Il Foglio Weekend
Le ali di Roma: perché la capitale non è degna del suo aeroporto
Viaggio nel mondo di Fiumicino, appena premiato per la sesta volta miglior aeroporto d’Europa, l’unica cosa che funziona nella città
La cosa migliore di Roma, l’unica che funziona, che riceve riconoscimenti internazionali, che investe e innova, non sta a Roma. L’aeroporto Leonardo Da Vinci di Fiumicino, posto nell’omonimo comune sul mare, primo scalo italiano, ha appena ricevuto per la sesta volta il premio come miglior scalo europeo e ha pure preso le cinque stelle nella severissima classifica Skytrax, che valuta 800 aeroporti nel mondo (unico in Italia, in Europa ce le ha solo Monaco di Baviera che però è un aeroportino minuscolo).
A Roma l’altra istituzione che si dà sempre il massimo dei voti è il comune, ma appunto se lo dà da sé. Il dramma con Fiumicino è che i turisti arrivati qua poi hanno aspettative altissime per Roma, che crollano non appena mettono il naso in città. Lo choc può essere fatale, perché ci si aspetterebbe un aeroporto in linea con la città a cui conduce. Fondato nel 1961, dopo il più piccolo Ciampino, oggi per low cost e voli (piccoli) di Stato, Fiumicino o Fco è molto identificato con Roma: è l’aeroporto dei Papi, di Anita Ekberg che scende dalla scaletta per cominciare “La dolce Vita”, di Sophia che sale per prendere gli Oscar, di Mina che canta in un videoclip sopra gli hangar disegnati da Morandi, sì, quello del ponte, all’epoca massimo stilista del calcestruzzo. Il fatto è che oggi Fco non c’entra più davvero niente con Roma. Atterri che pensi di essere a Zurigo e poi si invece sei a Calcutta. Se fino a una quindicina d’anni fa Fco era in linea con la città, tra moquette bruciacchiate e gate scalcinati, oggi tutto è cambiato. A parte l’esser posto nel comune retto dall’assonante Esterino Montino (che abita una farm simil californiana piena d’animali con la consorte Monica Cirinnà), l’alterità si coglie ancor prima d’arrivare: per qualche mistero genetico-aziendale, il trenino Leonardo che vi conduce con silente puntualità e costi irrisori (14 euro) è lindo e popolato da controllori giovani e plurilingue, e passa ogni 15 minuti, praticamente la stessa frequenza delle metropolitane romane.
Arrivati a Fco, si ammira il nuovo terminal 1, appena rifatto, e che fa invecchiare tutti gli altri aeroporti del mondo. Non solo per le coperture ardite, per la bellezza dell’arredo, ma per le comodità tecnologiche. Intanto è uno dei pochissimi aeroporti al mondo dove non devi più estrarre liquidi e computer. Quella micidiale scenetta per cui ognuno perde la sua dignità svuotando alla rinfusa borsoni alla ricerca del deodorante che sarà o non sarà sotto la fatidica soglia dei 100 ml (e il lubrificante? E altri liquidi vergognosi? Oddio). No, lì vai avanti spedito mentre il tuo bagaglio viene sottoposto a una mini-tac, tra legni e finti legni un po’ da motoscafo, di un terminal arioso e funzionale. Non ci sarà la mano d’archistar, ma siete mai stati al blasonato Barajas di Madrid (Richard Rogers, uno dei più scomodi e vecchi d’Europa, con vaschette piene di liquidi che saltellano come i vassoi di una mensa)?
A Fco, passati i controlli, puoi invece subito perderti nel magnifico mondo dello shopping aeroportuale. La nuova area per i voli nazionali e Schengen, inaugurata un anno fa da Mattarella, è di 37.000 mq, dispone di 23 nuovi gate e 11.000 mq di superfici vetrate (e il tutto è coperto con pannelli fotovoltaici, mentre sotto un rivoluzionario sistema idraulico ricicla le acque). Per superare i controlli, se non disponi del sibaritico fast track (ah, i bei tempi della Freccia alata!) ora c’è, diciamo, perché siamo tutti poveri, un fast track riflessivo, un fast track per noi fascia alta dei morti di fame, si chiama QPass, in pratica tu ti prenoti online e gratuitamente e puoi passare da questi varchi riservati all’ora prefissata. E poi finalmente sei ammesso nel nuovo colossale mall, nuova galleria commerciale di 6.000 mq con 21 punti vendita, e lì, puoi perderti in quel fantastico mondo artificiale dell’aeroporto.
Il cinema da sempre ha insistito sull’orrore degli aeroporti come luogo della perdita di senso, come displacement, ma nessuno ha mai cantato le lodi dell’esistenza sterilizzata nell’aerostazione. L’estetica dell’aeroporto ha regole sue proprie e negozi suoi peculiari. Ah, perdersi tra i negozi di cartolerie pregiate Fabriano (chissà chi mai comprerà dei pastelli Fabriano prima di prendere un volo per Linate o Tel Aviv). Ah, scegliere calzettoni tra le mille sfumature e fantasie del catalogo Gallo. Ah, il vestito Boggi, e sei subito "in" Duomo. Ah, la pasticceria Panella, sei tornato all’Esquilino. Ah, selezionare gran cuffioni Sony tra le decine esposti negli Unieuro, anche per attutirsi contro il mondo esterno (richiestissime quelle insonorizzanti o produttrici di rumore bianco, necessarie nel mondo in cui si fanno call e i bebé guardano filmini in viva voce no-stop). Ci vorrebbe un Perec dell’aeroporto.
Per descrivere la tranquillizzante sensazione di accoglienza dei negozi di catena: se ormai le nostre città son tutte popolate solo da negozi uno uguale all'altro, la vera “real experience” sarà venire a Fiumicino anche solo per lo shopping. Rispetto alla città ci sono pure le edicole, si trovano persino i vecchi giornali cartacei che in città sono stati sostituiti da grembiuli piselluti e maglie con scritto chevvoi, mortaccitua, sticazzi (chic). Nelle frequenti librerie del Leonardo Da Vinci, scelte editoriali bizzarre: nella libreria-edicola al piano terra agli arrivi, Tolkien accanto a Lidia Ravera e a Sveva Casati Modignani, accanto a un fornitissimo reparto enigmistica. Ma prima si mangiano dei buonissimi tortellini al nuovissimo Eataly sempre al T1, primo piano, tra turisti “aux anges” per fritti, gelati, puntarelle, e cibo che sa addirittura di vero cibo (addio, piada tumefatta e panino con la cotoletta). Rispetto alla città non ci sono poi venditori di rose, non ci sono macchine che strombazzano in quadrupla fila e i monopattini che intasano i marciapiedi. Non ci sono accoltellatori pazzi né manifestazioni né l’Atac. Forse bisognerebbe vivere qui, nell’Hilton di Fiumicino. E’, anche, la città ideale perché ha il mare accanto, e non chiude mai. C’è perfino un piccolo museo, nel nuovo terminal (molti passano senza guardare pensando siano riproduzioni, ma sono invece vere, degli Apolli, delle Sabine, delle Ninfe, dei lottatori, in collaborazione col parco archeologico di Ostia antica).
Poi naturalmente c’è il duty free, che fomenta quel delizioso senso di non appartenenza, tra le fragranze irrorate nell’aria e lo sberluccichio della merce tax free. La profumeria è il settore trainante, mi dice Stefano Mereu, il responsabile del duty free area Schengen. “Diciamo che il 50 per cento lo fa la profumeria, 30 per cento le cibarie”, il resto io penserei sigarette; invece, mi dice che non è più così, le sigarette non tirano più così tanto. Tramontata l’usanza di quando si partiva anche e soprattutto per portare a casa “la stecca”, forse per colpa del sinuoso Iqos (che però è così brutto, sembra sempre di fumare il telecomando del cancello elettrico). “Sì, vogliono soprattutto profumi, le star sono Acqua di Parma, Bulgari e Armani”, dice il capo del duty. Vendeuses attendono baldanzose le orde di turisti-compratori che attraversano questo labirinto felice (io sognerei di incontrare qui quell’instagrammer dei profumi che va tantissimo adesso, quel sublime coatto, che deve aver svoltato il suo south working, insegnando come spruzzare un’essenza, con cantilena ipnotica: “uno/due-uno/due/tre-batti”).
Tra la parte “food” invece Mereu mi conferma che il bene più ambito è il limoncello, trasformando così una mia sensazione in certezza. Non so se avrete notato, ma ormai il limoncello è la nuova sigaretta nei duty free. Esposto in ogni dove, in ziggurat di bottiglie, su gioiosi scaffali, su mensole invitanti, in bottiglioni di ogni foggia, quadrate, tonde, ad anfora romana. Surclassa decisamente il Campari o Aperol degli spritz nazionali (però anche qui, chi ha mai visto qualcuno comprare una bottiglia di limoncello in aeroporto?). Ma li comprano, li comprano, assicura il responsabile. Le marche sono molteplici: Pallini, Villa Massa, e Bottega. E qui si vorrebbe aprire una parentesi su questo Bottega, marchio di alcolici che alligna quasi esclusivamente nei duty free, con confezioni scintillanti e scapricciate. Tutto è partito, mi sembra, da un proseccone rivestito da una patina dorata “(Gold”) o argentata (“White Gold”, ma c’è anche Pink Gold). Costano poco (massimo 20 euro), sono coattissime, ma il turista coreano o mongolo ci farà un figurone portando il bottiglione a casa. Sono la Prunella Ballor 2023, sono lo spumante che immagino offrirebbe l’instagrammer di profumi, e il brand “Bottega”, apprendo dal sito, è il nome della famiglia, veneta, addirittura di origine secentesche, ben prima dunque che i duty free vedessero la luce. Ma da pochi anni spopola negli aeroporti, giocando mi pare astutamente con l’assonanza con Bottega Veneta. Non si conoscono le cifre, ma chiaramente è stato un successo clamoroso (“nel 2017 Bottega Gold è il secondo spumante più venduto nel travel retail”, dice sempre il sito). Adesso “Bottega” fa anche una crema di caffè e appunto un Limoncello anzi Limoncino (ma col Covid i geniali Bottega veneti hanno lanciato anche una linea Igeny di gel igienizzanti “by Nicole Geromel, realizzati con acido ialuronico”, vabbè). Sui duty free bisognerebbe scrivere trattati: questo, di tremila metri quadri, è il più grande mai realizzato dal marchio Aelia, che fa parte del francese Lagardère. Poi naturalmente c’è la regina dei duty free, Marie-Chantal Miller, che ha sposato Paolo di Grecia (molto ammirati nei recenti funerali di re Costantino, la sua famiglia aveva un altro impero dei duty poi venduto ai francesi di Lvmh). Vabbè.
Però in questo colossale duty di Fco hanno puntato tutto sull’italianità, c’è una “World of Italy area” dove troneggia una vecchia Cinquecento e si possono trovare dalle tazze della Juve alle mozzarelle di bufala nei pratici scatoli di polistirolo bianco a dei tortelli “culatello e Parmigiano Reggiano” che mentre passiamo sono presi d’assalto da turisti. Fuori dalla “World of Italy area” c’è il mondo rarefatto dei marchi multinazionali, ecco un altro prodotto da duty, l’immancabile Toblerone (forse da collezione, prima che tolgano la sagoma del Cervino) e degli Oreo a doppia farcitura e in confezione soft-ecologica che sembra pastiglie da lavastoviglie.
La vita è qui, a Fco. Siamo in attesa di Netanyahu, mentre l’altro giorno la ministra Santanchè è tornata dalla visita di Stato a Berlino in Ryanair. Buttiamoci in pista. Esco fuori e mi getto nel traffico con Orazio Siino, tecnicamente “supervisore sicurezza operativa” di Fco ma per tutti uno dei formidabili “marshall”, quelli che pilotano le macchine con i lampeggianti e sono i veri padroni dell’aeroporto. Sono gli unici che hanno accesso a tutte le piste, possono andare ovunque, sono i guardiani dell’aerostazione. A bordo della sua jeep a scacchi bianchi e gialli con lampeggiante, con la radiotrasmittente sempre accesa mentre ascoltiamo le conversazioni tra la torre di controllo e i diversi abitanti di questo strano affascinante mondo – vigili del fuoco, ambulanze, controllori vari, perché un aeroporto è un sistema complessissimo, c’è la società che lo gestisce in concessione, Aeroporti di Roma, e poi c’è l’Enav, l’Enac, la torre di controllo. Non c’è, come nei film, un vero boss (ecco, qui l’aeroporto assomiglia un po’ a Roma. E però qui il sistema funziona).
Chiaramente non ci sono cartelli, la segnaletica è solo orizzontale, mentre sfiliamo tra un Airbus Ryanair che decolla e un Ita che atterra a pochi metri da noi. Ma come si guida in pista? C’è più traffico che a piazza Venezia. L’aereo ha sempre la precedenza su tutti, dice Siino, anche se viene da sinistra. Ha senso. Poi ci sono loro, i marshall, poi tutti gli altri della catena alimentare dell’aeroporto (pullmini, eccetera). Per accedere al traffico dentro Fiumicino devi essere sempre accompagnato da uno di loro, dotato di speciale patente che ha cinque punti, e se sbagliano vengono velocemente decurtati. Il nostro marshall mentre facciamo un giro di pista avverte subito la centrale che devono mandare “una spazzatrice”. Perché ha visto della sporcizia in pista, e la sporcizia se entra nei motori degli aerei non va bene. Oltre ad attirare animali, che sono, racconta, il vero pericolo per gli aerei. Dalla radio gracchiante si sente parlare di Bcu, che saranno mai? “Bird control unit”, cioè unità apposite a scacciare gli uccelli. Ma non potremmo avere i marshall e gli scaccia uccelli pure in città? “In realtà un uccello normale che entra nel motore non è un problema”, dice lui. Il pericolo sono animali più grandi. Il vero terrore sono le oche canadesi, che causano incidenti drammatici come l’aereo che nel 2009 atterrò nel fiume Hudson a New York proprio dopo essersi imbattuto in uno stormo dei terribili volatili. Così ecco le Bcu, auto attrezzate di speciali clacson che simulano un richiamo che scaccia gli uccelli, e poi ce ne sono altre dotate di speciali cannoncini che servono a spaventarli, e sparano in alto ma in ore sempre diverse, sennò quelli si abituano. Le Bcu battono Fiumicino da un’ora prima dell’alba a un’ora dopo il tramonto. Per evitare che ci siano uccelli o altri animali in pista, sono vietate discariche nei pressi dell’aeroporto. Poi ogni aeroporto ha i suoi problemi, dice Siino. A Linate, per esempio, ci sono le lepri, pericolosissime perché saltano dentro il motore. In Sudafrica i bufali. Cinghiali qui ne arrivano da Roma? “No, non sono mai arrivati”, dice il marshall. Meno male.
Sempre sul tema animali, ma tra quelli trasportati a bordo, gli unici proibiti sono quelli esplicitamente definiti “pericolosi” cioè ragni, serpenti, eccetera, mi dice Pier Luigi Feliciangeli, responsabile veterinario dello scalo. I più frequenti trasportati sono cani, gatti, furetti, e pesci ornamentali, il tutto per circa cinquemila transiti l’anno. Dal 2023 sono vietati gli animali selvatici come le tartarughe. Solo di allevamento. Le compagnie poi hanno dei loro veterinari che assistono gli animali da compagnia tra le tratte e le coincidenze. Gli umani vengono assistiti invece da un pronto soccorso efficientissimo. Usciti dal terminal 1, dopo qualche metro c’è una distesa di ambulanze e mezzi speciali che assistono aerei e passeggeri nel caso si verifichi qualche incidente in pista. Ma soprattutto curano passeggeri e piloti per questioni più banali: i malanni più frequenti sono coliche renali e attacchi di ansia a bordo, mi dice la coordinatrice, dottoressa Brunella Raia. E lombosciatalgie per i dipendenti dell’aeroporto. Il mini pronto soccorso ha quattro medici 24 ore su 24, parquet a terra e delle stanzette da degenza linde e invitanti. Mica come er Policlinico. Non è che possiamo venir qui a farci gli esami, chiedo. “Purtroppo no”, dice lei. Qui è nato pure un bambino, martedì 22 gennaio 2019: la brasiliana Cristina Vidiani De Jesus Santo, agli ultimi giorni di gravidanza sbarcata nello scalo romano, poco prima delle 8, con un volo proveniente da Madrid e in attesa di ripartire con l’AZ 678 per San Paolo del Brasile, ha partorito. Fatale è stata la coincidenza: al bebè è stato imposto il nome di Leonardo.
Nell’aeroporto modello nascono pure le startup, alle partenze al terminal 1 ecco un “acceleratore” dove ne allignano dieci tra divanoni e sale riunioni da Silicon Valley. Tra i frutti della Fiumicino valley una specie di Glovo aeroportuale, un robottino che una volta superati i controlli, se vi coglie vaghezza di fare ulteriore shopping, acquisterà per voi e vi porterà fino al gate gli acquisti agognati. Ma uscendo dall’aeroporto, in un bianco capannone, si stanno testando anche i mini-elicotteri (o maxi droni) che un giorno collegheranno l’aeroporto col centro città. Per ora oltre al treno c'è il vecchio taxi. E lì, nonostante i percorsi dedicati, che vi conducono con enormi scritte gialle fino all'uscita, e alle squadre di vigilantes che controllano i tassinari famelici (portano o non portano dove vogliono loro, lasciano la gente a piedi), l’altro giorno un tassinaro famelico che voleva fare il comodo suo ha preso a mazzate proprio un vigilante che lo vigilava.
Del resto sono le prime avvisaglie che si sta per avviarsi verso Roma . Però pure voi che vi ostinate ad andarci, invece di rimanere dentro Fco, ve la andate proprio a cercare. Se Spielberg avesse girato “The Terminal” a Fiumicino, il protagonista sarebbe rimasto dentro per sempre, felice, a bere limoncello.
generazione ansiosa