I nostri labirinti
Ora che la depressione non è più un tabù, si rilegga Robert Burton
L'autore inglese cercava di andare a fondo sulle condizioni buie in cui si può trovare il cervello umano, prima che esistesse la chimica farmaceutica delle pastigliette. L'Anatomia della malinconia, il male di vivere che studiava nel ’600 è molto simile a quello di oggi
Viviamo nell’èra del disturbo mentale pubblicamente accettato? Ci si autodiagnostica qualcosa, e si legittima come fosse la caratteristica di un segno zodiacale, per giustificare i propri comportamenti, ora che non esistono più i manicomi, almeno in occidente. Non c’è più il terrore di dire “sono pazzo”, quando magari sono solo piccole nevrosi esacerbate che una volta i borghesi mettevano sotto il tappeto spaventati dall’essere esclusi dalla società. Spesso anche i kink sessuali ormai si possono tirare fuori, almeno in certe bolle, senza essere etichettati come freak. Delle proprie fobie si può parlare in pubblico perché il giudizio altrui diventa oppressione se non è accogliente. Eppure, nonostante si crei quasi una comunitaria seduta psicoanalitica, in un ambiente in cui le vecchie morali non dovrebbero funzionare più, ci si cura con le medicine oltre che con le sedute. L’adderall vende come il pane fatto col lievito madre, e la gente non ha paura a cena di parlare degli antidepressivi che prende, si postano sui social le foto della scatolina di Xanax vicino ai bicchieri di vino bio, ci si ride su, sul quanto “non sono me stesso prima dello Zoloft”, o “non parlarmi prima di aver preso il mio Prozac”.
Gli inibitori di serotonina hanno sostituito il caffè. Nessun’angoscia nel parlare agli altri della propria seduta di psicanalisi, di citare la propria analista junghiana o freudiana o la propria psicologa comportamentale. In certi ambienti sembra quasi un peccato non essere depressi ma in cura, non avere qualche disequilibrio chimico nel cervello che viene ristabilizzato con una pillolina da sciogliere sotto la lingua. Che noia chi fa finta di essere equilibrato. La malinconia è distrutta, si cerca il qui e ora. Non c’è più il tabù del malessere mentale, non si nasconde l’aiuto per bocca. Si ricercano poi cure nelle droghe psicotrope, nell’Lsd, nella corsa, nello yoga, alcuni addirittura dicono – non è uno scherzo – nel gas esilarante. Si fanno ammissioni sui propri abusi. “Bianca Balti choc: ‘ero dipendente dalla droga’”, scriveva il Mattino riportando l’intervista a Belve, programma che gioca sullo svelare i segreti dei volti noti sperando nella viralità. I giornali sono pieni di confessioni dei Vip sulle loro turbe mentali, sulla Gazzetta dello Sport: “Campioni depressi, Peaty è l’ultimo. Ma vi ricordate Buffon, Totti e Simone Biles?”, sul Corriere: “Jim Carrey racconta: ‘la depressione è stata per anni mia compagna’”, su Vanity Fair: “Justin Bieber continua la lotta alla depressione: ‘pregate per me”.
E via così. Ogni giorno ci viene regalato un intimo resoconto dei personali anni bui. “Non solo Fedez, in Italia è boom di psicofarmaci tra i giovani”, titola la Nazione. Il neoeletto senatore della Pennsylvania John Fetterman dopo poche settimane al Congresso ha deciso di ricevere un trattamento per la depressione su base volontaria. Nel 2017 Time magazine dedicava la copertina agli anti-antidepressivi, perché un terzo delle persone in cura non risponde alla terapia. Secondo gli esperti i casi di depressione sono triplicati in certi paesi durante i lockdown per il Covid-19.
Ci si chiede se i glorificatori degli antidepressivi e di chi parla della depressione come di un problema del ventunesimo secolo abbiano letto Robert Burton, che ha scritto un libro ormai quattrocento anni fa che cercava di andare a fondo sulle condizioni buie in cui si può trovare il cervello umano, prima che esistesse la chimica farmaceutica delle pastigliette, e quando la depressione di chiamava, semplicemente, malinconia, o bile nera. Un libro macchinoso che, tra i mille divertenti usi, ha anche quello di ristabilire l’ordine sulla non eccezionalità del malessere contemporaneo. L’essere umano dacché esiste è sempre stato male. E probabilmente anche l’australopiteco, l’homo erectus, le scimmie e via così (ma è più difficile chiederglielo), a meno che non sia valida la teoria della mente bicamerale di Julian Jaynes. Spleen, malaise, the blues, i nomi sono tanti. Burton ha passato la vita nel tentativo di costruire un’opera più che esaustiva, totale, dal nome Anatomia della malinconia, che alcuni critici contemporanei, come Northrop Frye, hanno definito “l’indagine più completa sulla vita umana, in un unico libro, che la letteratura inglese abbia visto dopo Chaucer”. Einaudi porta in libreria una nuova edizione in due volumi, con tanto di apparato iconografico a colori – quadri di Edward Hopper, Georg Baselitz, Degas, Munch che illustrano la malaise – con una lunga ed esplicativa introduzione della curatrice del libro, Stefania D’Agata D’Ottavi, di The Anatomy of Melancholy.
Robert Burton scrisse la prima versione nel 1621 per poi lavorare a edizioni sempre più ricche, con modifiche e, soprattutto, aggiunte. Inglese, nato nel 1577 da una famiglia benestante, entra all’università di Oxford, prima nel Brasenose e poi nel Christ Church college, e ci resta tutta la vita. Prima dell’opera per cui è più conosciuto, scrive poesie e testi teatrali, come Philosophaster, rappresentato davanti a Giacomo I. Ebbe alcuni protettori – tra cui Lord Berkeley, fondatore della provincia del New Jersey – che lo aiutarono finanziariamente ma con la scrittura dell’Anatomia riuscì a guadagnare abbastanza, continuando a lavorare nel sistema universitario oxoniense, soprattutto come bibliotecario. Nonostante avesse fatto fatica a trovare un editore, una volta stampato il libro vendette bene, e questo dimostra anche all’epoca l’interesse per il tema della malinconia come malessere comune. Burton era anche un vero bibliofilo, amava circondarsi dai libri oltre che citarli e annotare i bordi delle pagine, e molti pezzettini di questi libri sono finiti nel suo. Gran parte li comprò con i soldi dell’Anatomia, soprattutto volumi contemporanei, teologia, pamphlet politici, narrativa, viaggi, tutti libri che la Bodleian, aperta da poco, non ospitava. Oggi i suoi libri sono quasi tutti ancora lì, a Oxford, dove lui muore nel 1640 a 62 anni.
Il libro di Burton, strutturato come potrebbe esserlo un libro di medicina, in realtà è un labirinto, spesso divertente. E’ una collezione di oltre 13 mila citazioni commentate prese da tutta la letteratura precedente, da Platone a Galeno, da Giovanni Crisostomo di Antiochia al fisico svizzero Felix Platter, da Salustio Salviani, medico romano cinquecentesco, a Pieter van Foreest, l’Ippocrate olandese. Le sue citazioni non hanno confini geografici o temporali. Tutto ciò che può aiutare la ricerca sulla malinconia ci finisce dentro senza discriminazioni. Un labirinto ipnotico perché tra le varie e logorroiche digressioni che aiutano a inserirlo, come dice appunto Frye, tra le opere di letteratura, ci sono momenti autobiografici – un intero capitolo di apertura chiamato Democrito junior – momenti di analisi politica – si cita a fondo l’Utopia di Thomas Moore – ma anche momenti di astrologia, che piacerebbero tanto oggi alle stesse persone che postano su Instagram i selfie con lo Xanax. Burton va nel dettaglio più minuto parlando delle eventuali cause della malinconia e analizzandole una a una, e poi cerca di capire quali possono essere le possibili cure. Le cause sono pressoché infinite, e contraddittorie. Possono essere: la vecchiaia, Dio, un regime alimentare sbagliato, l’aria malsana, la paura, il disonore, la faziosità e la brama di vendetta, l’amore smodato per il gioco, l’educazione, gli scherzi malevoli, l’attività fisica eccessiva, l’assimilazione e l’evacuazione, le calunnie, i genitori, i desideri, l’ambizione, streghe e maghi, l’ira, la vanagloria, la gioia eccessiva, e altre ancora. Anche le cure sono varie, e Burton si chiede anche se in certi casi non sia giusto “cercare l’aiuto dei santi per questa malattia”.
Sulle cure si va dalla ritenzione ed evacuazione corrette al risanamento dell’aria, dai salassi all’aiuto degli amici, dalla musica al “mutamento del corso della vita”. La principale indicazione sembrerebbe quella di imparare a controllare le passioni, oltre a mantenere un equilibrio su tutto, dal cibo allo sport e a non restare mai troppo soli, gli amici sono importantissimi per il benessere della mente, perché “la solitudine è una condizione che segue la malinconia come un’ombra”. Tra le cure varie, ovviamente con i limiti dell’epoca, in parte minore rispetto al cambio di comportamenti e di atteggiamento verso la vita e vero noi stessi, Burton inserisce anche composti chimici, intrugli antenati dei nostri psicofarmaci, o materiali e polverine che hanno però più un sapore da libro fantasy che da farmacia, come corna di unicorno e pietre di bezoar, o pozioni in perfetto stile New Age.
Anatomia della malinconia diventa quindi, come ha detto il professore di intellectual history Angus Gowland, quasi un libro self-help, un progenitore di quei bestseller di Allen Carr, E’ facile smettere di fumare se sai come farlo, di Napoleon Hill, Pensa e arricchisci te stesso, o di Jordan Peterson, Le dodici regole per la vita che sono sempre nelle classifiche di Amazon, ma con qualche pagina in più. “Leggendolo, e lo dice lo stesso Burton, il lettore riconosce alcune parti del testo. E quando vede qualcosa che lo riguarda pensa: ‘dovrei prestare attenzione e implementare i rimedi che mi propone’. C’è un aspetto terapeutico nel testo, un concetto pre-moderno di self-knowledge”.
Una lunga sezione è destinata all’amore, tra cui una lista di prevenzioni per il prima e il dopo il matrimonio, dove invita le donne a non “concedersi a uno sciocco, o a una persona evidentemente melanconica”. L’amore causa molto malessere, in tutti i modi – altrimenti non esisterebbero i poeti – e Burton riesce a dissezionare, come faceva il suo adorato ridacchiante Democrito con gli animali cercandone nella carne lo spleen, i momenti in cui cadiamo vittima dei sortilegi del cuore, trasformandoli eventualmente in depressione. “La causa di innamoramento più familiare e consueta è quella della vista, che porta al cuore i raggi meravigliosi della bellezza”, e citando Plotino, “gli occhi sono gli araldi dell’amore”, sono come “due saracinesche che fanno penetrare l’influsso della bellezza divina” che è “più pungente di una freccia o di un ago e trafigge l’anima stessa”, e da qui Burton apre pagine e pagine su quanto l’innamoramento, il colpo di fulmine, sia stato, nel mito, nelle leggende e nella storia, un motore inesauribile. “Neppure uno su mille si innamora se non c’è una qualche parte del corpo dell’altro che gli piace in modo particolare”.
Burton poi inserisce tra le cause della malinconia – e questo potrebbe interessare la bolla di creativi a partita Iva di cui sopra, i dottorandi o gli accademici frustrati in un mondo che non li rispetta, o gli scrittori che passano le giornate chiusi in una stanza nella speranza di produrre qualcosa di decente – lo studio eccessivo e l’amore per la cultura. “Infatti, come sostiene Machiavelli, lo studio indebolisce i corpi, ottunde gli spiriti, diminuisce la forza e il coraggio”, scrive Burton. E per lui le cause sono la sedentarietà, e quindi i pochi piaceri e divertimenti mondani, la solitudine – si è “con se stessi e con le Muse” – oltre all’inaridimento del cervello, e poi perché il troppo pensare fa diventare poveri. “Poesia e povertà son gemelle”, dice. “Quanti poveri studiosi hanno smarrito la ragione, o sono diventati tonti, a forza di trascurare tutte le cose del mondo, e la loro stessa salute, ricchezza, essere e benessere, per acquisire conoscenza?”.
E Burton lo sa bene, dicendosi consumato dalla scrittura di quest’opera senza fine. D’Agata D’Ottavi aggiunge che l’autore “interpreta il termine ‘studio’ in senso molto ampio, non solo la lettura e la scrittura, ma anche la visita alle gallerie d’arte, la contemplazione di oggetti belli, l’esame delle carte geografiche, la perfezione geometrica di alcuni edifici”, oltre ai “misteri del cielo e i segreti della natura”. Lui stesso, che a lungo ha sofferto di quella che oggi si chiama depressione, vede nello studio matto e disperatissimo, per dirla alla Leopardi, la causa del malessere. Non è un caso che sia diventato un’opera di grande influenza su poeti e autori nei secoli. La celebre Ode alla malinconia del giovanissimo John Keats (“Non immergerti in Lete, no…”) deve molto a Burton. A farne conoscere l’opera ai romantici fu quel grande esempio di autofiction, quella Recherche del XVII secolo che è il Tristram Shandy di Laurence Sterne, che cita a più non posso The Anatomy of Melancholy, prendendone dei pezzi interi per arricchire il suo racconto. Tra gli ammiratori di Burton troviamo John Milton e Samuel Johnson, Virginia Woolf e George Eliot, Nick Cave e Borges.
Se lo studio eccessivo causa malessere, allo stesso tempo, “non c’è maggior causa di melanconia dell’ozio, non c’è cura migliore del tenersi occupati” , dice Burton e, citando Seneca: “Meglio fare qualcosa senza uno scopo che non fare nulla”. Un po’ come Woody Allen che per non pensare alla morte continua a fare film.
giulio Silvano