. E molto più d’un coito snobbato, l’amore l’affatica… Il digitale lo svuota dentro.
generazione ansiosa