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Vi presento lo Sgargabonzi

Chi è Alessandro Gori, fenomeno in ascesa della stand up comedy

Arnaldo Greco

È autore, è comico, è scorretto, è irriverente, è molto seguito, non cerca di piacere a tutti ed è diventato un caso mediatico. Un dialogo (con molte perfidie)

"Se ripenso a me a otto anni, io mi sento uguale a come ero a otto anni. Sarei capace di giustificare una cosa che ho fatto allora come se l’avessi fatta ieri, perché non mi sembra di essere un’altra persona, oggi. Tutte le passioni che c’ho adesso, le avevo anche allora. È per questo che non ho mai fumato o bevuto e non mi sono mai drogato nella mia vita. Non perché giudichi da moralista certe cose, ma proprio perché queste cose, per un bambino di otto anni, non hanno attrattiva”. Quando incontri Alessandro Gori (che molti, online, hanno imparato a conoscere attraverso Lo Sgargabonzi, prima blog, poi pagina di Facebook e che, anche controvoglia, è diventato uno pseudonimo), si presenta subito con questa sorta di proclama efficace, verrebbe quasi da evocare certi echi pascoliani se lui non fosse un acuto e attento osservatore di tutte le espressioni sciatte e abusate della lingua. Ma vale comunque la pena presentarlo così, perché queste parole sono un’ottima anteprima di quella che poi sarà una lunga conversazione attorno a nostalgia, provincia e infanzia.

 

“Ho più di duemila giochi da tavolo, è una passione che ho avuto fin da bambino. Lo so che adesso starai immaginando grandi serate con gli amici in cui si gioca in mezzo a birre e patatine. E invece no. Col cavolo. Amici sì, tantissimi, arrivano da tutta Italia, ma le carte sono imbustate una a una con le bustine ad alta grammatura perché non voglio che mi si rovinino. Si mangia da un’altra parte. E poi si gioca con severità e disciplina”. Negli stessi giorni in cui si è tenuto a Torino il Salone del libro, si teneva a Modena il Play, il Festival del Gioco, il più importante festival europeo del genere. Per me il vero evento è il Play di Modena, non il Salone del Libro. Infatti, quest’anno che le due sono coincise mi sono un po’ girati i coglioni. Io non mi perdo un’edizione del Play, perché il gioco da tavolo per me è un’arte spettacolare e purissima, fatta di pura astrazione. Le illustrazioni e le ambientazioni non c’entrano niente, è una cosa che decidono all’ultimo le case editrici per vendere meglio un prodotto. A me, invece, interessa la meccanica del gioco, l’algoritmo, gli ingranaggi che girano, l’immateriale e l’esoterico che c’è dietro. E poi a Modena posso ascoltare le conferenze degli autori che amo. Mi piacerebbe prima o poi poter intervistare quello che per me è il più grande artista vivente: Reiner Knizia”.

 

Da dove nasce questa passione? “Mi ha sempre affascinato come i giocatori investano più concentrazione e impegno nel gioco che nel proprio lavoro. Anche se magari con quello ci campano e, ovviamente, col gioco non ci guadagnano niente. Eppure, si concentrano di più. Perché lasciano il mondo fuori per quelle due ore. Nella testa del giocatore c’è il silenzio, attorno ad una plancia vige una concentrazione ieratica. Il gioco ti illude di dare un ordine al caos. E forse è un tentativo dell’essere umano di allontanare l’ansia della morte. O almeno lo è per me”. Cos’altro per te allontana l’ansia della morte? “La riviera romagnola. Da figlio viziato, sono allergico alle scomodità e per questo amo la Riviera Romagnola. Mi piace come non si sia mai venduta in una maniera diversa da quella che è. Guarda la bellezza dello skyline della riviera visto dal mare: vedi che ci sono gli stabilimenti balneari, poi dietro gli hotel, i bar, le gelaterie, le edicole, le sale giochi, i minigolf. Insomma, tutti luoghi di passaggio che puoi frequentare solo se non hai fretta. E a me della Romagna piacciono soprattutto le località turistiche. Quelle che si accendono a maggio e si spengono a settembre. Mi piace passeggiare per strada sapendo che dietro le mura delle case non c’è nessuno che sta morendo di un brutto male. Perché uno muore a casa sua o all’ospedale. Ma se vai in vacanza vuol dire che hai del tempo da perdere. Per questo è come se la Romagna riuscisse ad allontanare l’ansia della morte. Inanellando proposte semplici ma sempre piacevoli. La colazione in hotel, la passeggiata sul bagnasciuga, il bagno in mare, il prosciutto e melone a pranzo, la pennichella al pomeriggio, la nuotata all’imbrunire, l’aperitivo con gli amici, il cinema all’aperto. Io mi faccio un mese e mezzo a Milano Marittima ogni anno, da quando ero molto piccolo. Senza essere mai entrato in una discoteca, ci tengo a dirlo. E poi la Riviera parla solo a chi sa capirla. Arrivo io e ha un mare caraibico. Il giorno dopo mi raggiunge il mio amico con la puzza sotto il naso che va in vacanza in Sardegna e quello stesso mare tira fuori alghe, meduse morte e guanti Spontex. E appena se ne va, quel mare mi torna caraibico”.

 

La scrittura di Gori lavora spesso sull’idea di inserire elementi disturbanti all’interno di situazioni confortevoli. “Sto lavorando a un libro che vorrei si intitolasse "Eglogle", una deformazione di Egloghe di Dante Alighieri. Dovrebbe essere un canzoniere di 123 poesie, illustrato. Le poesie toccano gli argomenti più vari: dalle donne ai parchi acquatici, da Pasolini al Mostro di Firenze, passando per satira, eutanasia, Natale, guerra, poliamore, trap, Corrado Tedeschi, pesci tropicali. L'io narrante non sono io, ma un tizio borderline, maniacale, istrionico, finto inquieto, manipolatore e stalker, che inframezza le sue poesie a tema libero con alcune dedicate alla sua compagna, Luciana, che l'ha lasciato. Attraverso queste poesie lui cerca di riavvicinarla a sé e nel frattempo manipolarla, crearle dei labirinti mentali, portarla alla pazzia. Ci sono poesie dedicate al figlio Loris, ai suoi genitori, ai colleghi di lavoro. Ogni poesia è una tessera del mosaico della vita di questo tizio tanto divertente quanto pericoloso, narcisista, misogino e privo di un Io osservante. Molte poesie sono collegate fra di loro e tutte insieme descrivono una parabola di una progressiva perdita di lucidità”.

 

Da uno scrittore con uno sguardo simile è difficile immaginare che anche nel più confortevole degli ambienti non abbia riconosciuto una goccia di perfidia. “Anche a Milano Marittima, in realtà, se cerchi bene c’è un posto nascosto dove puoi trovare qualcosa che contraddice il mio discorso: una volta, passeggiando verso Lido di Savio, ho visto una signora che non riusciva ad uscire dal cancello di un hotel nascosto da alte siepi. Mi avvicino per aiutarla ma lei mi faceva gesti inconsulti, non riusciva a pronunciare nulla di comprensibile, solo lallazioni. Dopo un po’ ho capito che quell’hotel era una residenza dove i vacanzieri parcheggiano gli anziani. Ho sbirciato dietro le siepi e ho visto uno stanzone di corpi sulla sedia a rotelle e le infermiere che li imboccavano”. (Qui come dimenticare l’episodio dei Nuovi mostri in cui Alberto Sordi porta la madre in un ospizio prima di partire per le vacanze, continuando a porre l’accento sul fatto che lì dentro verrà trattata “come una regina”, anche davanti al personale sgradevole e alle precarie condizione igieniche). L’estate come tempo fermo torna anche in un altro modo. “Ogni anno rileggo sotto l’ombrellone Cuore di De Amicis. È un libro che a molti non piace e che viene criticato quasi in automatico. Ma, per me, De Amicis ha una maniera molto peculiare di caratterizzare personaggi e relazioni. Uno dei miei momenti preferiti è la prima lettera del babbo di Enrico Bottini. Lui fa trovare questa lettera al figlio sul cuscino, prima che vada a dormire. Una lettera in cui lo redarguisce per aver risposto male a sua mamma, scritta con un tono apocalittico. Per l’esagerazione delle cose che scrive, pare quasi che voglia indurre il figlio al suicidio. Oltretutto un figlio disciplinatissimo! Non voglio arrivare a dire che De Amicis facesse una sorta di trollaggio ante litteram però credo avesse molta più coscienza di cosa stava scrivendo di quanto si pensi. Si sarà molto divertito. E la sua scrittura è la dimostrazione di come si possa essere retorici senza essere banali, che per me è una pratica molto più affascinante che fare gli avanguardisti”.

 

Il fascino per il tempo che non sembra scorrere e l’illusione che sia esistito un passato idilliaco torna anche parlando di marchi. “Quando mi dicono che cito le Marche per fare una critica al consumismo… ma de che?! Ma viva il consumismo! Io sono molto legato alle marche, perché se c’è una cosa che è immutabile sono loro. Il sapore dello Stecco Ducale è identico a com’era nel 1986 e per me rappresenta le estati che rimangono sempre uguali, mentre il tuo corpo si sfascia”. È evidente che una visione della vita di questo tipo poi, nella pratica quotidiana, significhi rinunciare a certe occasioni che altri coglierebbero con diverso entusiasmo. “Vivo in un paesino di 1200 abitanti in mezzo ai campi, a cui non è che sia neanche particolarmente legato, solo che ci sono nato, ci vivono i miei genitori e ci voglio crepare. Al mio paese nessuno sa che faccio questo mestiere ed è una cosa che mi garba un sacco. Quando mi hanno proposto di fare lavori come l’autore televisivo, ho quasi sempre detto di no, perché sarebbe significato trasferirmi a Roma o a Milano e non ne ho la minima voglia. Ho accettato solo quelli che mi permettevano di lavorare a distanza”. Ecco, forse una delle chiavi per arrivare a comprendere che tipo sia Gori sta proprio nella difficoltà di etichettarlo, una difficoltà che, pare di capire, provano innanzitutto i suoi colleghi. Per gli scrittori è un autore comico, anzi uno stand-up comedian, mentre per gli stand-up comedian è sicuramente uno scrittore prestato agli spettacoli.

 

Questo suo essere sempre fuori fuoco significa qualcosa? “Non mi va di fare la scena che non ci dormo la notte per l’emergenza climatica”. È questo che fanno gli scrittori italiani? “Non faccio critica sociale perché sarebbe insincero: nella società in cui stiamo, tutt’altro che perfetta, ho la fortuna di starci bene. Questo perché mi fa più paura quello che c’è dopo questa società. E cioè il caos indeterministico. La morte. Il non sentire più. Ricordo di aver letto, una volta, lo status di uno scrittore che sosteneva di aver visto una cosa che l’aveva rimesso in pace col mondo. E raccontava una scena del genere: ho visto una signora claudicante scendere da una piccola macchina con le sue sporte. E a passi lenti e faticosi avvicinarsi al bidone della differenziata e, lì, gettare le bottiglie una a una. E ha chiosato: pensate che questa anziana ha fatto questa cosa per delle persone che non le sopravviveranno… a lui quest’immagine lo rimetteva in pace col mondo. Ma a me per niente. Anzi, se ci penso mi rende disperato. Avrei voluto avvicinare quella signora e dirle: senta, se ne freghi, cerchi di stare bene lei”. Cosa ti infastidisce di questo racconto? “Non mi va di nascondere la verità dietro l’impegno. O fingermi diverso da quello che sono. Poi ci credo che qualcuno abbia davvero questa sensibilità. E, se ce l’ha davvero, ha ragione lui. Ma mi piacerebbe, qualche volta, ascoltare delle spiegazioni che non fossero dei confettini al talco mentolato per darsi ragione. Ascoltare qualcuno che ammettesse la propria ipocrisia”. È chiaro che a Gori non piaccia stare troppo in giro, però è stato premiato, da poco, a Forte dei Marmi non solo per il suo libro, Confessioni di una coppia scambista al figlio morente (Rizzoli Lizard), ma anche per gli spettacoli dal vivo. “Ricordo che un giorno qua a Milano, facevo una passeggiata nel parco Lambro e mi sono allungato fino a raggiungere Milano 2, dove non ero mai stato. E il giorno dopo ero a Napoli, pure lì non c’ero mai stato. Un amico, sapendo che avevo visto posti così differenti a un giorno di distanza, mi fa: vabbè, ma te per Napoli ci sarai impazzito, perché lì c’è la merda, la verità. Milano 2 invece t’avrà fatto schifo… ma se mi conosci come puoi pensarla una cosa del genere? Quando sono arrivato a Napoli, abbiamo parcheggiato in Porta Capuana e ho visto subito dei 60enni che si bucavano. In mezzo alla strada, davanti a tutti. E per terra una quantità di siringhe, vecchie, ossidate, dovevano essere lì da glaciazioni. Per carità, bello, perché c’è questa idea che la miseria, quando c’è, deve essere palese. Napoli è poi di sicuro una città complessa e che non cogli di certo al primo sguardo. Però proprio perché io sono morboso e unticcio, allora intorno a me voglio un ambiente che mi dia torto, non una scenografia fulciana che mi assecondi. Voglio la Svizzera, il Listone Giordano, il laghetto col cigno, la santa ipocrisia. A me Milano 2, anche nella sua decadenza – senza che sia un’offesa – è garbata parecchio. Per me è un posto da film di Lanthimos, con queste strade in cui i pedoni e le macchine non si incrociano mai, i ponticelli, i palazzi rossi con i balconi bianchi, i negozi cubici, di vetro, con poche cose. Questi figlioli biondi che giocano a pallone nei parchi verdissimi con i genitori. La trovo una cosa anche fuori del tempo ma che mi ha fatto venire voglia di avere un appartamento lì”.

 

Come spieghi questa avversione? “Per me che arrivo da un mondo contadino le brutture si devono tenere in casa. Tutto quest’ansia di celebrare la verità mettendo in mostra il proprio peggio mi dà un po’ noia. Non c’è niente di buono nella verità”. Dire una cosa del genere su Napoli, mentre siamo in una pizzeria napoletana a Milano dove non possono mancare le ormai classiche stampe seppiate del Vesuvio e di Posillipo coi pini, non può che portare al discorso della suscettibilità del pubblico: come reagisce quando sui social network qualcuno si offende o attacca. “Nei miei anni novanta il sound dominante erano le schitarrate pulite e confortevoli dei Cranberries. Voglio dire che, quando parlavi con qualcuno, avevi sempre il dubbio di poterlo disturbare. Quando arrivava l’ora di cena, ti ponevi il problema se chiamarlo al telefono o meno. Se sospettavi che qualcuno non era in giornata buona, ti dicevi, pazienza, ci ragiono domani. Ora vedo che per rendere frequentabile la mia pagina ho dovuto bloccare più di duecento utenti. Perché era un profluvio di insulti oppure l’esercizio di una cosa che odio più di tutte: la troppa confidenza. Non è che li blocco perché il loro insulto mi faccia venire dubbi sul mio lavoro, eh. Ma perché mi dà noia l’intenzione cannibalistica con cui certi commenti vengono scritti: il fatto che queste persone abbiano digitato quelle parole cercando di crearmi un dispiacere per stare meglio loro. Una sorta di osmosi chimica. Lanciano questa freccia perché se hanno l’illusione che questa freccia mi abbia colpito a loro si libereranno delle endorfine. Se pensano di avermi rovinato la mattinata, loro ne avranno una memorabile. È una dinamica di sottile violenza, ma ormai perfettamente assorbita, invisibile e presentabile”.

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