L'esercito degli yuppie
Nelle piccole aziende italiane comandano i 60enni che hanno paura di investire. Sotto di loro, i 40enni sognano di sentirsi realizzati. Poi ci sono gli “eterni ragazzi” sottopagati. Un modello tanto tradizionale quanto fallimentare
Ne avevamo il sentore, ma ci sono voluti i dati Ocse e l’inflazione per confermarlo: i nostri stipendi fanno pena, non crescono da vent’anni e anzi decrescono, unici in Europa. Inoltre, anzi a parziale spiegazione, le aziende non innovano, non si dedicano all’innovazione di processi né di prodotto, faticando quindi a creare posti di lavoro qualificati. Le nostre aziende, poco produttive, non si aggregano, e quindi restano piccole, con pochi dipendenti, familiari. Ogni tanto vediamo a quali aberrazioni possono dare vita le aziende familiari, ma vale la pena guardare dentro ai luoghi di lavoro oggi, queste piccole-medie imprese italiane, per decifrare le malformazioni di un modello che chiaramente non ci sta portando da nessuna parte. Vale la pena anche analizzare la nostra situazione di under 40, e di donne, in questo modello, il nostro ruolo, e lo spazio di crescita, non tanto in un’ottica di lagna (la lagna non è più ammessa, e questo è uno dei concetti più classisti dei nostri tempi, dato che si lagna principalmente chi non ha un’alternativa) ma in ottica di economia liberale, talento sprecato, pil mancato, vizi endogeni e responsabilità della nostra “classe dirigente”.
L’Ocse conferma che in Italia gli stipendi fanno pena, non crescono da 20 anni e anzi decrescono, unici in Europa
Se avete mai lavorato in un’agenzia di comunicazione, di pubblicità, di Pr, di digital e dintorni, sicuramente conoscete il tipo: direttore creativo che scimmiotta lo yuppie pubblicitario dei tempi d’oro di Publitalia, un periodo tra l’altro che nessuno di noi ha mai conosciuto, perché da che abbiamo iniziato a lavorare gli stipendi, anche se nella comunicazione e nel marketing sono meno peggio che in altri settori (la cultura, per dirne uno), fanno comunque abbastanza schifo. Allora perché lui, il dc, il direttore creativo, meno di 40 anni, si aggira ancora col ciuffo immobilizzato in un chilo di gel, la foto profilo al Radio Rooftop con skyline milanese e uno spritz col Campari – il Campari – in mano? Perché parla come un broker della city e si veste come il fratello oligarca di Steve Jobs?
Uno di questi, una volta, mi ha comprato un computer. Me l’ha comprato dal telefono, al tavolo di un aperitivo; come lo vuoi? mi ha chiesto, rosa, ho risposto. Ce l’ho ancora. Era il giovane socio di un’agenzia di comunicazione digital (appunto), e aveva la mia età. Il computer l’avevo chiesto come compenso per l’acquisizione di un nuovo cliente, oltre alla retribuzione che non iniziava neanche a coprire tutto il lavoro tangibile e non (ore, contatti, relazioni) che avevo impiegato nel processo. Però il computer non era mai arrivato, fino ad allora. Eravamo quella sera in un ristorante a Isola – ma certo – e al tavolo c’eravamo io, lui, la sua diretta sottoposta, a cui lui lanciava cubetti di ghiaccio nella scollatura, e una serie di persone esterne, quel contorno necessario a mescolare per bene lavoro e vita privata, dovere e piacere, blurred lines, direbbe Robin Thicke. In questo quadretto tipicamente milanese, tra alcol e cubetti di ghiaccio, amici di tutti, fidanzati perplessi, io a un certo punto riprendo la storia del computer. Una micidiale rompipalle over 30. Allora lui tira fuori il suo iPhone mega e mi dice ok, ora te lo compro subito, come lo vuoi? Se non ci fosse stata una certa competizione di testosterone al tavolo e se io non mi fossi trovata lì, fuori da ogni orario di lavoro, non avrei il mio Macbook pink gold, per dire. Poi, per aggiungere casino al casino, inappropriatezza a inappropriatezza, è arrivato un tizio che avevo conosciuto su Tinder e con cui ero uscita un paio di volte; un quasi-cinquantenne olandese che viveva al Bosco Verticale. “He is my boss, he just got me a computer”, ho detto. E’ stato il momento in cui più mi sono avvicinata a sentirmi una bimbo in vita mia.
Mi hanno chiamato “la ragazza” una quantità di volte obiettivamente imbarazzante per una che lavora da 13 anni
Non mi hanno più fatto regali, in compenso mi hanno chiamato “la ragazza” una quantità di volte obiettivamente imbarazzante per una che lavora da 13 anni. Del tipo “puoi briffare le ragazze”; “Lei è la ragazza che ci aiuta coi copy”. Noi siamo le sempre-ragazze; loro sono i manager, i creativi, gli strategici, i visionari. Ma la realtà è che neanche loro contano niente, le decisioni le prendono i buoni padri di famiglia che queste azienducole le hanno fondate, in tempi di crescita esponenziale del digital, dei social media, degli investimenti dei brand nei social media. Chi comanda è gente che ha tra i 50 e i 65 anni, prende sempre le decisioni più conservative, non cresce mai, non investe mai, tira avanti a contratti di apprendistato e poi dice: i giovani bravi non si trovano. Il numero delle imprese italiane impegnate in investimenti innovativi cala costantemente: nel triennio 2016-18, cioè pre Covid, era già calato del 6,2 per cento rispetto al precedente. Nel 2020 la spesa sostenuta per le attività innovative è stata un quarto di quella del 2018. Le piccole imprese perlopiù non si avvalgono degli incentivi pubblici: lo fa solo il 15,9 per cento.
Non so se il computer di un collaboratore valga come spesa innovativa, so che il buon padre di famiglia di quell’agenzia di comunicazione proprio non me lo voleva comprare. Il giovane socio me l’ha comprato per ribellione, per sentire di poter decidere qualcosa. Perché voleva uccidere il padre, ma senza troppe responsabilità. La satira del modo di lavorare di queste realtà, dall’agenzia di comunicazione alla moda, ha tutto il suo filone social-letterario, da “Agenzia Stanca” a “Fecondazione Prada”, ma è una satira così rassegnata da sembrare quasi compiaciuta. Una grande legge dell’imbruttimento è il compiacimento dell’imbruttimento. E cioè vivo male, ma almeno sono parte di qualcosa, appartengo, ho una mia tribù. Odio tutto ma non cambio niente, e appena mi danno un po’ di potere faccio uguale, lavoro per conservare.
E questa è la locomotiva d’Italia, trainata dai 50-60enni che hanno avuto una buona intuizione 30 anni fa, sostenuta dai quasi 40enni che imitano i vecchi yuppie in cambio della promessa di sentirsi realizzati (a dire il vero questi maschi creativo-strategici hanno anche dei buoni stipendi, sono le api regine del mondo maschile, pagati per portare avanti un ideale di successo, supponenza e dominio). Naturalmente, tutto è possibile grazie alla manovalanza dell’esercito dei sempre-ragazzi. Apprendistato, impiegati a 1.200€, freelance di ogni età, donne ferme alla base della piramide. I freelance non passano mai di moda perché sono attivabili a comando, diminuendo ancora di più l’investimento necessario a mantenere un cliente contento. Vai dall’azienda e gli dici che hai una squadra di 10 persone. A volte mi fanno presentare direttamente al cliente e dicono: lei è il direttore creativo, e io sono come una comparsa, il fidanzato in affitto per andare a un matrimonio. Ho fatto il lavoro – un buon lavoro, con quello che ho imparato negli ultimi 10 anni; ma sparirò, a contratto firmato non mi vedranno mai più.
Padre, figlio e spirito santo: la donna si fa spirito, e cioè si fa niente, spiega la filosofa Chiara Bottici in un libro
Questa è la locomotiva d’Italia, e posso immaginare che il resto del paese, in cui le piccole-medie imprese rappresentano la stragrande maggioranza dell’economia, non sia molto diversa. Più calma forse. Meno folklore, meno cubetti di ghiaccio, meno gite assurde a Roma e feste allo Spirit de Milan. Ma il cuore, il nocciolo, è che non andiamo avanti perché replichiamo il modello della famiglia tradizionale e lo applichiamo all’organizzazione aziendale. Senza la madre: le donne ci sono ma sono parte del sottobosco, appena possono scappano e si mettono in proprio, in imprese monopersonali o bipersonali che però non crescono. Le donne devono, nell’industria italiana, trasformarsi loro stesse in padri. Patriarca, figlio prediletto, i molti figli e figliastri più o meno riconosciuti. Nel mondo del lavoro italiano, noi siamo i perenni figli di una famiglia altamente disfunzionale. E infatti: “Il lavoro povero dei giovani e delle donne”, titolava Repubblica il primo maggio dello scorso anno. L’espulsione della donna è coerente con la tradizione cattolica, in cui alla figura femminile viene tolto anche l’ultimo lavoro, il concepimento, la gestazione e il parto. Padre, figlio e spirito santo: la donna si fa spirito, e cioè si fa niente, spiega la filosofa Chiara Bottici nel volume Manifesto anarca-femminista (Laterza). Quando riappare – soprattutto nelle culture latine, come reincarnazione della divinità femminile – cosa può fare se non piangere?
Non cresciamo perché replichiamo il modello della famiglia tradizionale applicato all’organizzazione aziendale
Nell’azienda, la donna è un figliolo difettoso, pertanto viene pagata meno. A Milano, un’impiegata viene pagata 96€ euro al giorno, un impiegato 125€. Tra i dirigenti la differenza è di 100€ euro al giorno. Al momento delle mie personali Grandi Dimissioni, in anticipo sui tempi di 10 anni, l’unico pensiero che mi ossessionava, nell’edificio di vetro che è la sede di L’Oreal in via Primaticcio, era: non mi pagano abbastanza per fare questa vita. Ho una laurea a Cambridge e faccio, fra le altre cose, la direttrice creativa fantasma: mi sono sottratta alla logica milanese che pure mi ha formato, perché semplicemente non ne valeva la pena.
In questo contesto, dov’è il governo? In quest’economia italiana stanca, demotivata e demotivante, questo circo moralmente guasto, questo stato di sempre-ragazzi, bisognerebbe spazzare via in un colpo solo gli chef lamentosi, i briatori che ai loro tempi “raccoglievano le mele”; le Franchy, i boomer ingombranti e prepotenti. Graziare le partite Iva dai costi che le assillano anche dopo cinque anni dall’apertura, maledetto anticipo Inps, perché tra le partite Iva ci sono gli imprenditori da cui in larga parte dipende l’innovazione; lo stato, che ha investito nella nostra educazione dalla maestra Antenisca al professor Pagetti che mi ha dato 109 perché mentre facevo la tesi lavoravo, a questo stato vorrei dire: che ci impieghi per qualcosa di meglio di così. Siamo stanchi, non siamo più ragazzi, ma non siamo ancora del tutto morti.
Abituati alla tragedia