L'intervista
Il mondo è dei comici. A lezione di trasgressione da Saverio Raimondo
“Il politicamente corretto? Si può ancora dire tutto, se sai come farlo”, ci dice l'umorista. La sua via liberatoria fatta di confessioni che illuminano le coscienze, ora in tour per l'Italia
La fase è complicata sia per i corretti sia per gli scorretti, ovviamente parlando di chi fa espressa professione di correttezza o del suo contrario nei comportamenti pubblici, nell’espressione artistica, nelle prese di posizione politiche. I primi sanno di aver un po’ esagerato e sentono montare l’antipatia, premessa all’odio e al disprezzo, che non sarebbero ancora cose così gravi se non virassero, a loro volta, verso la noia e il fastidio. I secondi cominciano a sentire il fiato dei concorrenti, di una pletora di scorrettoni, molti ormai in posizioni di potere o vicini al potere, nominabili o già nominati in uffici e direzioni varie, alcuni direttamente al governo. I due campi hanno i loro problemi e, in Italia, soffrono la loro dose di imitazione un po’ maldestra di modelli importati. Tutto questo per dire che far ridere sulla correttezza o con la scorrettezza, tra le due operazioni c’è qualche differenza, non è poi così semplice. Ci prova Saverio Raimondo, in tour per l’Italia, con i suoi Live in spazi adatti agli stand up comedian, a Milano l’ultima data, al Blue Note il 26 marzo. Stretto tra i problemi contingenti cui accennavamo, Raimondo tenta una via liberatoria, come se i suoi spettacoli fossero un allungamento di quelle scene conclusive di certi film in cui dopo liti, mugugni, bugie e silenzi, finalmente ci si dice tutto, con le confessioni reciproche che distruggono il residuo di tensione drammatica ma illuminano le coscienze di ciascuno, risolvono tensioni terribili e svuotano arsenali di dispetti e di provocazioni. “Scomodo un paio di termini un po’ grossi – ci dice – perché il ruolo culturale e antropologico della comicità è proprio da sempre quello di dire ciò che non si può dire. A quello serve il comico, ammesso che serva, a dare sfogo a ciò che socialmente non possiamo affermare ma che, ci piaccia o no, pensiamo. Da qualche parte quel pensiero si annida dentro di noi e qualcuno deve pure aiutare a farlo sfogare, affinché poi quel pensiero non covi e non trovi altro genere di sfoghi. Perciò sul palco non sono politicamente corretto, per farla semplice”.
Ma non è che in Italia ce l’andiamo un po’ a cercare questa correttezza per metterla alla berlina, mentre qui non se ne vede tanta, anzi, le nostre figure pubbliche non ne sembrano particolarmente permeate? “Sì, il correttismo come atteggiamento è buffo in assoluto, come lo sono qualunque moralismo o retorica basata sul moralismo. In Italia direi che la cosa diventa particolarmente ridicola perché se il politicamente corretto negli Stati Uniti esiste e ha un suo radicamento, come esiste, e per fare i conti con la correttezza si è dotato di altrettanti strumenti il politicamente scorretto, qui è tutto un po’ meno organizzato e strutturato. Quando, per capirci, un Ignazio La Russa, come gli è successo in alcune interviste e in certe dichiarazioni, crede di star facendo esercizio di scorrettezza politica, in realtà, il più delle volte, dà solo sfogo a ignoranza o beceraggine. E dall’altra parte il nostro politicamente corretto è ridicolo anche perché posticcio, attaccato in corsa nel discorso pubblico, senza passare per un processo educativo, formativo, che, a costo di essere noiosi, dovrebbe essere il modo in cui si correggono i modi di comportarsi nei rapporti sociali e in cui si emendano i peggiori tic culturali”.
Quindi la tua scorrettezza o la tua invettiva possono rivolgersi, per fare le squadre in modo un po’ rozzo e buttarla in politica, verso la maggioranza e verso l’opposizione? “Ma certo, sono due facce della stessa medaglia, se lette con la chiave della comicità. Sono biasimevoli, e, avendo un po’ di spirito, anche buffi, tanto quelli che promuovono assurde battaglie politicamente corrette, sia coloro che ce la menano con la litania sul fatto che qui non si può più dire niente”. Qui Raimondo fa una piccola pausa e poi sale di tono, anche per uscire dalla trappola della lettura paritaria dei due fenomeni e per cercare qualche specificità italiana da fulminare con l’arma della comicità. C’è spazio anche per un po’ di scorretta affermazione della propria bravura, con l’implicito dubbio sulle capacità di altri impegnati sullo stesso fronte. Perché il comico che fallisce la battuta scorretta va incontro a un bruciante silenzio della platea e resta solo con la sua aggressività mal indirizzata. Raimondo conosce questo rischio, lo affronta e, stando alle risate della platea, riesce anche a colpire nel segno. “Perché poi – racconta un po’ più infervorato – non è proprio vero che qui non si può più dire niente, non è vero e il mio spettacolo lo dimostra. Si può dire tutto, se lo si sa dire, ovviamente. Perché da sempre esistono i tabù e da sempre qualcuno dice che non si può più scherzare su niente e chiamare le cose con il loro nome. Quei tabù cambiano, ma sempre ne nascono di nuovi, di generazione in generazione, di secolo in secolo, ma sempre ci sono paletti a demarcare il discorso ammissibile in pubblico e da sempre i comici vanno a smontare e danneggiare quei paletti. E’ tutto molto normale, visto con gli occhi di un comico, ciò cui stiamo assistendo adesso”.
E forse con la definizione di normalità si dà davvero un colpo crudele sia ai corretti sia agli scorretti, convinti, nel loro intimo, di essere innovatori o coraggiosi distruttori delle convenzioni. La normalità del tabù e della sua violazione è una condizione in cui il comico ha un ruolo, con la consapevolezza di non poterne approfittare troppo, sempre tenendosi pronto per i prossimi tabù e per le prossime violazioni. “Tra i tabù che ci portiamo dietro da più tempo, e che sono diventati ormai più malleabili, e i precetti moderni della correttezza politica – dice Raimondo – c’è una certa continuità o almeno non c’è grande differenza. Penso, ad esempio, alla religione. Quando ho cominciato a fare satira la religione sembrava un fortino incrollabile, immune agli attacchi duri della comicità. Oggi la satira religiosa è addirittura poco praticata, perché chi potrebbe riderne è il primo a esserne ignorante, rischiando non tanto di essere offeso dalle battute ma di non capirle. Credo che la satira religiosa veramente diventerà vintage, con sempre meno credenti e sempre meno potere che le religioni hanno nel poter definire i costumi delle persone. Gli affari religiosi sono sempre meno tabù e sempre meno attirano la funzione dei comici”. Parliamo, ovviamente, di questa parte di mondo, perché scherzare sulla religione, come avvenuto nel caso terribile della spedizione punitiva islamista contro Charlie Hebdo, altrove comporta rischi e certamente porta a infrangere tabù, difesi purtroppo con le armi. “Sì, certo, mi riferisco ai paesi in cui la cultura è secolarizzata. Da noi, però, quel meccanismo coercitivo che avevano le religioni lo hanno ora altri ambiti sociali o collettivi, penso all’adesione a certi metodi e regole di alimentazione, con una disciplina, interna ed esterna, molto simile alle forme di adesione che una volta avevamo verso la religione. Oppure penso ad alcune idee politiche, cui si aderisce in maniera acritica e fanatica come un tempo si aderiva alle religioni”.
Te la senti di trattare questi legami comicamente, di ridicolizzare la militanza vegana o il mito moderno della natura sempre buona? “Certo, perché siamo tutti ridicoli, io stesso lo sono. Il punto è proprio quello, l’essere umano deve riconoscersi in quanto ridicolo e in quanto perfettibile, sapendo di non poter mai raggiungere la perfezione e di raggiungere, invece, con certezza, la ridicolaggine. Viviamo, invece, un tempo in cui tutti perseguono uno strambo ideale di purezza. Una cosa pericolosissima. Non siamo puri e non lo saremo depurandoci o epurandoci. Nel tentare di essere puri possiamo solo peggiorare le cose”. Si arrabbiano nel pubblico durante i tuoi spettacoli? “Fortunatamente no, forse perché la mia fama mi precede e chi viene sa a cosa va incontro. Poi i miei spettacoli, le mie provocazioni, non sono rivolte a chi tende a offendersi. Io non ho lo scopo nella vita di far passare una brutta serata a qualcuno. Le mie provocazioni sono rivolte proprio a chi è adulto e dotato di senso dell’umorismo, in grado di cogliere l’ironia, il paradosso, l’iperbole. Il pubblico ovviamente ride, ma ride in maniera peculiare e questa è la cosa di cui vado più fiero, perché sento nelle risate del pubblico come un brivido, una liberazione. Molti ridono non tanto per ciò che dico, ma perché io lo sto dicendo. E’ una differenza sottile, ma comprensibile anche senza stare sul palco. Sono risate complesse, variegate, sfumate, e questa è la cosa che rivendico con maggiore orgoglio”.
E qual è la differenza tra chi la butta semplicemente sull’insulto, scagliandosi contro la correttezza come un bullo da lite stradale o da talk televisivo, e chi invece colpisce i tic della correttezza ma in modo umoristico, pagando, si direbbe, pegno alla comicità? “La differenza sta nel rifiutare la separazione del mondo in un noi e in un loro, con ovviamente la parte noi migliore della parte loro. Chi ragiona in maniera umoristica sa che non esiste un noi e un loro e che siamo tutti la stessa merda e nessuno è migliore dell’altro. Il comico deve sempre demolirsi e demolire la propria posizione, il proprio punto di vista, il proprio piedistallo pubblico. Un comico non deve mai essere autorevole o autorità. Questo è stato il grande errore storico di Beppe Grillo e di altri grandi talenti comici, in Italia e altrove. L’idea autodistruttiva di ergersi a guru. Quando un comico fa una cosa del genere e diventa autorevole non è più comico e non è più divertente, e questa è la nemesi. Per continuare a essere divertenti non bisogna essere autorevoli ma bisogna essere credibili, cioè esserlo in quanto comici. Io fortunatamente sono ridicolo nella faccia, nella voce, nelle movenze, e questo mi dà la possibilità di dire l’indicibile, perché quello che dico non avrà mai importanza e quindi continuerà a funzionare come discorso umoristico”.
Su cosa si scherza e su cosa non si scherza, nella beceraggine del body shaming, sui bassi, sui grassi? Qual è il difetto fisico più attaccato? “Io ovviamente colpisco più sulla bassezza, perché ce l’ho addosso, me la porto da casa e la prima cosa che faccio è fare ironia sul mio corpo. E questo mi dà una sorta di patentino per ironizzare su qualunque corpo. Perché, torno a dire, i nostri corpi sono ridicoli, belli o brutti che siano, e non siamo noi a decidere cosa è bello e cosa è brutto. E’ la cultura, è l’immaginario collettivo, sono i gusti personali. Ma qualunque corpo è ridicolo, e questo è l’errore della body positivity. Non è vero che ogni corpo è bello, è vero che ogni corpo è brutto, buffo, decadente, ed è questo che dobbiamo dirci, perché questa è la verità scomoda, rimossa, sulla quale ridere, per essere sereni e consapevoli”. David Lodge, che ha scherzato su un personaggio che perdeva l’udito in un suo romanzo, notava che la cecità è tragica, dai tempi dei greci, mentre la sordità è comica. Non c’è una ragione comprensibile per questo differente trattamento. Sono casualità storiche, misteri culturali. “Credo sia qualche strano dispositivo culturale a determinare cosa percepiamo come tragico e cosa invece tendiamo a trattare con più flessibilità. Però dobbiamo ricordarci, e qui torniamo al ruolo culturale che dovrebbe avere la comicità in una società civile, che il comico è tale se fa ridere dove non c’è da ridere. Quello è il mio lavoro. Perché se una cosa è già divertente e già riconosciuta come buffa allora non c’è bisogno di un comico, siamo già tutti lì a ridere. Al contrario il lavoro del comico è riuscire a portare il pubblico a ridere lì dove non c’è da ridere. Non per sminuire un discorso, non per mancare di rispetto. Ma la comicità è uno degli strumenti comunicativi, linguistici, espressivi, per poter affrontare soprattutto ciò che è più difficile affrontare, la malattia, la morte, la sofferenza”. La morte fa molto ridere, no? “Sulla morte si scherza molto, come unica cosa inespugnabile e ineluttabile. E per trattarla dobbiamo riconoscere alla comicità la sua necessità. Non potendoci fare nulla l’unica cosa è riderci sopra. Non ridiamo più dei difetti fisici, nel senso dell’umorismo tradizionale, che aveva le sue fondamenta proprio su gobbe, pance, nasoni, bruttezze, deformità. Ormai contro quelle cose possiamo intervenire, con cure, chirurgia, o con i filtri delle foto sui social. Insomma, non è più ineluttabile e il loro rovesciamento è alla portata di un buon parrucchiere o di un buon make-up. La bellezza oggi è abbastanza acquisibile e perciò siamo meno disposti a riderci sopra. La bruttezza possiamo cancellarla o negarla con strumenti mondani, ragionevolmente alla nostra portata. La morte no. Così è e così è rimasta e non ci resta che riderne”.