Giovani e fragole
La Gen Z non sa trovare conforto nel sesso e nei piaceri della vita
È la “Strawberry Generation”. Come un frutto fresco, si ammacca per le pressioni degli studi, dell'università e del lavoro. E invece di opporsi con il vizio, invoca la salute psichica
L’assenza di vizi produce zombi. Massima valida sempre, un po’ per tutti. Validissima oggi per i nati fra i Novanta e gli Zero. Per i ventenni non più vampiri ma zombi, appunto, che non aspirano più il nettare della vita. A una cert’ora di questi anni, per dire, è accaduto che fumo e alcol venissero a noia e – peggio mi sento – che si ci si stufasse dell’amore. È il quadro che viene fuori dalla ricerca di Social Science & Medicine sull’evoluzione dei costumi giovanili nei paesi a più alto reddito. Ma se hai vent’anni e non t’impelaghi in una tossaccia da tabagista o in non meno tossiche cose di cuore, non per questo smetti di stare male. I polmoni stanno meglio d’un tempo, forse, e le nudità sono quiete. Ma la mente soffre.
La rappresentante degli studenti di Padova, Emma Ruzzon, lo ha detto chiaro durante l’inaugurazione dell’ateneo: gli universitari soffrono, s’ammalano per i voti, s’ammazzano per gli esami. E ancora: “Non si può morire di università”.
Emma Ruzzon tuona da far precipitare gli stemmi araldici di Palazzo Bo, da far scricchiare la cattedra di Galileo Galilei, e – non ultimo – da far quasi paura alla ministra Bernini che negli anni Novanta non è nata ma ci ha vissuto, portandosi dietro un cuore sbarazzino – altro che drammi – sino al giuramento al Quirinale. (E chi se lo scorda l’Insta-revival di “Non è la Rai”: E adesso giura!).
Emma Ruzzon – figlia dei suoi tempi – è seria, vestita a lutto con chioma amaranto e anellino al naso. Una specie di figlioccia degli “emo”. Durante il discorso, questa sindacalista dei turbamenti sfodera una corona d’alloro con fiocco verde: il colore del benessere psichico. Quel benessere che sembra mancare a chi si corona d’allori, dice lei. “Da quando l’università è diventata una gara?”, si domanda la ventenne, iscritta alla facoltà di lettere.
Da quando, si domanderà chi a Padova ha studiato e là sotto i portici, come in una poesia di Dino Campana, ha bevuto, fumato e forse persino amato prima che cadesse in disuso, ecco: da quando studiare e ciondolare fra un ventotto e un trenta è diventato una fiaccante competizione? A giurisprudenza bocciano, va bene, a medicina un po’ meno ma che fatica il test d’ammissione. Quanto alla facoltà di Emma Ruzzon, invece, stando ai rapporti Almalaurea, la media dei voti è la più alta in Italia: 27,9. Ed ecco: è vero che la psico-sindacalista parla non a nome suo ma di tutti gli studenti – è il principio di rappresentanza – ma sembra quasi parlare a nome dei soli disgraziati. Meglio: sembra esistano solo i disgraziati.
E comunque, come tutte quelle che poi fanno carriera, anche lei s’è subito scordata da dove viene. S’è scordata della dolcezza degli studi umanistici o forse non sa goderne, chissà. Ché se noi letterati la vita non ce la siamo goduta a vent’anni non sarà stato certo per il principio tutto nostro del “minimo sforzo-massimo rendimento” (le lodi a filosofia le prendi se ti sforzi di leggere i libri per intero anziché spizzichi e bocconi). Ad ogni modo, se i giovani universitari stanno male, dice Ruzzon, a causa delle pressioni sociali e famigliari, è colpa di quel mammozzone di nome “sistema”. Ed è sempre il sistema – whatever it means, whatever it takes – che deve caricarsi in groppa chi non ce la fa.
Ora, tralasciamo appunto che se studi lettere e poi stai male più che del controrelatore o di tuo padre – permissivo, supponiamo, se non t’ha iscritto a ingegneria civile – la colpa sarà forse d’un Giacomo Leopardi o di Cesare Pavese. E tralasciamo pure, per carità, che qualche docente sanguinario ci sarà ancora malgrado il Sessantotto. Ebbene, oltre a verità e retorica, il discorso di Emma Ruzzon segue un andazzo preciso.
Poiché è nel flusso di un racconto generazionale, è un discorso conformante… E confortante. Come tutto ciò che conforma, come tutti i conformismi. E come la Grecia era un popolo di Omeri, così oggi l’Occidente – whatever it means – è un popolo di Emma Ruzzon: perché la ragazza è solo l’ultimo bardo della Generazione Z. Dei nati fra ‘95 e 2010 (è una noia ripetere i margini temporali visto che ormai li sapete e avete digerito l’ossessione di appiccicare marchi alle annate: come se i gruppi anagrafici fossero squallidi bus con lettere e numeri in testa – Gen X, Y, Z – destinati a percorrere sempre la stessa tratta, senza deviazioni. Non individui ma generazioni come torpedoni d’ansie e disturbi). Emma è quindi uno dei tanti cantori dei giovani, semi-giovani e giovanissimi che non bevono, non fumano, non amano eppure soffrono. E sputano su Hegel. Ben oltre lo stato etico, esigono quello psichiatrico. “Chi ha bisogno di un supporto psicologico dovrà scegliere se pagare la stanza o un aiuto”, sentiamo ancora dire.
Se vi sembra strana questa correlazione fra calo di vizietti e aumento di ansie e depressioni, prendete i dati. In paesi come Regno Unito, Unione europea, Stati Uniti, Australia e Nuova Zelanda il fumo di sigaretta è diminuito dell’80 per cento dalla fine degli anni Novanta all’inizio del 2020. In Europa – stando a un rapporto Espad – in quasi tutti i paesi è drasticamente calato il numero di giovani fumatori e bevitori. E anche il sesso se la passa piuttosto male. “Siamo nel bel mezzo di una recessione sessuale?”, titolava il Guardian pochi anni fa.
Secondo i dati, per rispondere alla domanda, sembrerebbe che sì: siamo nel bel mezzo di una “recessione sessuale”, come pure la definisce Archives of Sexual Behavior. Gli adolescenti, prima di prendere confidenza con l’amore, diventano quasi adulti. Praticano poco e sempre più tardi rispetto agli anni Novanta: rispetto a quel decennio in cui un terzo della Gen Z è nata. Decennio che oggi – sotto veli di nostalgie – pare sempre di più il canto del cigno dell’umanità. Fra hikikomori e melanconie, quindi, lo stesso Espad ha evidenziato come in Italia gli adolescenti tra i 15 e i 19 anni assumano maggiori quantità di psicofarmaci, in aumento dopo la pandemia (nel 2021 la percentuale era del 6,6; nel 2022 è salita al 10,8).
Spesso lo fanno eludendo la prescrizione medica. Si liberano insomma dei vizi classici ma non sono più felici di prima. E in certi casi si trasformano appunto in vagoni sonnolenti e impasticcati. Ci sarebbero tanti altri numeri, come quelli della società GWI di ricerche di mercato globali su oltre 900 mila persone, ma per pietà vostra – e nostra – non li riportiamo e ci limitiamo a un aggettivo estrapolato dal report: “sfiduciati”. Non più vampiri ma zombi, appunto. Un po’ come quello che si ritirava dai social per motivi di salute (mentale), come il Fedez fluido per gioco, depressone per davvero.
Intendiamoci. Non è l’elogio di vite spericolate, questo, o di gioventù bruciate. Ma se i vizi esistono un motivo ci sarà. Cos’altro ci redime dai fastidi del mondo – qui, ora, in questa vita, su questa Terra – se non un vizio moderato? Sarà meglio decantare l’ansia nel piacere di una sigaretta o farla girare a vuoto nelle benzodiazepine? Sarà meglio un temperato edonismo o una cura talebana che – tolta l’ansia – ti toglie anche la vita? Perché il punto è questo: se rinunci a Bacchi Tabacchi e Veneri e lo fai, è evidente, per pigrizia – perché per uscire a bere bisogna vestirsi e per amare bisogna poi svestirsi (attività che richiedono un minimo d’impegno) – se rinunci a questo, ecco, non è che di colpo diventi santo. Non si va per così poco in paradiso: di solito – soprattutto intorno ai venti – senza vizi si rimane in un limbo d’angoscia. E non è forse vero che lasciando a secco bocca, gola, cuore, polmoni, poi si comincia a star male di cervello?
Non solo zombi, comunque. L’assenza di vizi produce anche goblin. In senso quasi letterale. “Goblin mode” è un hashtag all’ultima moda ed è la parola dell’anno 2022 secondo l’Oxford English Dictionary. Si tratta dello stile di vita autoindulgente, pigro, di chi posta sé stesso sui social in abiti sfatti, coi cartoni di pizza e poke sul pigiama. E sono sempre i Gen Z, in aria di Zoloft e Xanax, che non escono più e s’attaccano allo screen con l’anima emaciata. E dicono: “Lasciatemi fare schifo”. Stravaccati, senza voglia di muoversi, su quel famoso pendolo che oscilla tra dolore e noia. Perché per i vizi, come per le virtù, bisogna impegnarsi. Lo sbraco non basta.
In questa moria di piaceri fanciulli, di buono c’è che l’Italia è come sempre un po’ indietro su tutto. Siamo il fanalino di coda del fanatismo salutista, forse. Qualche giovane ancora beve – qualcuno anche troppo – e l’età dei primi amori rimane stabile, per fortuna. Ma ci penseranno le Emma Ruzzon a cambiare il “sistema”. Magari in una alleanza paradossale coi ministri del salutismo. Perché mentre lo stato etico briga perché non fumiamo sigarette elettroniche all’aperto, gli universitari anziché svapare per protesta invocano lo stato psichiatrico: che proibisca loro il vizio ma assicuri lo psicodramma di stato.
Così mentre Gino Paoli – meraviglioso Chisciotte – dice di voler fondare il partito dei tabagisti (motto: “Fatevi i fatti vostri, ai miei ci penso io”), mentre ricorda Camilleri fumante a novant’anni con gli amici morigerati morti prima di lui e si pensa subito alla Fallaci che aspirava in faccia al cancro, mentre Alessandro Haber parla di piccole trasgressioni contro i divieti del ministro Schillaci, mentre tutti questi signori d’altri tempi ci fanno toc toc, i giovani o giovanissimi non dicono allo stato di farsi i fatti suoi, no. Al contrario gli chiedono di farsi, lui, i fatti loro. Di entrare cioè nelle loro vite spente per medicare le ferite del “sistema”.
Non è l’elogio del vizio, questo, e neppure di gente fuori dall’ordinario. E però chi l’ha detto che in certi straordinari casi i vizi non facciano quasi bene. “Non bevo, non fumo, dormo molto e sono al cento per cento della mia forma fisica”, aveva detto Sir Montgomery a Churchill; “Bevo molto, dormo poco, fumo sigaro dopo sigaro e sono al duecento per cento”, aveva risposto Churchill vivendo sino a novant’anni, un anno in più di Montgomery. Ogni tanto c’è pure chi sfida gli eccessi al di là di paradisi, limbi, inferni. (A noialtri, vagamente epicurei, basterebbe un tanto di dose. Che ci redima ma non ci avveleni).
Comunque, fra goblin e zombi, se sei nato nell’arco “Gen Z” al boomerismo criticone ti ci offri su di un piatto d’argento. Dopo il marchio “Z” verrà l’immagine che ti appiccicano addosso le scienze umane. Sociologi come Luca Ricolfi citano la strawberry generation: la generazione fragola, etichetta d’importazione taiwanese dove l’espressione, che descriveva i giovani incapaci di reggere la pressione sociale, apparve per la prima volta nel 2008. “Generazione fragola” torna per dare un nome a un’epica generazionale. Per dare forse un titolo a questa psico-fiaba collettiva. Le fragole sono i giovani in apparenza vivaci, rossi-rossi come i capelli di Emma Ruzzon, ma di facile ammaccatura.
E colti, come i frutti di bosco. Si ammaccano a scuola, in università e poi al lavoro – dove certo gli sciroccati non mancano – e dove anziché sbottare si urtano subito. Pensate al susseguirsi, in questi anni, di locuzioni per definire qualsiasi fenomeno associato alla pressione sociale e lavorativa: dimissioni giovanili di massa e dunque great resignation, grandi fughe dagli uffici ovvero big quit, e poi hustle culture – cultura del trambusto – per dire del lavorismo e dell’ansia da prestazione.
Quest’epica delle fragole è certo pensata nel segno delle passioni di tristi. Ma pure della celebrazione del sé. Come ogni poema, anche questo è scritto dalle fragole per le fragole. Se consultate i portali di informazioni social più cliccati e autogestiti dalla Gen Z italiana scoprirete – più o meno in tutti – gli stessi stilemi. Prendete “Factanza”, per esempio: 627mila seguaci e una solida collaborazione col Sole 24 Ore. Inframmezzati a una valanga di notizie del giorno e “free press”, spuntano – praticamente ogni giorno – dei post sui disagi emotivi dei giovani, sulla morte causata dall’ansia che respiriamo (sic), sul vero senso della parola “fallimento”.
A ricordare a ogni ventenne che passi di lì quanto pesi avere vent’anni. Ché Paul Nizan non ci è bastato e ci voleva Factanza per farci dire in coro: “Avevo vent’anni. Non permetterò a nessuno di dire che questa è la più bella età della vita”. E in effetti cos’è la vita, senza l’amore? E senza fumo, senza bottiglia? È una lettiera per la boomer gattara e per i giovani una benzodiazepina. Che ansia, che clima.
I guardiani del bene presunto