Una maratona sul nulla
La scatola vuota di Sanremo, kermesse per un paese che non esiste più
Al Festival della canzone sono mancate le canzoni: un contenuto inafferrabile, un gigantesco vuoto si nascondeva dietro le voci dei partecipanti. Non è possibile inventare dei testi se non si ha niente da dire, niente di pensato e di sentito
"Advertisements for myself” era il titolo di un libro anni Cinquanta dell’incontenibile Norman Mailer, l’erede più congruo e oggi pressoché dimenticato di Ernest Hemingway, con cui condivideva un’idea di letteratura come pugilato. Quel titolo onestamente sfacciato mi è tornato in mente mentre con una certa scandalizzata sorpresa vedevo e non vedevo, un po’ a pezzi, la maratona televisiva di Sanremo: un titanico, accecante e assordante contenitore scenografico per un contenuto inafferrabile, un tutto pieno a copertura del vuoto. Era solo pubblicità per se stesso di un Festival che c’era ma non c’era. Pubblicità di ognuno per sé e tutti insieme l’uno per l’altro, in una sequela di “grazie, grazie!” e “sei meraviglioso!”, con tanto di mazzi di fiori che tutti offrivano a tutti per festeggiarsi e per la infinita gratitudine di essere lì invece che non esserci: cosa, quest’ultima, che si poteva sospettare ogni momento. Insomma, i cantanti non cantavano e facevano finta di parlare rap senza farsi capire, o perché soverchiati dalla non-musica, o perché incapaci di produrre un volume vocale ricevibile. La canzone italiana quest’anno non c’era (è la prima volta o no?). Al suo posto costumi, scenografia, luci lampeggianti, finti applausi, sorrisi, abbracci, entusiasmi autoindotti. Quasi un’intera settimana di Festival della canzone senza canzoni. Il gruppo dei famosissimi romani di cui non ricordo il nome, che hanno trionfato in tutto il pianeta continuando a urlare trionfalmente “siamo fuori di testa!”, era arduo credere che cantasse e che potesse entusiasmare qualcuno.
Il problema era uno solo: come riempire almeno in apparenza, almeno per qualche minuto, un tale gigantesco vuoto pieno di vuoto. C’era il povero papà Mattarella, dignitosamente, pazientemente inespressivo di fronte a quel pazzoide di Benigni che da anni e anni nasconde la propria enfatica inconsistenza di attore sotto le maschere o della Divina Commedia, o di Pinocchio, o della Costituzione e di altri valori nazionali. Ora, se non sbaglio, sta cercando di sedurre Papa Bergoglio, che non credo caschi in trappola: di trappole intorno a lui e al suo papato ha imparato a conoscerne parecchie e per questo, credo, evita gli scolasticismi teologici. Ma forse l’anno prossimo, se ci sarà ancora il mondo come lo conosciamo, a qualcuno verrà in mente di invitare il Papa ad aprire o a chiudere il festival.
Per quanto mi riguarda, volendomi ricordare di essere italiano e di non essere insensibile alle canzoni italiane, ho dovuto ricorrere ripetutamente a vecchie cassette, trentatré giri e cd di Paolo Conte, Mina, De André, Lucio Battisti e la “testaccina” Gabriella Ferri che canta una dozzina di classiche canzoni napoletane come neppure i napoletani riescono a cantare. Non sazio, ho fatto ricorso ad Adriana Asti per provare emozioni disperatamente populiste con la Milano d’antan. Prendiamone coraggiosamente atto! Non è possibile inventare canzoni se non si ha niente da cantare, niente da dire, niente di pensato e di sentito. Se in Italia non c’è più l’Italia, può essere possibile scrivere e cantare canzoni italiane? A Sanremo, per sfuggire al nulla divoratore di tutto, si è dovuto ricorrere all’eterno, simpatico ma insufficiente Gianni Morandi, che si è visto costretto, per rifarsi a un’autorevole passato, a reinterpretare, a quasi ottant’anni, “Fatti mandare dalla mamma a prendere il latte. / Devo dirti qualche cosa che riguarda noi due”, una cosa che valeva quando i tredicenni erano al servizio della mamma casalinga e i cellulari non c’erano. E’ stato poi premiato alla carriera il simpatico Peppino Di Capri (“Meglio tardi che mai!”, ha detto lui) e poi è comparso l’insopportabile, smielato Gino Paoli. Insomma, per esistere si deve echeggiare e fingere con il passato una continuità che non c’è.
Ma ecco che mi viene in mente davvero il passato, quando in Italia c’era un’entità sociologica denominabile “popolo”. Si può essere sostanzialmente popolari, come pretende Sanremo, se non c’è niente che sappia di popolo? I cantanti attuali sono fiorellini senza gambo o perfino di plastica, profumati con un po’ di spray. Che un Festival di Sanremo sia riuscito bene o male, importa poco. Ma è il modo in cui è riuscito male la cosa più deprimente perfino per chi lo ha appena assaggiato. I giovani che cantavano c’erano. Ma perché non sapevano né cantare né che cosa cantare? Dietro le loro “ininterrotte movidas” di oggi, a quanto pare, c’è un deserto.