Un mondo senza cuore
Non tutto è da buttare in quest'epoca segnata dalla disgregazione familiare
Col radicalizzarsi del processo di individualizzazione, il vincolo matrimoniale è preso di mira come l'istituzione repressiva per eccellenza: nella vita coniugale sembra esserci soltanto noia e ipocrisia. Eppure proprio da qui potrebbe generarsi una nuova consapevolezza
Viviamo in un’epoca in cui l’amore coniugale sembra dover fare i conti con la quasi certezza del suo fallimento. Venuto meno l’ordine del passato, il realizzarsi di ognuno nella “comunità”, nel ruolo, in una vita quasi determinata a priori dal contesto sociale, l’individuo si mette in cerca per proprio conto del suo posto nella realtà; una realtà dura, che sembra comunque voler resistere ai suoi desideri e ai suoi sogni di autonomia e di autenticità. In questo contesto, per un lungo periodo, il matrimonio e la famiglia tradizionale si sono configurati davvero come un “rifugio in un mondo senza cuore”, secondo il titolo di un celebre libro di Christopher Lasch, una sorta di argine rispetto alla crescente precarietà dell’esistenza. Tuttavia, col progressivo radicalizzarsi del processo di individualizzazione, anche il “rifugio” familiare prende a vacillare.
L’amore romantico, che rappresentava un po’ il miraggio della cosiddetta famiglia borghese, diventa una sorta di proiezione del suo fallimento. Quell’amore, fatto di spontaneità, di struggimenti, di attese spasmodiche, di ardore, e tutto per esser messo in scena, come accade in Madame Bovary, in “stanze tiepide”, con “morbidi tappeti”, “luci tranquille”, fatte apposta “per le intimità della passione”; quell’amore finisce per diventare una sorta di banco di prova dell’inautenticità della vita familiare, la riprova che l’amore vero, appassionato non può essere quello tra marito e moglie. E Flaubert lo dice espressamente nel suo romanzo: “D’altra parte, non era forse una donna di mondo, una donna sposata? Una vera amante, insomma? Per il mutare del suo umore, di volta in volta mistico e allegro, loquace, taciturno, impetuoso, svagato, ella richiamava in lui mille desideri, evocava istinti e reminiscenze. Era l’amante dei romanzi, l’eroina dei drammi, era la ‘donna’ dei libri di versi… ma soprattutto era un Angelo!”. Proprio così: un angelo, un’astrazione, non una donna reale dunque, e men che meno la propria moglie.
La vita coniugale, come mostra non soltanto Madame Bovary ma gran parte della letteratura di fine Ottocento inizio Novecento (si pensi a Casa di bambola di Ibsen, tanto per fare un altro esempio eloquente), è soltanto noia e ipocrisia. In essa sembra nascondersi e alimentarsi una sorta di “bovarismo” di fondo, diciamo pure, un desiderio d’evasione e un’estraneità senza compensi. Il marito che trascorre fuori casa la maggior parte della giornata, preso dal suo lavoro e dal club più o meno esclusivo, dove con i suoi pari vaneggia di donne e di politica, fa come da pendant alla moglie in casa, alle prese con i figli, magari anche fedele, ma sempre più desiderosa di emancipazione e di incontrare finalmente qualcuno che la ami per davvero. Se nelle famiglie contadine del passato il silenzio tra i coniugi era l’icona di una sorta di tragica armonia, di una forza, che consentiva di attraversare insieme e senza illusioni il duro travaglio della vita, nella famiglia borghese quel silenzio diventa il propellente ideale di rancori e risentimenti, dei quali entrambi i coniugi sembrano come destinati a rimanere vittime. Una tristezza indicibile, che finirà per fare da propellente a quella che potremmo definire la cultura della mia generazione, quella del mitico Sessantotto, per intenderci. In nome dell’amore libero, della spontaneità contro il dovere, del principio del piacere contro il principio di realtà, la famiglia e il vincolo matrimoniale verranno presi di mira come le istituzioni repressive per eccellenza, messe in ridicolo e svuotate di ogni valore.
Ma non si può certo dire che gli uomini siano diventati per questo più liberi o più felici. Al contrario. Nel momento in cui vengono meno i vincoli sociali e giuridici che nel passato arginavano quella che Hegel chiamava “l’accidentalità del sentimento”, diciamo pure l’arbitrio e il capriccio individuale, ecco farsi avanti, inevitabile, l’esperienza del fallimento. E così il desiderio d’amore e le sue delusioni finiscono per diventare uno dei manifesti più eloquenti dell’individualizzazione che ha inizio con la modernità. Per fortuna, però, questo è soltanto un lato del discorso. Se è vero infatti che il processo di individualizzazione e il venir meno dell’indissolubilità del vincolo matrimoniale possono favorire, e certamente hanno favorito, la disgregazione familiare di questi anni; se è vero altresì che viviamo ormai in una sorta di cimitero erotico, dove l’espressione “ti amo” diventa addirittura indicibile per via della sua definitività, che è quella tipica delle promesse, non dei desideri; è pur vero che da tutto questo potrebbe anche generarsi per coloro che si amano una consapevolezza nuova: la singolare dipendenza della tenuta del loro vincolo dalle sole risorse morali che essi sono capaci di mobilitare per coltivarlo, e quindi dal dono di sé, il rispetto reciproco, l’impegno per una libertà che sia anche responsabilità. Altro che semplice fugacità dei sentimenti o esigenze di autorealizzazione!