La libertà che manca
Tra questionari per il consenso e app di dating, diciamolo: non si scopa più
La burocrazia dell’eros emancipa poco le donne e raffredda i maschi. Gli uni impauriti da qualunque malinteso e fraintendimento. Le altre ingabbiate in una prigione concettuale che le condanna a una perdita di audacia
Se questa sera avessi cenato con dieci donne della mia età a Londra – e non in una calda trattoria di Roma, dove ancora vivo a parziale riparo dalla modernità – sarei quasi certamente stata l’unica a non usare, e non aver mai utilizzato, una app di dating. Avremmo ordinato dei drink per accompagnare i pasti, avremmo indossato abiti leggeri a febbraio in totale spregio della crisi energetica, e avremmo scrollato insieme i profili degli uomini nelle vicinanze.
Al netto di possibili deficit di aggiornamento, l’app più adeguata, nel nostro caso, sarebbe stata Inner Circle – la versione high end del più comune Tinder, che mette al riparo gli utenti dalla sòla dello spiantato, del cafone, del disoccupato. Una sorta di app per gli incontri con il filtro anti poveracci, che, a quanto pare, sono la cosa meno desiderabile di tutte, meno desiderabile dei cretini, per dire. O dei maniaci, per dire.
Insomma se fossi stata a questa fantomatica cena a Londra, tutte le mie commensali single avrebbero avuto sul cellulare una app di dating per la ricerca di un compagno di vita, o di un appuntamento galante, o di una notte di divertimento (con il desiderio spesso recondito perlomeno dell’appuntamento galante, ça va sans dire). Alcune di loro sarebbero andate via appena pagato il conto (e forse anche prima) per un drink con il prescelto tra gli scrollati, o magari si sarebbero fatte raggiungere dallo scrollato d’oro nel locale. In questo secondo caso, poi, una tavolata di donne scettiche avrebbe perlustrato con lo sguardo la sala del ristorante, il bancone del bar, l’ingresso del posto, per indovinare la corrispondenza (per il vero, quasi mai perfetta) tra la foto sull’app e l’immagine in carne e ossa. E magari le donne sposate, o fidanzate, della tavolata, è proprio così che avrebbero trovato la loro anima gemella, e avrebbero raccontato con toni epici di come lo strumento tecnologico abbia cambiato loro la vita.
Le ragioni per cui in certe parti del mondo la diffusione di questi strumenti è capillare, e quasi la regola, rispetto al nostro paese in cui ancora la faccenda è per certi versi stigmatizzata, sono a mio avviso almeno due. La prima, la più seria – che in quanto tale, come scriverebbe il professore, non troverà spazio in queste mie riflessioni – è che in società fondate sulla finalizzazione e il risultato, conoscersi inutilmente resta tutto sommato una gran perdita di tempo. In altri termini: investire tre serate per poi scoprire che quello è allergico al gatto, o non ama viaggiare, o detesta il sushi, o a quarant’anni ancora suona il bongo. Ebbene, le app di dating dispongono di appositi spazi in cui volendo si possono leggere e fornire tutta una serie di informazioni per garantire un livello minimo di return on investment.
Anche la più classica divergenza tra obiettivi può essere in molti casi scongiurata: le app di dating permettono, a chi ne abbia il coraggio, di dichiarare sin da subito se le intenzioni siano serie o, come si suol dire, just for fun. Margine per le brutte sorprese (poi però anche per le belle) praticamente azzerato.
La seconda ragione, molto più prosaica – di cui quindi ci occuperemo volentieri – è che in certe parti del mondo, senza consenso informato, praticamente non se scopa più.
In queste parti del mondo – ma, diciamo, nel nuovo mondo che se non è arrivato è già in arrivo – è infatti in atto già da tempo una lotta senza quartiere. A cosa esattamente, è difficile dirlo: in estrema sintesi una lotta del tutto legittima a qualsiasi forma di costrizione della sfera relazionale, la cui radicalizzazione porta però con sé come danno collaterale una lotta all’erotismo, alla seduzione, alla casualità, all’improvvisazione, all’accettazione del rifiuto come elemento naturale della dinamica tra uomo e donna. All’ironia, molto spesso, se le battute devono essere sempre seguite da una scusa e una spiegazione.
E quindi, in questo nuovo mondo, se da un lato giustamente si demonizzano sopraffazione e sopruso, dall’altro si elaborano tecniche di burocratizzazione dei rapporti per contenere i rischi: si regolamenta, si iper-cataloga, si vieta o si obbliga, a seconda dei casi. Ogni spazio è regolamentato. In alcuni party (anche molto underground) di New York, inizia a comparire la figura di un responsabile all’ingresso che con toni educati ma assai gravi invita i partecipanti a non provarci con nessuno, e a evitare qualsiasi comportamento che possa far sentire gli altri harrassed, dal famoso eye contact in su. A me non è ancora mai capitato di andarci, ma mi immagino che divertimento pazzo a queste feste dove tutti ballano con le mani per aria e gli occhi per terra. Si regolamentano persino le feste – e questo ha davvero dell’incredibile, ché per molti di noi, le feste, hanno avuto tipicamente la sola vis attractiva di rimorchiare ed essere rimorchiati: dovesse consolidarsi questa tendenza, chi mai troverà più la grinta di andarci, a ’ste feste con il ghiaccio che finisce a mezzanotte.
Regolamentati i rapporti sui luoghi di lavoro, regolamentati quelli nelle università, dove rigide disposizioni di micro-condotta imperversano negli spazi che per eccellenza hanno favorito nascita e declino di amori, sogni e delusioni.
Uno scrutinio dettagliato delle condotte potenzialmente offensive sta alla base di questo new normal relazionale. In molti uffici, ad esempio, alle persone vengono sottoposti dei questionari piuttosto precisi che servono a mappare il grado di offensività di determinati comportamenti. Evidentemente, il focus di queste indagini sta nel valutare come dei comportamenti di per sé innocui, possano essere ciononostante degradanti per la persona che li riceve. Nei questionari, per intenderci, non si domanda (o non solo): “ti senti offesa se uno sconosciuto per strada ti mette inopinatamente una mano sul culo?”, oppure “ti senti offesa se un tuo superiore si offre di favorirti sul lavoro in cambio di un’uscita a cena?”, che sono comportamenti oggettivamente esecrabili, violenti e lesivi della dignità femminile. No, in questi questionari viene invece domandato: “ti senti offesa se un tuo collega si offre di pagare la colazione?”. O anche: “ti senti offesa se un collega ti aiuta a indossare il cappotto? Ti senti offesa se un uomo ti cede il passo per entrare in ascensore?”. Si opera, come è evidente, nella sfera del soggettivo. Ad esempio, a queste domande, io avrei risposto, nell’ordine: “no”, “ma dove li trovate ’sti colleghi, beate voi”, “no”.
E in effetti quando mi è capitato di doverlo compilare davvero, uno di questi questionari, forse sarò sembrata strana, magari retrograda, o forse solo una trentacinquenne italiana, ma insomma io ho risposto sempre no, e avrei voluto aggiungere che io in genere mi offendo di fronte a comportamenti offensivi, e, negli altri casi, se proprio la storia del cappotto non mi va giù, lo metto da sola, ’sto cappotto, e che in fondo questa immagine della donna che subisce subisce subisce senza poter mai togliere il cappotto dalle mani di un uomo o senza passargli davanti in ascensore – dico, se davvero questa storia dell’ascensore non dovesse davvero andarle giù – non è che proprio mi sembri tanto un’immagine femminista. Ma non l’ho fatto. Concentriamoci sulle cose serie, avrei anche aggiunto. Ma non l’ho fatto.
Io la penso così.
Ma conosco invece donne, anche tra le mie amiche, che avrebbero risposto tre volte sì. Certo del tutto legittimamente: ma davvero questo ci consente di dare la colpa a chi offre il caffè, aiuta a mettere il cappotto, lascia passare per prima una signora? Agli ultimi eroi, per come la vedo io, che mantengono vivo il garbo fine a sé stesso? Eppure è così che è andata, in questo nuovo mondo sanificato e igienizzato, è andata che nello spazio dell’eros in senso lato le regole e i divieti hanno sostituito manu militari la libertà che, va detto, era peraltro stata conquistata con una certa fatica. È successo che, come sempre accade negli spazi soffocati dalle regole, dilaga la paura della violazione, e se la violazione è anche guardare qualcuno dritto negli occhi, allora dilaga la paura di guardare qualcuno dritto negli occhi. E infatti nella metro di Londra nessuno alza più lo sguardo per più di un secondo, fateci caso. Dilaga la paura del malinteso e del fraintendimento, specie perché la sanzione per l’errore non è più solo il rifiuto, e neppure lo schiaffone, e neppure lo sputtanamento, ma in alcuni casi esposti e gogna sociale.
L’ondata di biasimo ha finito per spingere la figura maschile, fiaccata dalla vivisezione comportamentale e dalla costante messa in stato d’accusa, in una posizione di assoluta marginalità. Ma d’altra parte esistere sul piano della realtà come individui è frutto di un continuo e costante processo di definizione, ed è proprio questo diritto alla definizione che agli uomini viene negato, relegandoli in primo luogo a una categoria alla quale imporre condotte uniformi e standardizzate, come se ciò costituisse un necessario passaggio storico in grado di risolvere e vendicare secoli di marginalità femminile.
Non stupisce quindi che il pendant di questa deprivazione finisca per essere la convinzione serpeggiante, tra le donne, che poi in fondo questi maschi non siano così indispensabili come gli ultimi millenni di vita sulla terra ci hanno abituate a pensare. A questa fantomatica cena londinese, per esempio, le mie commensali – e io: sempre strana, magari retrograda, o forse solo trentacinquenne italiana – mi avrebbero spiegato che certamente se lo scrollato di turno non fosse saltato fuori, o non si fosse presentato all’appuntamento, non sarebbe cambiato molto. Gli uomini non sono più indispensabili certamente per il sostentamento (le mie commensali londinesi sono professioniste di successo, a volte con stipendi da capogiro), e neppure per colmare vuoti (le mie commensali londinesi mi spiegano che ci sono moltissime esperienze per sentirsi complete anche senza un uomo accanto), e a dirla tutta neppure per il mero piacere sessuale (le mie commensali londinesi spendono alcuni commenti divertiti sui succedanei, per così dire). Neppure per la procreazione sono più indispensabili questi maschi: per la prima volta in miliardi di anni le donne sono in grado di procreare da sole – solo le donne ricche, va da sé – attingendo al bacino indistinto della categoria in anodine banche del seme.
E sebbene le conquiste ottenute debbano essere senz’altro ampliate e consolidate, sebbene sia una buona notizia che le donne inseguano il successo al pari degli uomini e altrettanto alla pari lo ottengano, sebbene il diritto delle persone single di avvalersi di tecniche di procreazione eterologa debba certamente essere garantito – per ragioni prevalentemente giuridiche – fatico a capire come questo ingigantimento della figura femminile a scapito di quella maschile possa davvero essere una buona notizia. Se è vero che è giusto e buono saper vivere senza un uomo, è anche vero che all’emisfero opposto dove gli uomini sono diventati un orpello inutile non è che si stia benissimo: fa un freddo cane.
Ed è d’altra parte successo che, anche per le donne, provare a rompere questo schema, o anche solo non essere d’accordo, è diventato un po’ come negli anni Cinquanta indossare una minigonna. Una forma di ribellione, una bella mattata, considerando che trovare superflua tutta quest’attenzione per chi paga il conto a tavola produce in pochi casi risposte sulle quali è sensato riflettere, ma anche risposte più violente della violenza che si vuole combattere. Lo stesso movimento #metoo, movimento femminista – cito dal web – contro le violenze sessuali e gli abusi sulle donne ha fallito miseramente nel passaggio da movimento di delazione a movimento ideologico, cioè ha fallito nel compito di dotarsi di contenuti positivi. In altri termini, il cosiddetto movimento si risolve in un brand, che se da un lato reclama un diritto che è quello di denunciare gli abusi (diritto che però già esiste, ed è superficiale pensare che una ragazzina spaurita denunci una molestia perché prima di lei lo hanno fatto delle attrici su Instagram), dall’altro crea uno strano e indesiderabile clima di presunzione di colpevolezza maschile.
Ingabbiando le donne stesse in una prigione concettuale, dalla quale uscire significa non prendere sul serio la lotta per la liberazione femminile, il dramma delle donne che hanno subito molestie: non stare dentro quel filone di pensiero significa insomma stare sostanzialmente dall’altra parte della barricata, non comprendere che solo da questa violenza e radicalizzazione del pensiero può arrivare il cambiamento – anche se non è ben chiaro quale, né perché questo cambiamento debba andare bene per tutte. Ricordo di quella volta che ingenuamente provai a contestare lo slogan (declinazione del #metoo) “sorella io ti credo” – timidamente ricordando che si crede a un’amica, si crede a quello che si è visto, si crede all’esito di un processo regolato dal diritto penale, ma non si crede a prescindere, credere a prescindere non fa bene a nessuno, in primis non fa bene alle donne molestate. Ebbene quella volta la mia faccia fu mangiata dalle valchirie del femminismo, quella volta mi fu dato della maschilista vittima del patriarcato – vittima del patriarcato a me, vittima del patriarcato a me, io come Mario Brega, “io non so’ femminista così, so’ femminista cosìììììì”.
E allora uno si domanda, una si domanda, una dice, ma allora che senso ha tutto questo casino e tutti questi sforzi, se l’unico risultato è riempire il vuoto con questo unico pensiero dominante da cui è impossibile discostarsi. Ma come facciamo a chiamarla libertà questa maniera monolitica e ottusa di concepire la libertà. E allora, posto che tra il caro bollette, lo stress del lavoro, i tessuti che iniziano inesorabilmente a rilassarsi, qui non è detto che si abbia voglia di abbandonarsi ad atti eroici, le donne stesse accettano con fare quieto questa nuova ineluttabile èra, in cui il rapporto tra i sessi è disciplinato come una partita di burraco. Tutto è quieto, quello che non è consentito è proibito, non si corrono rischi e i treni arrivano in orario. Gli uomini non osano e le donne accettano la loro perdita di audacia e che la loro immagine si sfochi, ché altrimenti non sta bene. Tutto si disperde e fluttua in questo magma di noia. Gli ambiti in cui è lecito lasciarsi andare sono un numero sempre più ridotto, neanche le feste sono rimaste più, l’abbiamo detto, neanche le discoteche sono rimaste, neanche i peggiori bar di Caracas.
Solo in un posto, a ben vedere, ci si sente al sicuro in questo nuovo mondo così freddo, così glaciale e noioso, così burocratico e fascista: lo spazio felice del web, in cui esiste un luogo in cui si incontrano domanda e offerta come in una piattaforma di brokeraggio finanziario. In cui, da un lato, quando ci si mette a disposizione si assolve al proprio dovere informativo fornendo le caratteristiche principali dell’investimento in maniera precisa, o a volte precisissima. Dall’altro, quando si investe, si va alla ricerca, per quanto possibile, del prodotto più adeguato alla propria profilatura di rischio, tra l’amore della vita e il just for fun. Ma soprattutto, in entrambi i casi, le parti rilasciano un consenso informato, e cioè una conferma di adesione consapevole alle regole del gioco e ai rischi che a questo gioco sono connaturati. È la sola presenza sulla piattaforma, infatti, a rappresentare una forma di accettazione che il rapporto venga portato sul piano della seduzione reciproca, ed eventualmente dell’erotismo. Che non vuol dire, evidentemente, che qualsiasi cosa sia consentita, o che l’essersi incontrati su una app di dating rappresenti un consenso al rapporto fisico di per sé, o a qualsiasi piega e conseguenza, ma certo rappresenta una timida ma inequivocabile apertura al mondo dell’attrazione, e un accordo reciproco di fuga dalle regole e dalle relative sanzioni.
Le persone si scrollano, si scambiano un cuore telematico – una via libera al contatto nel luogo virtuale dell’app, e questo parlarsi nel luogo virtuale dell’app, una volta saltati fuori e sbucati nel mondo reale, è una base solida sostanzialmente impossibile da negare. Come dire: la ditta non accetterà reclami se ti aiuto a indossare il cappotto, o addirittura mi avvicino per darti un bacio. Come dire: firmami il tuo consenso informato, e io ti guarderò dritta negli occhi. Dio come crescono pavide le persone in questo nuovo mondo.
È forse avvilente, e certamente strano, dover accettare che la normale dinamica tra uomo e donna, la ricerca, l’equivoco, il tentativo andato o meno a buon fine, l’immaginazione e la realtà, quei fraintendimenti che animano le serate con gli amici e popolano il nostro lessico famigliare, abbia oggi bisogno di salvacondotti virtuali per essere legittima, e che piccoli e medi schermi proteggano la libertà degli individui e ne accompagnino le scelte. Se avessi davanti un’adolescente oggi, una di quelle che tra una ventina d’anni avrà la mia età, le direi di imparare a dire di sì e di no secondo voglie e coscienza, di trovare il modo di segnare gli spazi senza intermediazioni. La inviterei a mettersi al riparo dalle cose offensive, da quelle pericolose e sgradevoli – ma non da tutto. Le direi che il corpo non è ambiguo, perché il corpo è libero ed è il nostro confine, e d’altro canto – come diceva la poetessa? – la poetessa diceva: “A questo serve il corpo: mi tocchi o non mi tocchi”. Sono abbastanza certa che tra qualche anno le quarantenni sedute a cena nella stessa calda e rumorosa trattoria dell’Esquilino, a Roma, dove oggi si combatte eroicamente contro il gelo della contemporaneità, avranno anche loro tutte sul cellulare delle app di incontri, su cui dare e raccogliere proposte con consensi informati.
A me, un po’, dispiace per loro.
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