Canta che ti passa. Catalogo di lagne sanremesi
La musica leggera e le autobiografie pesanti: che sia di corpo, di cuore o di mente, questi artisti stanno tutti male
Non solo spartiti. Ma pure referti medici e taccuini en plein air. E’ un Sanremo diaristico, diagnostico, woke. Ed ecco la Città dei fiori a distanza di settant’anni: un vivaio di panni sporchi che fanno share. Ci sono proprio tutti in questa commedia dell’arte psicodrammatica. Vuoi che manchino il bullizzato, il sedotto, l’abbandonato… Per non dire del fluidificato. Aspettiamo solo la molestia fra chi si sente orfanello e non è. E ancora le eternamente figlie che vorrebbero esser mamme e non sono.
Casi umani un po’ carnascialeschi, questi. E davvero – non era per gioco – ci sono persino i referti medici. “Ho voluto inserire la registrazione del battito del mio cuore”, anticipa Ultimo (al secolo Niccolò Moriconi), che porterà sul palco “Alba”. E pensare che il cantante romano, tutto tatuato e imberrettato, di testa è finanche il più sano. Ma poiché ben intende di doverci dare una pennellata di morbo, come un tempo si dava la pennellata di sesso, Moriconi è sano ma non fesso. E così nella sua canzone fa incursione il dato clinico. Sistole e diastole: il suo cuore messo a nudo. Vero che da un paio d’anni la musica leggera s’è dichiarata leggerissima. Ma in compenso l’autobiografismo pesa. E sono proprio i cahiers de doléances dei cantanti a farci rivalutare il riso citrullo, trasognato, di Chiara Ferragni (in Schiaparelli e Dior nella prima e ultima serata).
Che all’Ariston la canzone sia pressoché musica d’ascensore non è certo una novità. Che sia puro sottofondo lo sanno pure i fermenti lattici (e ognuno di noi ha l’Eric Satie che si merita). E non è certo un tema Zelensky – a Sanremo era nelle cose almeno quanto Fedez (oltretutto sui follower siamo lì) – la cui polemica tutt’intorno serve giusto a imbottire i nostri vuoti di vita e l’hype di Mamma Rai. Il tema vero – non nuovissimo ma collaudatosi ora – è che se non ci sei o non ci fai un po’ l’azzoppato, il problematico, il cane bastonato, tu lì non entri. Se non sei un po’ neutro, fluido, malato, depresso, non canti. E soprattutto, non sei nessuno. Ebbene, questo è all’incirca il quadro generale di melanconie e disforie. In attesa che da qui a martedì 7 il menabò si riempia a dovere di tutte le spezie dall’autofiction.
“Sono cresciuto fra le mucche e i campi”, racconta Rosa Chemical, “… Ero la pecora nera: frangetta o capelli lunghi, lineamenti effemminati e vestiti da donna”. Il trapper è solo il primo – e forse il più emblematico – fra chi strascica rime in un’idea novecentesca di pecora nera. Perché il punto è che dopo Renato Zero i “pervestiti” di tutt’Italia sono un sunto di convenzioni. Da Lauro a Chemical è un eterno ritorno dell’integrato travestito da apocalittico. Contro il peggiore dei mondi possibili, il nostro. “Contro ogni tipo di discriminazione”. E i “pervestiti” fanno un po’ come François Pignot nel film L’apparenza inganna: s’abbigliano di perversione per tirare a campare (e trarre profitto). Quello si fingeva omosessuale – era il 2001 – per non farsi licenziare dalla ditta produttrice di profilattici e attenta ai diritti Lgbt. Questi, per salire sul palco, dallo stato d’etero passano direttamente allo stato fluido, dacché i tempi son cambiati e il semplice omosessuale è reazionario. Ma il trapper piemontese non è il solo in questa fluidificazione collettiva per la quale Rosa Chemical è nome azzeccatissimo per ogni alchimia di genere. Per esempio, sempre sul palco dell’Ariston, ci sarà Leo Gassmann, che di recente s’è fotografato in una rivisitazione dello “Schiavo morente”. Labbra protese a sederino d’oca, boccoli da San Sebastiano, kilt grigio-tortora di Antonio Marras. Un bel bocconcino che con autobiografismo e drama fa tutt’uno da sempre – dato il lignaggio – e che si pone oggi nel solco di suo papà (lasciamo perdere il nonno… Venerando povero nonno). Alessandro è il “green hero” che sul Venerdì di Repubblica espia in una rubrica l’ereditario complesso zetatiellino. Come? Attraverso un rosario ecologista, ovvio, ché l’eco-ansioso è molto spesso bennato (Spinaceto pensavo peggio, diceva Nanni Moretti, ma un monopattino elettrico laggiù chi l’ha visto mai). Di padre in padre, di figlio in figlio, ecco Leo. Lo scarrafone bello al secondo Gassmann. Il giovanissimo Leo che in una notte di maggio salva una ragazza aggredita da una bestia maschia (fuoco-fuochino, molestia-molestina: lo dicevamo che prima o poi sarebbe spuntata. La molestia qui da noi è come il prezzemolo in trattoria: una spruzzatina serve sempre, ovunque, per dare colore, sapore. O forse per indispettire come in un’arcata dentale, chissà. Comunque, la molestia-molestina è spezia imprescindibile per la zuppa ombelicale. E questo sì, profana le vittime).
A proposito di padri e figli – topos dei topoi – Leo Gassmann è invece fratello, in tema d’autofiction, a un altro scarrafone (e stavolta in senso stretto). E’ Luca D’Alessio, figlio di Gigi, in arte Lda. Anche lui, neanche il tempo di esordire, che già ci canta la solfa… Ed è sempre la stessa musica, coi figli d’arte come un disco rotto. “All’inizio mi pesava essere ‘figlio di’, ma adesso…”, dice Lda. Adesso che? Qualcuno dovrebbe prenderselo, un giorno, il fastidio di spiegare a tutti i figli dei lombi d’oro – da Harry di Sussex al baby D’Alessio – che i genitori pesano sempre. Bisognerebbe dirlo, a questi che ci castigano coi soliti brontolii, che mamma e papà son pesanti per definizione. Anche per i figli delle api operaie. Oltre al fatto – ancor più rilevante – che lo dicono a favore di pubblico, quando s’alza il sipario. Sul palco che li accoglie in quanto “figli di”. Palco che potrebbero benissimo disertare per dirottare verso un ufficio di collocamento. Chi li tratterrebbe?
Anche la simpaticissima Chiara Francini, che co-conduce con Amadeus, cede al richiamo della casa di cura e confessa il “desiderio combattuto e vivissimo” di diventare madre. Madri non-madri, genitori pesanti… E poi padri assenti, come quello di Gianluca Grignani, il Kurt Cobain brianzolo alla ricerca del babbo perduto. La canzone in gara, “Quando ti manca il fiato”, racconta di una telefonata del genitore semi-latitante da quindici anni. Squarcia il velo di silenzio una domanda: “Verrai al mio funerale?”. Un tonfo. Anche per noi che – con tutto questo nero – siamo già immersi in ben altra sepoltura: quella del blu dipinto di blu. Morto e affatto felice di stare lassù a guardare la parata di casi umani. Modugno vinceva Sanremo nel ’58: un sogno che davvero non ritorna mai più. Ma se il passaggio diretto dal cielo infinito al mortorio è uno scossone, tutto il resto è determinismo. Era ovvio si passasse dai referti clinici agli onori funebri. E’ il festival della psicoanalisi, questo. Fra complessi edipici e cuori rotti. Sanremo 2023: è Freud e il sess’ (nun te reggae più).
E chi lo regge più il favorito Marco Mengoni che è da sette anni in terapia e tiene molto a farcelo sapere. “Chiamo questo lavoro su me stesso ‘la mia storia infinita’”, dice al Corriere, “Non ci si scopre mai”. A parte il fatto che quando Socrate diceva ai giovani “Conosci te stesso!” qualche danno lo faceva sia ai giovani (basta guardare il dottorando medio in filosofia) sia a sé stesso, Marco Mengoni è tanto fantasy (la “mia” storia infinita di Michael “Mengoni” Ende) tanto razionalista. E in vista della finale non tocca ferro, scrive sempre il Corriere. “Non fa scongiuri o gesti scaramantici”. Lui no, non ne fa. Beato lui. Ma noi, noi che siamo andati a letto illuministi e ci siamo svegliati accerchiati da iettatori, noi sì. Noi li facciamo eccome, adesso. Al solo sentire il nome della kermesse.
Intendiamoci, l’articolo che leggete non è una bordata contro la fiction ombelicale. Romanzare la propria vita di per sé vuol dir nulla. E’ un fatto neutro, come quasi ogni cosa. Tutto dipende dal romanzo e dalla vita. E forse neppure è un problema che si parli d’amore e malattia. Per dire, anche Julio Cortázar e Carol Dunlop nel 1982 scrivono un diario di viaggio a quattro mani. Malati e innamorati, “Gli Autonauti sulla cosmostrada” attraversano la Francia da Parigi a Marsiglia. C’è l’amore e c’è il morbo, come sempre, ovunque, in ciascuna delle nostre vite (non solo a Sanremo). Ma ci sono la parola, il racconto, la grazia a riempire l’autobiografia, altrimenti quintessenza d’ovvietà. E c’è l’unicità, mentre questa della Città dei fiori è un’epidemia.
Salutiamo Marsiglia e veniamo al ciclo dell’amore e morte. I Coma_Cose – anche loro: un nome, una malattia – hanno scritto negli ultimi anni dei testi molto belli. A cominciare da “Anima lattina”, un omaggio al vertice Battisti-Mogol in chiave rap non-zozzona: il video sembrava ambientato in uno studio odontoiatrico. E fin qui tutto bene. Loro si chiamano Fausto Lama e California, e sono fidanzati da otto anni. E fin qui tutto benissimo (a Sanremo ci sono persino le quote etero). Comunque, come si possa amare e lavorare senza ammattire, e per otto anni, sfugge alla comprensione di chi vorrebbe una stanza tutta per sé. Di chi ha imparato a tenere il cuore tassativamente fuori da quella stanza (farcelo entrare, per giunta, oltre che al drama spiana la strada alle molestie-molestine. Visto che, dicono sempre i due in una canzoncina, “abbiamo un cuore in mezzo alle gambe, ma senza le istruzioni per usarlo”. Tenere a mente). I Coma_Cose tornano all’Ariston. Occhi negli occhi, nuovi Albano e Romina, cantano di come hanno superato la crisi e sventato un “Addio”, si intitola così la loro canzone (“cantiamo la nostra crisi di coppia”). Si saranno evoluti dall’ultimo Sanremo? Chissà. Prima di giorno 7 sospendiamo il giudizio musicale. Ma la questione più che artistica è sociale. Tutto Sanremo è un po’ musica d’ascensore, lo dicevamo, e il vero fenomeno – sociale, appunto – è conclamato: se non sei malato, o non ti sei ripreso da poco, non sei nessuno. Che sia di corpo, di mente o d’amore è un fatto secondario, l’importante è dolersene. Sicché nei camerini dell’Ariston, al reparto Cim, troviamo ancora il frontman dei Modà. Anche lui nel cantico dei malati. Indovinate un po’ la diagnosi? Depresso (e chi l’avrebbe detto). Perché la depressione – che è nera nera – come il nero sta bene su tutto. Anche sul “tappeto di fragole” del pop più adolescenziale di sempre. Il caso è comunque molto interessante se rapportato al cavaliere oscuro di un Sanremo che fu. Da una parte l’angelo che girava senza spada, il figlio della portiera, che aveva fretta, che non si fermò… E che di colpo cascò ventinovenne nel mistero dei misteri: la selva dei suicidi. Da una parte dunque lo spettro di Luigi Tenco. Dall’altra Kekko dei Modà. E va da sé che il nome – simpatico omonimo di Zalone – è conseguenza delle cose o viceversa. E cosa sono le cose – con questo nome – se non una conserva di maledettismo zaloniano? “Mi sono svegliato e non riuscivo a piegare le gambe”, racconta Kekko, “pensavo fosse un’influenza ma dopo dieci giorni a letto […] mi ha visitato un neurologo e mi ha diagnosticato la depressione”.
Qui non si dubita della doglianza kekkista: fanno testo le dichiarazioni. Neppure ci si addentra nelle sue intenzioni, benché su tutti i gareggianti aleggi l’icona del malato immaginario. Restiamo quindi saldi a una morale dell’azione: al giudizio su ciò che si dice e su ciò che si fa e non su ciò che aleggia. Vediamo così scivolare il tema etico nell’estetica. Insomma, l’autobiografismo non regge l’immagine, e la domanda è: ce lo vedete voi Kekko con la kappa regalarci un’ultima volta un paio d’occhi spiritati alla Tenco e poi sparire? Vi sembra portato per il mistero, per il tragico, per la selva? Considerate pure che di anni non ne ha ventinove ma quarantatré e che a quell’età il suicidio romantico accentua il comico. Kekko con la kappa fa un’inspiegabile simpatia e di rispondere alla domanda non abbiamo cuore. C’è che ogni epoca ha il maledettismo che si merita. A noi è toccata una bohème alle vongole.
I cantanti in gara sono ventotto e non basta una pagina per sintetizzarne gli ombelicismi uno a uno. Qualcuno o qualcosa sarà sfuggito. Ma finora si capiva meno perché le dive a Sanremo non vincono quasi mai. A parte Elisa nel 2001, diva dimessa, Anna Oxa la prorompente e l’inarrivabile Alice dell’81, la diva al Festival è una luna nel pozzo. Fatto che – se visto in controluce – spiega i flagellanti di Sanremo ’23. Il Festival non è fatto per i sani divi o per gli antidivi (che poi s’uccidono pure). Ci vogliono ragazzi che non facciano sentire miserabili 10 milioni d’anime alla tivù. Ci vuole gente che sia peggio di noi. Le dive non riescono. I cristi dolenti, oggi, centrano l’impresa. E allora canta che ti passa. Ché non importa se di corpo, di testa o di crepacuore: l’importante è soffrire. Ma se la vida es un carnaval (di fluidi e tristi), più importante è soffrir cantando.