saverio ma giusto
Quei simpatici cantanti di jodel musicalsocialisti che giravano per via Rasella
Davvero i partigiani hanno trucidato dei musicisti? Erano così inascoltabili? E c’era bisogno di sparare per farli smettere di suonare? Ecco cosa si scopre a leggere gli stessi libri di La Russa
Ma qual era questa “banda di musicisti semipensionati altoatesini” uccisi dalla Resistenza nell’attacco di via Rasella nel 1944? Davvero i partigiani hanno trucidato dei musicisti? Erano così inascoltabili? E c’era bisogno di sparare per farli smettere di suonare? Sono andato a documentarmi, studiando sugli stessi libri di musicologia dove ha studiato il presidente del Senato Ignazio La Russa; e questa è l’incredibile storia che ho scoperto.
I Bozen Musikband erano un complesso musicale composto da cantanti di jodel e suonatori di campanacci, e che contava nella sua formazione finale circa diecimila altoatesini. I Bozen erano tutte “vecchie glorie”: cantanti o musicisti che si erano ritirati dalle scene o avevano lasciato la musica (da qui la definizione di semipensionati), ma che furono coscritti da un impresario locale per tenere degli ulteriori concerti, con lo scopo di promuovere e salvaguardare la grande tradizione musicale sudtirolese. Quell’impresario era Franz Hofer, noto orchestrale austriaco (nato a Salisburgo, proprio come Mozart) con la passione per la musica popolare e il musicalsocialismo (chiamato anche nazismo in ambiente accademico), tecnica di composizione musicale ideata da Adolf Hitler, musicista folk (iniziò suonando nelle birrerie prima di passare ai grandi concerti in piazza) anche lui di origine austriaca, che sosteneva la supremazia della musica tedesca e del bel canto ariano.
Inizialmente i Bozen tennero concerti a Bolzano, Trento e Belluno, con ottimi riscontri di pubblico e critica. La stampa locale definì le loro esibizioni “antipartigiane”, a sottolineare la non faziosità della loro musica; e il loro stile si configurò subito come unico. Se infatti lo jodel si caratterizza per il passaggio improvviso al falsetto, quello dei Bozen era particolarmente brutale: nel celebre concerto del ’44 nella valle del Biois in provincia di Belluno (definito dalla critica musicale di allora “una strage”), il loro “jol-hol-à-hi-hu” uccise quarantaquattro civili e distrusse duecentoquarantacinque abitazioni. Visto il successo, il gruppo fu diviso da Hofer in tre formazioni diverse per permettergli di cavalcare il fenomeno anche fuori dalla dimensione locale: una formazione rimase a fare concerti nelle Prealpi, un’altra fu mandata in tour in Yugoslavia, mentre una terza fu mandata a Roma nella speranza di trovare un ingaggio in qualche teatro importante.
Nella capitale i Bozen marciavano per le strade del centro, tutti i giorni, indossando abiti tirolesi e intonando canti tradizionali; fra questi, il celebre Hupf, mein Mädel (Salta, ragazza mia), forse il loro più grande successo, che prevedeva un accompagnamento di bombe a mano e pistole mitragliatrici (secondo alcuni studiosi, con questo arrangiamento i Bozen anticiparono l’heavy metal). E’ facile immaginare che il cinico pubblico romano, amante degli stornelli e delle canzoni da osteria, non apprezzasse fino in fondo questo canto alpino tradizionale e al tempo stesso così moderno; e il fatto che i Bozen suonassero tutti i giorni sotto alle finestre di via Rasella, per giunta all’ora della pennichella, è probabile che abbia spinto qualche romano verace a farsi giustizia da solo o, se non proprio giustizia, rispetto della quiete pubblica. Eh sì, perché se il battaglione Bozen era una “banda di musicisti semipensionati altoatesini”, allora dobbiamo anche ammettere che chi li ha uccisi non erano partigiani, ma loggionisti. Se vogliamo riscrivere la Storia, bisogna riscriverla tutta.
Politicamente corretto e panettone
L'immancabile ritorno di “Una poltrona per due” risveglia i wokisti indignati
Una luce dietro il rischio