la metamorfosi
L'automobile? Un inferno
I gas, la Ztl, i 30 all’ora. Ma c’è dell’altro: la macchina è stata per un secolo il mito di individualismo, libertà e gioia di vivere. Ora per l’estetica green e moralista è divenuta simbolo di morte. Nel mirino l’automobilista maschio tossico
Maledetto il giorno che t’ho comprata. Sarebbe un titolo perfetto per la sua prossima commedia, se Verdone avesse interesse per le auto, cosa di cui legittimamente si dubita. Perché “maledetto il giorno che t’ho comprata” è il pensiero che sempre più spesso gli automobilisti – e le automobiliste, ça va sans dire, che sono quasi più dei maschietti – si sentono salire alle labbra dal profondo di uno scoramento sordo. Ogni volta che pensano ai costi, sì; ogni volta che non trovano parcheggio, ovvio. Ma soprattutto a ogni nuovo divieto di transito, a ogni nuova pista ciclabile restringente, a ogni Ztl, all’elettrica che in Italia nessuno compra (5 per cento) perché costa un botto e di colonnine non ce n’è. Tutto questo è ovvio. Ma soprattutto per quella sempre più aggressiva riprovazione sociale, che punta il dito perché andare in macchina è diventato disdicevole: inquini, tiri sotto i pedoni, ingombri (se è per questo, ingombrano anche i ciclisti in contromano e sui marciapiedi). Nel pensiero eco-populista medio, insomma le campagne à la “make love not CO2” di Greenpeace, la soluzione è semplice: abolisci le auto, risolvi il problema. Ma anche tralasciando il dibattito, niente affatto univoco, sui problemi scientifici, economici, sociali della riduzione e/o abolizione della circolazione delle auto, è evidente che il punto è altrove. La rivoluzione in corso è prima di tutto nella testa e negli occhi di guarda le strade, le città, i modi di vivere. Una rivoluzione prima di tutto estetica, di percezione.
Lo stop ai motori termici dal 2035, la scelta elettrica destinata a trasformare (o demolire) interi settori economici, le sempre maggiori restrizioni per gli utenti. Le proteste plateali degli ambientalisti. L’ultima polemica è quella sulla decisione di trasformare Milano in una città a 30 all’ora. E al di là della dettaglistica tecnica sull’inquinamento e la sicurezza (anche qui pareri non univoci), è evidente i temi sottotraccia siano la vivibilità, gli stili di vita, gli spazi di socializzazione urbana. Su cui esistono visioni diverse e legittime, che sconsiglierebbero scelte rigidamente ideologiche in una città con trasporti inadatti alla dimensione metropolitana. Punisci l’automobilista e tutto è risolto, con un vago profumo di polizia del pensiero: nell’odg si invita il comune “a farsi promotore presso Anci di misure analoghe in tutte le principali città italiane”. Dunque il tema non è Milano, è la salvezza del genere umano. La versione 2.0 dell’immaginetta di Padre Pio: “Vai adagio e ricordati di noi”. Se la crisi del pianeta sia tutta colpa della mamma che porta a scuola il figlio, non si sa. Poi basterebbe abitare fuori dalle Ztl, o in quei famosi “borghi più belli d’Italia” in cui la corriera Cotral passa ogni due ore, per capire che dare la colpa alle auto non è la soluzione. Lo chiamano passaggio alla mobilità morbida e friendly, ma intanto a Milano il fantomatico “Collettivo delle suv-versive” è passato alla violenza privata di fatto e hanno sgonfiato le gomme ai suv lasciando volantini da Rivoluzione culturale maoista: “Non prenderla sul personale, non ce l’abbiamo con te, ma con la tua auto di lusso”. E’ qualcosa di più, è un odio antropologico contro l’automobile e chi la guida che sorpassa pericolosamente a destra il problema del bene comune.
Le automobili sono state la chiave del progresso novecentesco. Ma ancor più la macchina ha rappresentato la velocità, la auto-nomia di spostarsi a piacimento, di assaporare l’individualismo realizzato. E pure l’ambizione e il prestigio sociale, ovvio. Ma chi oggi detesta i ricconi con la Ferrari evidentemente non ricorda che la gara alla lettiga più bella la facevano già nell’impero romano, e il lusso delle gondole in sorpasso sul Canal Grande era un must della Serenissima. Libertà, individualismo e, perché no, machismo. Cosa sarebbe James Bond senza l’Aston Martin? Il secolo breve è nato con l’invenzione parallela del cinema e dell’aeroplano, come insegnava Edgar Morin: il sogno, e il sogno della mobilità senza limiti. E il cinema è iniziato con le derapate dei poliziotti di Keyston, il divertimento della velocità. L’educazione sentimentale della generazione americana degli anni Cinquanta è Gioventù bruciata di Nick Ray: è l’anarchica, violenta, maschilissima gara in auto di James Dean e del suo rivale. Prima di schiantarsi sulla Route 466 con la sua Porsche “Little Bastard”. Nell’America dei Cinquanta l’auto era già consumo popolare come il frigorifero; nell’Italia del primo boom il mito del progresso arriva con la Seicento e l’Autostrada del Sole. L’Italia finalmente secolarizzata, cinica e appagata trova il suo stemma araldico nelle corna sventolate dalla Lancia Aurelia del Sorpasso. E’ lì che inizia a cambiare il costume degli italiani. La differenza antropologia tra l’Italia e il sogno americano è semmai l’abisso che separa la Bianchina di Fantozzi dalle Giulietta Gt dei poliziotteschi anni Settanta: ma era anche l’auto di Pasolini, il primo vero artista-popstar italiano. L’auto è libertà e fantasia, attraversa tutto l’immaginario del secolo. Dalle passioni di pilota di Steve McQueen a Le Mans agli infiniti film sulla Route 66, dalla Dodge “Generale Lee” di Hazzard fino alla DeLorean di Ritorno al Futuro, che già si poneva il problema di come riciclare in carburante la spazzatura. Fino alle Ford Falcon di Mad Max e alle meraviglie di Transformers.
Miti di libertà, fantasia, anarchia e persino nichilismo che arrivano al punto di non ritorno col volo suicida della Ford Thunderbird di Thelma & Louise, il film che forse già segnala un cambio d’epoca riguardo all’automobile. E’ cambiato tutto, e non è solo l’inquinamento o l’ingorgo (del resto Un giorno di ordinaria follia non è un ingorgo? Ma anche La La Land inizia con un ingorgo liberatorio a Los Angeles). E’ un cambiamento etico, e moralista, in cui l’automobilista è sempre un potenziale assassino; ma quel che è più interessante, un cambiamento della percezione. Qualche anno fa, in pieno déconfinement da Covid, un tale Pierre C, probabilmente di Parigi, scrisse alla redazione di Velook, rivista filo-ciclistica, una “lettera d’addio alla mia automobile” che sembrò così strana da meritare la pubblicazione. Potrebbe essere tranquillamente falsa, ma spesso i falsi sono più sinceri: “Oh mia bella macchina, abbiamo trascorso così tante volte insieme momenti che rimarranno per sempre impressi nella mia memoria. Nonostante tutti i tuoi benefici, mi hai causato molte preoccupazioni che non posso più sopportare… Passo ore nel traffico a causa tua e dei tuoi compagni. Madre Natura molto spesso si lamenta di te perché la soffochi con il fumo schifoso che esce dal tuo tubo di scappamento. Stai lentamente uccidendo Madre Natura, ma l’altro giorno avresti potuto mettere improvvisamente fine alla vita di questa vecchia signora che stava attraversando la strada se non avessi tirato il freno in tempo”. Così, le dice, ti abbandono per una bicicletta: “E’ più veloce di un’auto in città. Scivola elegantemente tra le macchine per condurre il suo viaggiatore a destinazione”.
Abbiamo fatto un salto mentale in Francia, perché la Francia è il luogo di ogni mutamento ideologico. Non solo per la sindaca Anne Hidalgo, che ha trasformato Parigi in città a 30 all’ora – ma la corrispondente di Repubblica, Anais Ginori, non esattamente una pasdaran del motore a scoppio, ha raccontato di “maxi ingorghi per l’effetto combinato dell’aumento di ciclabili e zone pedonali”. Scrive: “Cos’è cambiato? Poco, a parte la segnaletica stradale per avvertire gli automobilisti”. Però “gli ecologisti nella giunta parigina continuano a parlare di “una grande vittoria culturale’”. Cronache a parte, è molto divertente un articolo di qualche giorno fa di Elisabeth Lévy, battagliera giornalista e francese iper conservatrice – è la bestia nera di tutti gli intellò della gauche – sulla sua rivista Causeur, dal titolo “Adieu voiture, bonjour tristezze”. Sotto al titolo, una bella foto di un’epoca della Francia felice, una Due CV arancione nella campagna, una giovane donna spunta fuori dal tettuccio aperto e si tiene nel vento il cappello di paglia. La liberté. Scrive: “Simbolo di gioia di vivere, libertà e virilità trionfante, l’auto è diventata il nemico da sconfiggere, la causa di tutti i nostri mali”. Si dirà che esagera, ma non troppo: se Wired riporta che all’University college di Londra hanno fatto addirittura un esperimento che proverebbe che “gli uomini portati a credere che il proprio pene fosse relativamente piccolo rispetto alla media erano più inclini a desiderare auto sportive”. Sì, ci sono tutti i motivi (e anche i sospetti) tecnici, ammette Lévy, ma il punto è culturale. Provocatoriamente, per far venire l’orticaria ai progressisti, Lévy la chiama “la grande sostituzione dell’auto”. “Sarebbe sbagliato pensare che la crociata contro l’auto obbedisca esclusivamente a una logica razionale. Per molti non si tratta di avere auto più pulite (obiettivo perfettamente legittimo), ma di farle scomparire gradualmente dalla faccia della terra – scrive – La loro crociata assume una dimensione culturale e anche ideologica, forse inconscia per giunta”. L’automobilista è il nuovo nemico di una guerra civile: “Appassionato di velocità, vizio che unisce inutilità e pericolosità, l’autista è un focoso individualista che rifiuta di concedere tutto sé stesso alla collettività”. Sentenza di condanna: “E’ stato a lungo l’espressione più diffusa della mascolinità tossica”.
Poi qualcosa inizia a cambiare. Bisogna sempre rifarsi al cinema, è lì che si misura l’influenza del mito dell’automobile, consanguineo del mito dell’individuo. Il primo film di Steven Spielberg, Duel, centra in pieno uno degli incubi americani: è la storia di un uomo solo – solo come per statuto è l’automobilista – che difende sé stesso e tutto il suo mondo, cioè la macchina, da una minaccia in forma di camion. Sa allora, a parte tutte le DeLorean del futuro, la percezione dell’auto l’abbiamo interiorizzato attraverso un altro film di pochi anni dopo, tratto da un racconto di Stephen King: Christine, la macchina infernale di John Carpenter, in cui l’incubo è personificato da una Fury del 1957 che vive di vita propria, uccide, si rigenera anche se viene distrutta. E’ la nostra cattiva coscienza di inquinatori. Oggi siamo molto oltre a quello che King e Carpenter avevano intuito e il passaggio d’epoca inizia molto prima. Oltre lo strato superficiale dei miti popolari, ci sono linee carsiche antropologiche che disegnano corsie opposte di interpretazione o superamento della modernità. C’è un archetipo, che come tutti gli archetipi ha agito sotto pelle. E’ un saggio del 1973 di Ivan Illich, noto filosofo sociologo e maître à penser della rivolta d’impronta religiosa contro la modernità capitalista-individualista-distruttrice. Tra le molte cose che ha scritto, scrisse anche un Elogio della bicicletta che circolò a lungo solo nel samizdat dei suoi amici e seguaci, finché lo pubblicò anni fa in Italia Bollati Boringhieri, con un bel saggio di Franco La Cecla, diventando oggetto di culto, quantomeno nella nicchia dei nuovi ecologisti e di ciclisti che andavano prendendo coscienza di essere la massa critica del futuro. Niente da dire su alcune intuizioni “profetiche” – dai temi ambientali all’occupazione-ostruzione dello spazio prodotta dal traffico. Un po’ più discutibile è il filo conduttore ideale sullo fondo, in cui la bicicletta diventa addirittura entità di trasformazione spirituale, che indica il superamento della categoria alienante del “trasporto”, dimensione in cui l’individuo “diventa un angosciato e forzato consumatore di distanze delle quali non può decidere né la forma né la lunghezza”. Mentre la bicicletta, col suo spazio risparmiato, il comunitarismo forzato, la velocità “giusta” per non vivere da alienati sarebbe il mezzo di una rivoluzione economica ma anche spirituale. Ma per quale motivo transitare adagio per le strade sarebbe moralmente superiore a correre veloci? Illich predica una “ristrutturazione sociale dello spazio che faccia continuamente sentire a ognuno che il centro del mondo è proprio lì dove egli sta, cammina e vive”. Il vero nemico di questa visone non è in fondo l’auto, è il modello di sviluppo individualista e capitalista. E la bicicletta è l’estetica di questa lotta. Dice Illich, a segnalare il bivio, che nel Novecento sono nate insieme la macchina e la bicicletta. Continuiamo a preferire Morin su cinema e aeroplano: meglio vivere di sogni che come cinesi della Rivoluzione culturale. Ma oggi persino assessori che dovrebbero essere oggettivi preferiscono fare etica ed estetica: “Ridurre le carreggiate, allargare i marciapiedi, aumentare gli spazi per i tavolini dei dehors”. E facilitare la socialità. L’automobilista che va da solo è male. Ma per quale motivo dovrebbe essere invece un bene socializzare con un ciclista con la tuta sudata al semaforo di via Vittor Pisani? Il Covid ci ha offerto la fantasticachance di poter non salutare più nemmeno i vicini di casa. Starcene da soli. E ora dovremmo fraternizzare sulle ciclabili? Ma è un cambio d’epoca che si impone e si è già imposto. E’ notevole pensare che gli ambiti del design (estetica di massa) in cui l’industria globale investe di più sono, oltre agli smartphone e agli arricciacapelli, le automobili. La pubblicità delle auto è pervasiva, e punta sulla suggestione. Eppure veder sfilare veloce e silenziosa la linea aerodinamica di un’auto, i suoi colori luccicanti o pastello (Bmw ha appena presentato un prototipo in cui sarà possibile cambiare a piacimento con un clic i colori della carrozzeria) è diventato inferiore alla bellezza di veder sfrecciare ciclisti con la bottiglia termica nello zaino e l’ascella pezzata. E all’estetica non si comanda. Ma l’etica segue. Nel 2006 uscì il successo planetario di Cars - Motori ruggenti, quello di Saetta McQueen che sogna di vincere la Piston Cup. Pochi anni dopo, verrebbe censurato al pari dei classici Disney sottoposti a lavaggio politicamente corretto. La disgrazia dell’auto segue di poco altre cadute di standard di vita tipicamente maschili. Da quella del tabacco alla più recente disgrazia degli orologi di lusso: erano roba da Steve McQueen e ormai sono robaccia da Totti e Matteo Messina Denaro.
Vecchia talpa, Ivan Illich ha scavato bene, molto prima e molto più a fondo degli ecologisti da “fine di mondo” di oggi. Sono due modi di interpretare la vita personale e anche sociale. Come arguisce Lévy, “se odiano l’auto, non è solo perché è inquinante e climatogena, ma perché unisce due caratteristiche della vita umana che sfidano al massimo grado i nostri Verdi: la libertà e il piacere”. Cioè la Weltanschauung del maschio. Ma sull’altra corsia di Ivan Illich, in direzione ostinata e contraria, Elizabeth Lévy incrocia un’antropologia completamente diversa, seppure in via di estinzione: “Insomma, come dice Jacques Séguéla, l’auto ha un’anima. Sarebbe molto triste se la vendessimo agli angeli che ci governano”. Inventore di pubblicità e maestro di sguardo sociale, Séguéla resta nella storia come il creatore del claim che portò all’Eliseo Mitterrand, “La forza tranquilla”. Ma anche come l’intellettuale anti salotti della gauche caviar che ha saputo leggere la società dopo il tramonto delle ideologie, l’epoca felice dell’edonismo mitterrandiano. Ed è sua anche una pubblicità che fece la storia dell’advertising automobilistico e che è anche un grande omaggio al cinema macho della frontiera. Lo spot girato nel 1985 per il lancio della Citroen Visa GTi (Christine la macchina infernale è del 1983), per il quale chiese a Mitterrand “una portaerei e un sottomarino atomico”. “Mio caro Séguéla, ma cosa ci deve fare?”, gli chiese Mitterrand. “Ci devo girare uno spot pubblicitario”. Era lo spot che si conclude con la macchina in panne e i messicani che ridono: “Ehi gringo, la macchina VAVAVUMA!”. Andare veloce, rischiare, fare un sacco di baccano e di polvere: l’auto come libertà. O andare adagio, silenziosi e in bicicletta collettivizzata. Tra il pubblicitario edonista Séguélà e il penitenziale Ivan Illich, nessun dubbio di chi scegliere. Vavavuma!