Il teorema di Sanremo
Da Nilla Pizzi ai cantautori fino ai rapper: la caratteristica del Festival è la sua capienza bulimica. Il suo successo è nella filosofia del nonostante, di ciò che si impone e va avanti nonostante tutto. E se la fenomenologia dell’Italia passa di lì è perché pure l’Italia è l’Italia: è quel che è nonostante tutto
Ebbene sì: l’impostazione problematica con la quale affrontare Sanremo è tutta nelle parole con le quali Max Weber presentava, cent’anni orsono, la sua “Sociologia delle religioni”: “Quale concatenamento di circostanze ha fatto sì che proprio sul suolo italiano, e solo lì, si siano manifestati fenomeni culturali che pure – almeno secondo quanto amiamo immaginarci – si ponevano in una linea di sviluppo di significato e validità universale?”. La citazione, lo confesso, è minimamente ritoccata, perché, invece di riferirsi all’Occidente intero, potesse fare al caso nostro, però la domanda ci sta tutta: che cosa ha permesso al Festival della canzone italiana, nato la bellezza di settantadue anni fa, di arrivare fino a noi, di perpetuare i suoi fasti tuttora, e di assurgere quasi a compendio di tutto ciò che significa essere italiani? Quale concatenamento di circostanze, quale combinazione di eventi, quale corso del destino ha potuto trasformare l’idea avventurosa di un giovane esportatore floricolo sanremese, Amilcare Rambaldi, nel luogo di massima ostensione dell’italianità stessa? “Die Offenbarung der Tiefe”, la rivelazione dell’essenza profonda dell’essere italiani. Quello di sopra era Weber, e questo invece è Hegel: se dovessi scrivere una fenomenologia dello spirito italiano non sono sicuro di sapere da dove cominciare – da una passeggiata per le strade di Roma, da un piatto di spaghetti, da una fila al Pronto Soccorso? Quali sono le prime, immediate certezze da cui comincia la nostra buona stella di cittadini italiani? – ma so dove finirei, dove tutti finirebbero: nell’amabile cittadina ligure di Sanremo, terra “della musica e dei fiori, luogo magico, incastonato nel cuore della Riviera Ligure, dove tutto è possibile” (dopo Weber e Hegel, cito da www.sanremoliveandlove.it).
Quale concatenamento di circostanze, quale combinazione di eventi, ha potuto trasformare l’idea avventurosa di un giovane esportatore floricolo sanremese nel luogo di massima ostensione dell’italianità stessa?
Come, però, Hegel ha dovuto scrivere un lunghissimo romanzo di formazione per portare la coscienza naturale fino al sapere assoluto, così anche a me è toccata un’inchiesta non piccola, e solo al termine mi riuscirà (forse) di spiegare perché sono andato a pescare proprio Max Weber, la sociologia delle religioni e la sua bombastica tesi dell’origine del capitalismo dall’etica protestante. Ma ogni cosa a suo tempo.
Intanto questo almeno è chiaro, che Sanremo è Sanremo, c’è poco da obiettare. Chi oserebbe mettere in discussione una verità così evidente, indiscutibile, inconfutabile? Dopo tutto, la verità è, propriamente parlando, una tautologia: lo diceva Hegel, sempre lui. Che però aggiungeva: a condizione di riconoscere nel risultato ciò da cui risulta. Che è quanto dire che per conferire verità al “ritornello scemo” della canzone inventata da Pippo Caruso nel 1995 (“Perché Sanremo è Sanremo”: Festival diretto da Pippo Baudo, con Anna Falchi e Claudia Koll sul palco, e vittoria di Giorgia, con “Come saprei”) di strada bisognerà farne. Nella fenomenologia dello spirito si tratta di percorrere la via del dubbio e della disperazione; nel nostro più modesto caso, visti peraltro i dati di ascolto delle ultime, trionfali edizioni, nessun dubbio e nessuna disperazione: basterà qualche aneddoto e un po’ di erudizione spicciola, per provare a venirne a capo.
1951, prima edizione e canzone vincitrice “Grazie dei fiori”: riascoltandola, mi chiedo come dovesse essere paziente il pubblico di allora, visto che si doveva sorbire una introduzione strumentale di oltre un minuto
Per cominciare: festival della canzone italiana. Si domanda: che è canzone, e che è canzone italiana? Sembra facile rispondere, e lo è effettivamente, perché nessuno ha molte perplessità, al riguardo. Se ascolta una canzone, sa per l’appunto che si tratta di una canzone. Si sa pure, altrettanto facilmente, se è una canzone politica, o una canzoncina per bambini o una canzone “da festival” (formalizzare questo sapere e portarlo al concetto è impresa niente affatto scontata, ma per fortuna non tocca a me). Se poi a cantare è Nilla Pizzi, nell’elegante Salone delle feste del Casinò di Sanremo, in abito bianco e capello cotonato, come aver dubbi che si tratta di una canzone italiana, persino della madre di tutte le italianissime canzoni? 1951, prima edizione del Festival e canzone vincitrice, “Grazie dei fiori”: riascoltandola, mi chiedo come dovesse essere paziente il pubblico di allora, visto che si doveva sorbire un’introduzione strumentale di oltre un minuto prima di apprezzare il cantato, e assaporare una voce così esotica e sensuale che durante il fascismo fu, per prudenza, tenuta lontana dai microfoni della radio.
Una voce che il biografo di Nilla Pizzi, Enzo Giannelli, descrive entusiasticamente come “calda e pastosa, piena e profonda, morbida e sinuosa, sensuale e di sobria dolcezza, elegante e raffinata, solida e plasmabile a un tempo, versatile e ricca di colori, venata contemporaneamente di tristezza e di ironia in un inesauribile gioco di contrasti” (“Nilla ultima regina. La vita e la carriera di Nilla Pizzi”, in quattro volumi e complessiva 1.514 pagine!). Poi leggo che, voce o non voce, all’epoca il pubblico poteva amabilmente chiacchierare ai tavoli, mentre i cantanti si esibivano sul palco, e allora mi spiego la cosa.
Mi spiego la lunga introduzione musicale, intendo, e un ascolto distratto, ma non ancora che cosa voglia dire canzone italiana. Allora prendo la faccenda seriamente e apro la “Storia culturale della canzone italiana”, di Jacopo Tomatis (neanche questa ci scherza, con le pagine, che ammontano a 813), e scopro che la faccenda non è affatto semplice, che c’è voluto del tempo per arrivare a codificare come italiano, nell’ambito della musica leggera, un certo tipo di suono, un certo tipo di voce, un certo tipo di soggetto. Non a caso, il primo capitolo della “Storia” di Tomatis si intitola: “L’invenzione della canzone italiana”, ed è inevitabile cogliere il riferimento a un altro libro, quello di Benedict Anderson, “Comunità immaginate. Origine e fortuna dei nazionalismi”, dove si sostiene che le comunità di una volta, quelle in cui si suppone che vivessero i nostri antenati prima che il vento della modernità le spazzasse via, in realtà non sono mai esistite, e sono piuttosto una proiezione retrospettiva: mentale o immaginaria, appunto. Sono la produzione col senno di poi di un senso locale, o nazionale, ricavato per differenza dai consumi e stili internazionali o globali diffusi dalla modernizzazione capitalistica (più o meno).
Tra rime baciate e dissacrazioni. Si fa presto a dire “canzone italiana”, ma in natura non esiste: è Sanremo che l’ha inventata. E pure il Festival, come luogo in cui si rispecchia l’identità nazionale, è una costruzione immaginaria
Il discorso di Anderson vale in generale: anche lui, come Weber, non sta parlando di Sanremo né di canzoni. Tomatis invece sì, ed è chiaro e tondo: quell’idea di “canzone italiana”, che può essere perfettamente rappresentata – è il suo migliore esempio – da “Felicità” (Albano e Romina Power, Sanremo 1982, seconda classificata dietro Riccardo Fogli) non solo non esiste in natura (il genere di canzone, non chissà qual genere di felicità), ma non esiste neppure in una storia nazionale che non si sa bene dove e in cosa affonderebbe le sue vere radici: in realtà, proprio Sanremo l’ha inventata, fabbricata, veicolata. Ma soprattutto, quanto a invenzioni: è il Festival stesso, come luogo in cui si rispecchia l’identità nazionale, ad essere una costruzione immaginaria. Immediatamente efficace e baciata dal successo, però. A riprova, Tomatis cita due gustose storielle.
Anzitutto, le critiche piovute sul malcapitato George Malachrino, celebre musicista chiamato a dirigere l’orchestra sanremese nel 1956 e subito sostituito per non essersi saputo adattare alla tradizione del Festival. Che però, a quella data, ha soli cinque anni di vita, sicché non si capisce come possa essersi costituita a tradizione in così poco tempo. In secondo luogo, una vignetta umoristica apparsa nel febbraio del 1954 (il Festival è un bebè, ha soli tre anni), su “Il Travaso delle idee”, popolare rivista satirica che si celebrava nel sottotitolo come “organo ufficiale delle persone intelligenti”, in cui si vede una folla vociante e sotto si legge: ” - Di nuovo i capannelli in galleria! Sostengono che Pella è meglio di Fanfani. - No. Che ‘Piripicchio e piripacchio’ è meglio di ‘Una barca tornò sola’” (risate a denti stretti). Giuseppe Pella e Amintore Fanfani sono – come ognuno sa – nella storia d’Italia: uno è stato il primo presidente del Consiglio dopo De Gasperi (per poco più di cinque mesi, dal luglio ’53 al gennaio ’54); l’altro, che nel governo Pella sedeva agli Interni, lo sostituì a Palazzo Chigi (per tornarci poi, nel corso dei decenni, altre cinque volte). Invece “Piripicchio e Piripacchio” è il titolo di una canzone cantata al Festival dal Quartetto Cetra insieme al Duo Fasano e a Gino Latilla (titolo storpiato: ad affiancare Piripicchio è Piripicchia, non Piripacchio. Chiedo scusa per le ripetizioni, ma dovreste sentire la canzone e i suoi piripiripì); quanto a “E la barca tornò sola” (questo il titolo esatto), affidata anch’essa a Latilla, in coppia però con Franco Ricci, arrivò, in quel Festival, terza. Bene, la vignetta sta sotto l’enfatico titolo: “Noi italiani”, come se gli italiani si dividessero già, a tre anni dalla nascita del Festival, nel parteggiare per l’una o per l’altra canzone.
Concedo totum. Però al modo in cui lo spiega Anderson. Invenzione non vuol dire fabbricazione falsa e posticcia, bensì creazione, costruzione sociale di un sistema culturale: il Festival, così, ci sta benissimo. Degno di nota è tuttavia che la confezione della canzone italiana non lasci solo qualcosa giù dal palcoscenico, com’è inevitabile che sia, ma si lasci anche contraddire, contestare e persino sbeffeggiare senza darsene pensiero, lasciando che contestatori e sbeffeggiatori si considerino dalla parte, per l’appunto, “intelligente”, cioè dalla parte giusta, di quel che non era (e non è) ma di quel che doveva (o dovrebbe) essere l’Italia: com’è possibile, allora, che Sanremo sia sempre lì? Tanto per dirne una, anzi la prima, “Grazie dei fiori”: la canzone tornerà a Sanremo nel 2010 e d’accordo: vi verrà celebrata grazie a una splendida interpretazione di Carmen Consoli (recuperatela: l’introduzione c’è sempre ma alleggerita di quasi mezzo minuto e anche la voce profonda e delicata della “cantantessa” merita), ma il bis, in realtà, lo aveva scritto e cantato parodisticamente Renzo Arbore, nel 1988: “Dicono che son solo canzonette / Ma poi però le cantano un po’ tutti / Fanno la rima amore e cuore/ Ma della nostra Italia hanno il sapore / Qualcuna è un poco scema come questa / Ma proprio la più scema resta in testa / E adesso tutti in coro canteremo / Questa canzone nostra per Sanremo”. Perfetta, no?
In realtà, mica tanto. Non è mica tanto vero che tra i fiori della Riviera si siano sentite solo le immarcescibili rime baciate del tipo amore/cuore. Certo, a proposito di satire, parodie e altre dissacrazioni a Sanremo gli Skiantos non ci hanno messo piede – “Avevamo un pezzo sulle scoregge che si chiamava ‘Fagioli’, ma alla fine non ci hanno presi! Segati”, dice Sbarbo. “Considero l’eliminazione da Sanremo uno dei nostri migliori successi”, aggiunge Jimmy Bellafronte, mentre io, che lo leggo su rollingstone.it, penso: provocatori irriverenti e intelligentissimi, sia pure, però l’insincera banalità di considerare una medaglia l’essere respinti, quando in realtà avrebbero goduto come ricci se fossero andati all’Ariston, se la poteva risparmiare. Prendo però tra le mani un altro libro, “Evviva Sanremo. Il Festival della Canzone italiana tra storia e pregiudizio”, titolo che gli autori stessi, Paolo Iachia e Francesco Paraccini, definiscono “forse eccessivo e provocatorio”, e ci trovo proposte un bel po’ di cose che non si adattano al canovaccio consueto, quello che la canzone seria e impegnata, la canzone d’autore, la canzone d’arte, a Sanremo non ci va, mentre trionfano spensierate le canzonette. Il primo a spalancare le braccia al futuro della canzone italiana non è stato forse, nel 1958, Domenico Modugno, con “Nel blu dipinto di blu”?
Come autori di musiche, come parolieri, in gara o come superospiti, i cantautori non è che se ne siano stati sempre alla larga. Il dito medio del rapper Eminem e l’allarme, oggi, di Fratelli d’Italia per il Festival “più gender fluid di sempre”. Ogni anno una formula diversa. Sanremo procede lungo una falsariga propria della commedia
Jachia e Paraccini la vera storia di Sanremo la fanno cominciare da lì, ovviamente, ma non solo per ricordare che Modugno spazzò via la linea melodica dei Claudio Villa e degli Achille Togliani (spazzar via non è l’espressione giusta, in realtà, perché quella linea si riproporrà ancora a lungo, e a Claudio Villa Sanremo tributerà un momento di grande commozione, con l’annuncio in diretta della sua morte nel Festival del 1987, condotto da Pippo Baudo), bensì anche per essere stato Modugno il primo autore a tenere banco a Sanremo. Come disse Teddy Reno: “Modugno canta le sue canzoni e noi quelle degli altri. La differenza è che quando canta lui è come un abito fatto su misura, quando cantiamo noi sembriamo vestiti dai grandi magazzini”.
Dopo, di cantautori ce ne sono stati altri, naturalmente. In ruoli diversi, come autori di musiche, come parolieri, in gara o come superospiti, ma insomma: non è che se ne siano stati sempre alla larga. Gino Paoli, Sergio Endrigo, Ivano Fossati, Umberto Bindi, Vasco Rossi, Roberto Vecchioni, Samuele Bersani, Daniele Silvestri, Paola Turci, Simone Cristicchi, per fare solo qualche nome, il Festival lo hanno conosciuto bene. Lo schema dualistico – da una parte le canzonette di pura evasione, i motivetti di intrattenimento, dall’altra le canzoni impegnate degli autori duri e puri – funziona meglio per i Guccini, i De André e i De Gregori, e cioè per una stagione ben precisa, gli anni Settanta, gli anni “dei Festival dell’Unità, del premio Tenco delle radio libere, dei circuiti teatrali/musicali alternativi”, ma, foss’anche così, non riesce comunque a esaurire l’intera scena della musica popolare, perché lascia fuori un sacco di roba: gruppi come Le Orme, i Matia Bazar, i Denovo, gli Avion Travel, che per Sanremo ci sono passati; grandi voci come Mina, Mia Martini, Fiorella Mannoia, Giorgia, Elisa; campioni di popolarità come Adriano Celentano, Gianni Morandi, Massimo Ranieri, irregolari come Enzo Jannacci o Elio e le Storie tese, e così via.
Non volevo però fare il Bignami del Festival o, più ampiamente ancora, della canzone italiana. Quel che volevo mostrare è solo come, edizione dopo edizione, il Festival abbia conquistato la sua fisionomia più riconoscibile: quella che per esempio consentì nel 2001 di invitare l’incazzatissimo rapper Eminem e a Raffaella Carrà, che annunciava il superospite internazionale, di presentarlo come “un ragazzo bisognoso d’affetto” (il quale ricambiò tanta attenzione mostrando affettuosamente il dito medio al pubblico – dito medio, quell’anno, anche con i Placebo, il cui front man sfascia la chitarra sul palco e si becca un coro di “scemo”); quella che lo scorso anno andava da Iva Zanicchi a Giovanni Truppi e, quest’anno, da Paola e Chiara a Rosa Chemical (con tanto di allarme parlamentare di Fratelli d’Italia: “Trasformare il Festival nell’appuntamento più gender fluid di sempre è del tutto inopportuno”). Voglio dire: senza perdere nulla, il Festival si è parecchio avvicinato, negli ultimi anni, a quel che si ascolta in giro, sicché, certo, non si può dire che dia spazio a tutto ciò che di nuovo si agita nel panorama musicale italiano, non esageriamo, ma non è vero neanche che all’Ariston ristagni un ideale di canzone melodica sempre uguale a sé stesso. La caratteristica fondamentale del Festival è, piuttosto, la capienza bulimica, quasi illimitata, che peraltro permette alla Rai di smarmellare l’evento per ben cinque serate, e accogliere così e ruminare tutte le differenze e tutti i generi, tutte le contraddizioni e tutte le contestazioni, sul palco o a lato del palco, l’anno prima o l’anno dopo, in una sezione o in un premio secondario, tra gli ospiti o in gara.
Perché Sanremo è Sanremo, dicevamo, celebrando la verità della tautologia. Ma a rigore si tratta non di una tautologia bensì di un’antanaclasi, figura retorica che consiste nella ripetizione di una parola, con la quale si procura ad essa un senso diverso. Come quando ad esempio si dice che la situazione è quella che è, oppure che gli affari sono affari. O, meglio ancora, per restare in clima sanremese, che la mamma è sempre la mamma. Nessuna di queste proposizioni è vuota e priva di significato, anzi: la prima dice che la situazione non è affatto rosea, la seconda che gli affari contano più di tutto il resto, e la terza che tutte le mamme del mondo sono belle (questa è la spiegazione che si può fornire grazie alla canzone vincitrice del Festival del 1954, portata al successo dal pacioso Giorgio Consolini). Sanremo è Sanremo dice invece che, ad onta di tutto, Sanremo resta pur sempre la piazza regina. La filosofia di Sanremo è insomma la filosofia del nonostante, la filosofia di ciò che si impone e va avanti nonostante tutto: se la fenomenologia dell’Italia passa di lì è perché pure l’Italia è l’Italia, è quel che è nonostante tutto.
Nonostante cosa, precisamente? Beh, per tornare in Riviera, nonostante ogni anno, o quasi, si inventino un regolamento diverso. Certo, la musica non è uno sport e Sanremo non è Wimbledon, dove l’All England Lawn Tennis and Croquet Club cerca di tener il più possibile ferme le regole e immutabili i suoi riti, ma è pur sempre una competizione. Eppure, ogni anno spunta una formula diversa, e spesso e volentieri cambiano le modalità di voto, oppure la composizione delle giurie e il peso loro attribuito. Si è passati così da più canzoni cantate dagli stessi interpreti a una canzone per interprete (1968), dall’accoppiata con uno straniero alle nuove proposte (1984), da edizioni con l’eliminazione a edizioni senza eliminazione, dalla performance dal vivo a quelle in playback (1984), dalla esibizione con base preregistrata a quella con l’accompagnamento orchestrale (dal 1990 fino ad oggi). Come la Rai: di tutto e di più. Ma non è che ce ne si preoccupi davvero. Il Festival comincia con il bravo presentatore che spiega un po’ come funziona, ma vale quanto leggere gli articoli del codice civile quando si celebra un matrimonio: nessuno vi presta attenzione, e questo deve pur significare qualcosa quanto al rapporto degli italiani con regole e istituzioni.
Ciononostante, il Festival procede. Malgrado, o forse anche grazie alle esibizioni più improbabili, alle canzoni più impresentabili, alle gaffe più esilaranti, agli scandali più clamorosi e alle pagine più dolorose. Luigi Tenco si toglie la vita, nel 1967: se Sanremo fosse finito quel giorno, quell’anno, non sarebbe stato un esito persino logico? Ma in quale storia della canzone italiana si sarebbe potuta mantenere un’aria da tragedia, e scrivere che il paese perdeva così la sua musica, e il suo luogo simbolo? Sanremo, invece, è andato avanti, lungo una falsariga che Giorgio Agamben (applicandosi alla canzone dantesca, per la verità, non a quella sanremese) riconosce propria della commedia. La quale si distingue non semplicemente per il lieto fine, ma perché riesce a trasformare la colpa naturale e inemendabile della tragedia – la dura condanna del destino che piomba sull’eroe innocente – in una colpa personale, proprio perciò redimibile. Persona vuol dire infatti maschera, in senso etimologico, e la maschera si sfila, con essa non ci si identifica mai fino in fondo (come accade invece all’eroe tragico col destino, che sente ineluttabilmente suo). Il Festival ci sta al bacio: non perché sia sempre uguale a sé stesso – si è visto che non lo è, e non lo è neppure la canzone che arriva sul suo palco – ma proprio al contrario perché, non avendo un destino, può voltare felicemente pagina e indossare, all’occorrenza, nuovi panni.
E in effetti dove, se non in una commedia, è possibile che le canzoni più belle arrivino spesso e volentieri negli ultimi posti, che il Festival sia vinto, a volte, da canzoni dimenticabilissime (I Jalisse! Dove sono i Jalisse?), e che, nonostante tutto, nessuno voglia rinunciare al sapore della gara? Ognuno, ovviamente, ha le proprie personali preferenze, e può scegliere. Tra le canzoni, a me non riesce di rinunciare a Pupo, che insieme al tenore Luca Canonici e a Emanuele Filiberto, esegue “Italia amore mio”. L’ultimo rampollo dei Savoia, di cui non si sospettavano doti canore, canta con la necessaria compunzione le parole: “Io credo nella mia cultura e nella mia religione / Per questo non ho paura di esprimere la mia opinione”, e se allora, nel 2010, non ci si poteva non domandare quanto formidabile fosse il passo indietro – musicalmente, culturalmente, ideologicamente – oggi ci si deve forse chiedere, con un certo sbigottimento, che magari no: il “principe di Piemonte” (fonte: Wikipedia) è stato addirittura profetico. Il gagliardo trio, comunque, agguantò un clamoroso secondo posto, scatenando le proteste del pubblico e persino quelle degli orchestrali, che presero a lanciare per aria gli spartiti.
Il fatto è che – con Sanremo - non si tratta mai semplicemente di arretratezza o di innovazione, di conservazione o progresso, perché, molto più radicalmente, non è questione di tempo, ma di spazio. Sanremo risente dello spirito del tempo? Sì, certo: come qualunque altra cosa. Ma la sua prestazione consiste essenzialmente nel convertirlo in spazio. “Il tempo è il concetto medesimo che è là e si presenta alla coscienza come intuizione vuota”: sono parole (ardue) che stanno nelle pagine finali della “Fenomenologia dello spirito” di Hegel ma che, con leggero spostamento di senso, si attagliano egregiamente al palcoscenico dell’Ariston: intuizione vuota che è là, e trova facilmente posto a questo e a quello. Non è peraltro il luogo delle più spettacolari operazioni di riciclo, di recupero, di riutilizzo? Che a volte servono per rilanciare, altre volte sfiorano il grottesco, come nel caso di Squadra Italia, che canta – guarda un po’ – “Una vecchia canzone italiana”, e schiera (nel 1994!) questi undici: Nilla Pizzi, Manuela Villa (figlia di Claudio), Jimmy Fontana, Gianni Nazzaro, Wilma Goich, Wess, Giuseppe Cionfoli, Tony Santagata, Lando Fiorini, Mario Merola, Rosanna Fratello. E’ stato calcolato: insieme facevano 570 anni, con età media superiore ai cinquanta.
Abbiamo così toccato il fondo? Non ne sono sicuro. Ci sarebbe Gigi Sabani che canta “La fine del mondo” (“Me lo aspettavo un po’ più biondo / E’ arrivata la fine del mondo”), oppure Little Tony e Bobby Solo che (nel 2003!) cantano, senza autoironia, “Non si cresce mai”, ma non è questo il punto. Anzi, per riequilibrare questa rassegna, sarebbe più giusto riservare almeno un rigo a canzoni bellissime, che sono rimaste nella memoria di tutti. A “Il ragazzo della via Gluck ” (Adriano Celentano, 1966); a “Un’avventura” (Lucio Battisti, 1969) a “Almeno tu nell’universo” (Mia Martini, 1982), a “Luce. Tramonti a Nord Est” (Elisa, 2001) fino a “Fai rumore” (Diodato, 2020, nei giorni di silenzio della pandemia), e a molte altre. Ma questa è una piccola fenomenologia di Sanremo e dopo la “raccolta dei momenti singoli” – che, per aspirare al “sapere assoluto”, sarebbe dovuta passare per molte altre stazioni e figure: i comici, i presentatori, i direttori d’orchestra e gli scenografi, i giornalisti che raccontano il Festival e gli spettatori seduti in prima fila, i monologhi e le ospitate, e pure, che so, Andreotti che in qualità di ministro della Difesa firma la dispensa per il soldato Celentano che solo così può lasciare la caserma e partecipare al Festival (“24mila baci”, 1961) oppure Totò che, per protesta contro l’esclusione della canzone “Parole”, si dimette da presidente della commissione selezionatrice: “La musica è tale da far presa sul pubblico – scrive il principe della risata –; le parole (e questo è un elemento importante in un periodo in cui la gente è stanca di sentir rimare cuore con amore) si staccano da quelle tradizionali, ormai trite” (e cavolo: siamo nel 1959!) – dopo la raccolta, dicevo, deve la fenomenologia chiudersi in circolo, tornare al suo cominciamento e liberare il suo concetto.
Weber, quindi, e la sua idea che il mondo moderno sia nato, in ispirito, da una forma (calvinista) di ascesi intramondana, cioè di rifiuto del mondo, che però si esprime a rovescio, cioè in un atteggiamento pratico di attiva modificazione del mondo. All’opposto stava per lui il confucianesimo, religione dell’accettazione incondizionata del mondo, da cui non verrà mai, pensava il grande sociologo tedesco, la forza per volerlo cambiare. Poi però Weber è morto e dopo qualche tempo i cinesi si sono messi a fare sul serio, e pur con i loro “asian values” hanno recuperato un bel po’ di terreno. Morale della favola: la modernità può svolgersi lungo tracciati diversi, uno schema soltanto non funziona. O almeno, il dragone cinese non è chiaro come c’entri, in quello schema, ma neppure, si magna licet, Sanremo: se moderna è l’azione negatrice del dato, allora il Festival, che tiene dentro tutto e non nega un bel nulla, non ne possiederà mai il carattere. Però, nonostante tutto e senza negare nulla, è arrivato sin qui, e promette di rimanerci a lungo. Dietro le quinte, immagino che i vari responsabili della mega-macchina sappiano mettere a frutto l’insegnamento del tao, per reggere la pressione, e forse anche il pubblico a casa, senza saperlo, abbraccia una dottrina del genere. O forse no. Gli basta ripetere, come un mantra, che Sanremo è Sanremo, per arrivare con occhi ancora aperti fino all’una di notte dell’ultima serata.
Massimo Adinolfi insegna Filosofia teoretica e Filosofia della comunicazione a Cassino. Tra i suoi libri, “Hanno tutti ragione? Post-verità, fake news, big data e democrazia” (Salerno 2019) e “Problemi magnifici. Gli scacchi, la vita e l’animo umano” (Mondadori 2022). Gioca a scacchi, più di ogni altra cosa.
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