(foto EPA)

reazione emotiva

I terremoti come quello tra Turchia e Siria ci spingono a interrogarci sul male radicale

Antonio Gurrado

Se il sisma degli ultimi giorni ci colpisce particolarmente è perché viviamo un’epoca di ottimismo comparabile a precedenti illustri come quello di Lisbona, che ha influenzato così tanto la cultura occidentale

Cosa ci insegnano i terremoti? La terra che trema e si apre ha una portata apocalittica; un effetto teatrale di palcoscenico che collassa sugli attori, rivelando la finzione di ciò che recitano, un effetto infernale di viscere che ci vogliono inghiottire sottraendo senso alla nostra vita superficiale. Questo ci agghiaccia più del novero – tragico quantunque – dei morti; basta infatti una spolverata a Wikipedia per apprendere che le 11 mila (al momento in cui scrivo) vittime del sisma fra Turchia e Siria impallidiscono a fronte dei 230 mila morti per lo tsunami in Indonesia, dei 275 mila morti per il terremoto di Haiyuan, degli addirittura 830 mila morti che si stimano per il terremoto dello Sahaanxi, sempre in Cina. La stessa Turchia ha visto 240 mila morti, riferiscono fonti d’epoca non si sa quanto affidabili, col terremoto di Antiochia del 526; ad Aleppo, per il terremoto del 1138, gli storici si sono assestati sui 230 mila morti. 

 

La giusta reazione di coinvolgimento emotivo, di sgomento, di atterrita vicinanza alla sorte di chi è stato colpito sarebbe, se fossimo aridi calcolatori, sproporzionata rispetto al mero conto delle vittime mietute dalla tragedia. Per fortuna, però, non lo siamo: l’istinto che ci coglie alla notizia è una testimonianza interiore, molto più forte di qualsiasi teoria, di come la vita umana non si pesi o si misuri ma abbia valore assoluto di per sé. E’ banale, suona retorico, ma indica qualcosa di profondo: un nostro sentimento incorporato – chiamatela empatia, chiamatela umanità, chiamatelo amour de soi come faceva Rousseau – che a ogni campanello d’allarme ci ricorda in modo oggettivo che una vita umana vale quanto 5 mila, vale quanto 830 mila.

 

Se non che, però, arriva il tempo. Dallo tsunami in Indonesia sono passati 19 anni e ce lo siamo quasi dimenticato, insieme alla promessa che non avremmo dimenticato mai; dal terremoto di Haiuwan sono passati 103 anni e ce lo siamo dimenticato del tutto; il terremoto dello Shaanxi risale a quasi 500 anni fa, era il 1556, quindi oltre a essercelo dimenticato lo collochiamo sul piano dell’irrealtà, del fiabesco. In Italia abbiamo testimonianza di una decina di terremoti che abbiano mietuto almeno il doppio delle vittime del terremoto turco-siriano, col culmine del disastro di Messina che nel 1908 sfondò l’impressionante quota 100 mila. In Irpinia – teatro del sisma del 23 novembre 1980 – era stata registrata un’altra dozzina di sismi nel mezzo secolo precedente, tre dei quali nel Novecento, e l’ultimo, piuttosto lieve, nel 1962. Significa che chi aveva 50 anni durante il terremoto più celebre ne aveva già 32, era adulto, durante il precedente, eppure ha continuato a vivere negli anni intercorsi come se niente fosse, sordo alla minaccia della terra. Ciò che oggi va di moda chiamare resilienza è, in realtà, una profonda e necessaria capacità di oblio, unico appiglio per consentire agli uomini di non avvertire l’insensatezza dell’esistenza, la futilità degli affanni in un abisso di precarietà incontrollabile. Dimenticarci delle tragedie ci rende umani tanto quanto soffrire per gli altri.

 

E’ notevole che a influenzare più di ogni altro la cultura occidentale sia stato un terremoto con un numero di vittime tuttora incerto, con fonti che riferiscono di 10 mila, altre di 30 o 60 mila, altre di 100 mila: il disastro di Lisbona, primo novembre 1755, che distrusse mezza città (l’epicentro era al largo dell’Atlantico, si ritiene oltre l’ottavo grado della scala Richter) ma le cui scosse furono avvertite in tutta Europa. Quest’indeterminatezza è rilevante poiché dimostra come a colpire, dei terremoti, sia ciò che accade non tanto fuori, quanto dentro di noi: dopo Lisbona quasi tutti gli intellettuali europei dovettero interrogarsi sul male radicale, su ottimismo e pessimismo, sulla teodicea. Vennero scardinati i fondamenti della cultura dell’epoca. Questo perché nel 1755, a voler fare storia delle idee con l’accetta, l’umanità era arrivata a una fiducia senza precedenti sulla capacità di dominare la natura e determinarla: a metà Cinquecento la rivoluzione astronomica aveva ricollocato la terra rispetto all’universo; nel Seicento, Bacone aveva delineato il traguardo raggiungibile di una tecnica che consentisse all’uomo di sopraffare le forze naturali; il Settecento era un secolo di grandi tassonomie e, solo quattro anni prima, con l’Encyclopédie era iniziato il visionario piano di catalogare tutto lo scibile rendendolo raggiungibile alle nostre dita.

 

Oggi, ulteriore motivo per cui il terremoto in Turchia e Siria ci colpisce così tanto, viviamo un’epoca di ottimismo comparabile. L’opera di catalogazione è terminata con internet, la tecnica ci fornisce vantaggi senza precedenti, abbiamo esteso il nostro dominio sulla natura fino al punto di illuderci di essere noi a condizionarla, e non viceversa. Ogni tanto però la natura ci ricorda che esiste davvero e non solo nel libro dei sogni di chi – con le migliori intenzioni – si illude di poterla ammansire a dovere, venerandola come una divinità gelosa ma in fin dei conti ragionevole, che non ci farà del male se stiamo zitti e buoni. Poi invece muove una falange, ci ridimensiona e l’unica cosa che ci resta è aggrapparci gli uni agli altri.

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