bye bye superdonna
La tuttofare perfetta è un modello che non tiene più. Jacinda e le altre
Ecco l'epidemia di grandi dimissioni al femminile. L'ad di YouTube è l'ultima nella lista. C'entrano i figli ma non solo: forse le aspettative per queste superdonne sono esagerate
La gonna si addice al trono. Ma anche su un trono si consuma. In questi giorni, settimane, mesi, anni, accade che in tante abdichino alla carriera per ripiegare in casa. L’hanno fatto Susan Wojcicki, ad di YouTube, e poi le premier Jacinda Ardern e Nicola Sturgeon. Sarà che l’altra faccia della famosa crisi del maschio è la superdonna in difficoltà. Sarà che l’uomo, dal fare una cosa sola – fosse scrivere o zappare – s’è trovato un giorno sperduto al supermercato, a far la spesa, solo e abbandonato dalla donna in carriera. E sarà forse che quest’ultima è la sua gemella, altrettanto stanca, ma per motivi opposti. Ragazze forti e multifunzione migrano verso il nido. E se fare una cosa sola – scrivere o zappare – è contro la cultura che avanza, saper fare tutto – e tutto benissimo – è contro natura. Se una cosa sola è incompatibile con un mondo in cui dalla notte al giorno ti sei trovato a stendere i panni, essere madre e capa alla perfezione tende i nervi al massimo. Non è cosa di questa vita. Al punto che forse per questo, costrette a scegliere fra meeting e pianti, alcune ripiegano ancora nel teporino dei pianti.
Fresca di dimissioni è Susan Wojcicki, pilastro Google per un quarto di secolo e per un decennio amministratore delegato di YouTube. Anni a scalare, con in groppa cinque figli, per poi capire che le priorità – come si suol dire – sono altre. A cinquantaquattro anni, in quello snodo spietato in cui una saggia qualunque si prefigge di tirare i remi in barca, di chetare la sete di conquista, di allentare i maschi – per esempio – e di guardare con amor fati alle mille mute del mondo, anche Susan Wojcicki crolla. E con dolcezza ammette che è tempo di un capitolo nuovo. Di nuove notti e nuovi giorni. Di nuove pagine di vita comoda, lontana dagli spasmi della Silicon Valley. Al riparo da quella hustle culture che in italiano – senza troppa astuzia promozionale – potrebbe banalmente tradursi con “lavorismo”.
L’ad di YouTube non ne può più. E le prime pagine si ritrovano tutte sgomente al lievitare del gender gap: con le donne che levano le tende, scrivono, il patriarcato indurisce la scorsa. Allora, all’unisono, si chiedono perché. Perché Susan molla? Perché la capa dei clippini, ad di YouTube, oggi dice basta? Sarà l’ovvio senso di colpa per i figli? O l’escapismo “dalle aspettative” che adesso si porta tanto? (Vedi canzonetta Colapesce Dimartino: da un lato l’Io lavoro per non stare con te dall’altro il Meglio soli su una nave / per non sentire il peso delle aspettative).
Ma che ne sappiamo, noi, dei motivi reali. Forse neppure c’importano se il tema vero è il totem che va in frantumi. Lo schianto della superdonna che tutto può: la crisi della femmina conciliante figli e bottega. Ed ecco che, ancora una volta, l’idolo moderno che tutto raduna in sé – moglie, madre, figlia e persino capa – quell’idolo dove tutto sembrava tenersi senza increspature, dà fuoco a sé stesso come fosse un fantoccio. La superdonna si dimette: e ciò che rappresenta brucia, divampa, come in un rito tribale, in favore della vita fertile. Questo suggerisce, al di là di ogni ragione che mai sapremo, la burning-woman californiana. Un ritorno alla prole di chi non regge l’onere di un superdonnismo faustiano.
Quella di Susan Wojcicki è un’immagine che diventa parabola. Fu proprio nel suo garage che la giovane Wojcicki animò il fuoco sacro dell’Internet. Laggiù dove due studenti di Stanford, Larry Page e Sergey Brin, concepirono il motore di ricerca. Google nacque sotto l’occhio della giovane Susan. La stessa che anni dopo guiderà YouTube portandolo a 29 miliardi di ricavi. Questa donna fortissima ma via via più convinta – a forza di scalare – che se di lavoro si campa, di lavorismo si muore. Wojcicki, negli anni, smette le vesti di consacrata al click. Fa cinque figli. E tutto sembra filare sino all’ennesima maternità. Dopo il quinto figlio, la capa torna in ufficio col flagello mentale tipico della madre che lavora: s’inzeppa di sensi di colpa, è soffocata dal perfezionismo. Così racconta una ex dipendente su LinkedIn, il social della gente seria, borgo del lavorismo selvaggio (breve ricognizione social: se scribacchi come noi, ti piace Twitter; se canticchi o sgambetti, sei su TikTok; se piazzi mascara o tramonti, vai su Instagram. Ma se lavori – se cioè fatturi per davvero – non puoi che aprire LinkedIn. Per tutto il resto c’è Facebook, bastione di pensionati e scrittori falliti). “Non devi essere grande in tutto”, la consolava quindi la ex dipendente, “ma solo brava quanto basta”. Ed è questo il punto che – al di là delle vere ragioni – pongono le damazze dimissionarie.
Col patriarcato in fase terminale si discute a lungo di come rompere tetti di cristallo e procreare in simultanea. E non sono chiacchiere vuote se il modello di “donna porosa” – ovvero madre, figlia, moglie e capa tutt’insieme – non è incarnato da nostra cugina manager di provincia e mamma a quarant’anni di un figlio e mezzo, ma dalla donna più potente al mondo (fonte Forbes 2022). Non nostra cugina, dunque, ma Ursula von der Leyen: discendente dal Barone di Brema, figlia del presidente della Bassa Sassonia, nonché madre di sette figli venuti al mondo come conigli (pari pari alla contadina di De Gregori anche se lei è regina d’Europa. Il figlio – come la morte – è una livella). Una pietra di paragone durissima, la von der Leyen, per ogni ragazza che sogni il potere.
Essere vincenti vuol dire essere “donne porose”: madri, figlie, mogli, manager e magari pure un po’ gattone (almeno in segreto). E allora non stupisce che le dimissioni delle cape facciano tanto rumore. Sono il segno di un modello vincente che sfiorisce e non sta più in piedi. Possiamo credere, infatti, che se la von der Leyen sbologna i figli a chissà che gioia di bambinaia, nostra cugina manager s’accontenta tutt’al più della scuola carina (metodo Montessori) nella speranza che col “tempo pieno” la figlia si sfoghi e, tornata a casa, non sia peste. E le consenta di lavorare.
Al di là di ogni realtà che resiste, dunque – sia Ursula o nostra cugina – quanto emerge con le dimissioni di Wojcicki è una superdonna allo sbando.
E’ arrivato anche il turno di Nicola Sturgeon, la premier scozzese che ha annunciato il suo ritiro. Ma chissà non sia effetto di quella che in Nuova Zelanda chiamano “Jacindamania”. Il fascino spietato di Jacinda Ardern che dagli angolini del Commonwealth si riverbera in Regno Unito. Prima di Sturgeon – e solo un mese fa – la bella premier neozelandese salutava il popolo in lacrime per tornare al suo cantuccio. Dopo aver messo in atto le misure anti Covid fra le più stringenti al mondo, questa quarantenne magnetica ammetteva di non farcela più. Un fatto incredibile ripensando al pugno di ferro in tempo di pandemia. Doppiamente assurdo se si pensa che la Ardern fu – insieme – primipara e premier: il 21 giugno 2018 faceva ingresso nell’ospedale cittadino di Auckland dando alla luce, dopo poche ore, la prima figlia. Come può – ci si chiede – una che giovanissima si prende il mondo con un bebè in braccio, un bebè di nome Neve Te Aroha (che in maori vuol dire “amore luminoso”), come può mollare la presa? E come può per di più piangere? Mistero. A meno che non si pensi alla natura che recupera i suoi spazi.
Jacinda Ardern non ha più le energie. Ha finito la benzina, dice. E da un certo punto di vista compie un miracolo. Manifestando – a sorpresa – un attaccamento al potere al di sotto di ogni aspettativa. Compie così un gesto che a un maschio costerebbe la lettera scarlatta dell’anti vir, e che una donna può permettersi con annessa lacrima sul viso. E questo è un bene, perché il potere – come la donna – è mobile. E la donna – in quanto mobile – lo sa da prima e meglio di un uomo.
Comunque, dietro il fantoccio che brucia, c’è una domanda che le superdonne ci pongono più o meno consapevolmente. E la domanda è: davvero volevano far tutto alla perfezione quelle che alla fine son scoppiate? Risposta: Chissà. Ma certo ci hanno provato o almeno così ci è sembrato. E hanno provato poi che altro è la volontà di potenza – la santa voglia di vivere che ci spinge alla meta – altro la mania di onnipotenza. Comandare, amare, farsi fecondare, mettere al mondo vite e allevarle non è che sia proprio un atto di hybris, ma quasi. Certo lo è il solo pensiero di fare tutto nel migliore dei modi possibili. Altrettanto è auspicare il migliore dei mondi possibili che ci soccorra nella maternità superdonnistica: il mondo fa quello che può. E alla fine, se vuoi scalare, devi mettere in conto che a tuo figlio possa non piacere, che a te lui possa mancare. E allora? Allora pazienza. Perché se sei timoniera della più importante piattaforma di Web 2.0 e sei capa di un paese che fa tendenza, ti aspetti mica di tornare a casa per le pappe? Non che le due cose – comandare un popolo e fare un figlio – debbano reciprocamente scartarsi, anzi, ma non sarà un po’ folle l’idea di fare tutto per bene o per benissimo? E non sarà forse il caso, adesso, d’inventarci un modello un po’ meno idealista, un po’ più realista? Lasciando perdere l’impossibile, l’assoluto, e convincendoci col nostro Chesterton che “se una cosa è degna di essere fatta, vale la pena di farla, anche malamente”.
Foss’anche la mala pappa d’un pupo o la mala educazione del pupo stesso. Ma poi, se sei mamma e sei premier, è possibile che la pappa sia cotta tanto male quanto quella di nostra cugina? La famosa cugina – mamma a quarant’anni – che in cucina armeggia con la sinistra. (E qui s’apre un tema: quante superdonne ci sono? Ci sono quelle che sfondano cristalli e consumano scranni ma pure quelle che scrivono mail con urli belluini di sottofondo. Ma questo, appunto, è un altro tema).
Si diceva dell’effetto Jacinda in Regno Unito. Nicola Sturgeon non ha avuto figli, come Angela Merkel e Theresa May. Ma per quanto sollevata dalle pappe, la prima ministra e leader indipendentista dello Scottish National Party ha annunciato le dimissioni, con evidente disagio. “Sono un essere umano”, ha detto lei. Anche se non sono madre, avrebbe forse voluto dire ai machisti (e aggiungiamo noi). Sono un essere umano pur col piglio da negromante che approva leggi sul cambio di genere a sedici anni. Sono un essere umano anche se sottovaluto – nella migliore delle ipotesi – che a sedici anni ci si sente la mattina figoni il pomeriggio mezzefighe, la notte maschioni il giorno signorine. Perché se “a vent’anni si è stupidi davvero”, figurarsi a sedici, quand’è tutto fluido per definizione, gli sbalzi d’umore sono facili e non è forse il caso d’incentivare una già fisiologica luna storta. Comunque, anche Sturgeon si dimette. E non lo fa per il pandemonio della legge sui baby trans, racconta, ma perché se sei al timone “non hai più tempo per un caffè con gli amici”. La politica è un animale che si prende tutto, anche il caffè. E se poi un tuo amico muore, com’è successo a Sturgeon, e ti ritrovi al suo funerale, allora capisci – tu che madre non sei – che sono esattamente gli amici i tuoi figli o fratelli. Sono loro gli splendidi sostituti di quelli che la vita non ti ha dato. “Ho preso la decisione durante il funerale di un amico attivista dell’Snp”. Un suo fratello, si diceva, se non addirittura un figlio del suo stesso partito. Ed ecco che è sempre in allusione al lessico famigliare che si volta pagina. Si rinuncia e si ricomincia quando non se ne può più. Con la motivazione ufficiale che – per paradosso – fa incursione nella vita intima: si smette di volare per ritrovare un nido. E vero o non vero che sia, non importa. Perché lo “spirito del tempo” più che di ragioni si nutre di simboli, di immagini. Di simulacri più veri della realtà. E più facili a digerire.
Non è che siano poi tante le nuove Cristina di Svezia che si scrollano di regalie salutando il popolo col nodo in gola. Sono una minoranza nella minoranza, dice Sheryl Sandberg, anche lei dimissionaria dopo quattordici anni al fianco di Mark Zuckerberg. Ma sono una minoranza che abdica e fa rumore. E cancella il sogno faustiano e antinaturale del posso-tutto. Della superdonna nel migliore dei modi e dei mondi possibili. Sia esso nel Commonwealth, in Scozia, nella Silicon Valley o nella Scandinavia che ci portiamo dentro. Prima d’accorgerci, infine, che la Scandinavia non esiste neanche in Scandinavia. Che la fantastica Sanna Marin ha una figlia, tiene duro, ma ogni tanto piange anche lei. E si può – e forse si deve – fare carriera e figli accettando d’essere pessime madri. Perché se una cosa vale la pena d’esser fatta – sia pure un figlio – vale la pena di farla un po’ male. Un po’ svagatamente, lasciando il pupo alle tate, alle Marie Montessori o – perché no – al maschio tossico che, in stadio terminale, può pure stare in casa. Ché dal posso-tutto al non-ne-posso-più è un attimo.