Foto Nik via Unsplash

La crisi della famiglia italiana: ce n'è sempre meno dov'è più vivace il paese

Roberto Volpi

Le grandi città devono ripensarsi se vogliono avere un futuro

Non c’è solo il problema, per la famiglia italiana, di avere raggranellato nel 2022 mediocrissimi risultati. Del resto, non si vede come avrebbe potuto fare diversamente. Le tendenze demografiche sono peggio che tenaci, anche soltanto riuscire a smorzarle è un’impresa. Per la prima volta nella storia d’Italia le famiglie con uno e due componenti superano il 60 per cento delle famiglie, mentre quelle di almeno quattro componenti raggiungono a stento il 20 per cento, una famiglia su cinque. La densità di famiglia continua a scendere, cosicché se pure espungiamo dal computo le famiglie fatte di una sola persona, che sono quasi 8,5 milioni, si raggiunge a stento, nel complesso delle altre, il valore medio di tre componenti a famiglia. Dunque il problema della famiglia italiana non si esaurisce nelle sempre più esigue dimensioni, frutto di due fenomeni di lunga data che si intrecciano assai pericolosamente per i destini dell’Italia tout court: la crescita ininterrotta delle famiglie unipersonali da un lato e delle coppie senza figli dall’altro.  


Il problema consiste anche, ed è tutt’altro che un aspetto minore, nel fatto che di famiglia ce n’è sempre meno proprio laggiù dove più ferve la vita, dove più vivace è il paese, la sua economia, la sua vita sociale e culturale, vale a dire nei centri delle cosiddette aree metropolitane ovvero, detto in altri termini, nelle maggiori città del paese: Roma, Torino, Milano, Venezia, Genova, Bologna, Firenze, Bari, Napoli e Reggio Calabria. Alle quali si aggiungono quattro città metropolitane delle regioni a statuto speciale: Palermo, Catania, Messina e Cagliari. Qui la famiglia è meno famiglia che altrove, qui la famiglia è spinta, segnatamente per quanto riguarda le metropoli del centro-nord, ai margini delle comunità e della vita metropolitane.


Meno famiglia i centri delle aree metropolitane fanno segnare, ed è una differenza che dice tutto, soprattutto rispetto alle periferie di quelle stesse aree metropolitane, ovvero rispetto agli altri comuni che costituiscono le aree metropolitane. Come se la grande cesura relativa alla vitalità della famiglia avvenisse proprio tra la grande città da una parte e il resto del territorio che pure attorno alla grande città si stringe dall’altra. Minima vitalità nella prima, migliore anche se non sufficiente nel secondo. C’è un dato che meglio e più degli altri riassume questa cesura, questo divario nella vitalità della famiglia: la proporzione delle famiglie unipersonali sul totale delle famiglie. Arrivata ormai al 33,2 per cento a livello nazionale, questa proporzione balza al 40,1 per cento nei centri delle aree metropolitane mentre scende al 28 per cento nelle periferie di quelle aree: nelle periferie le famiglie unipersonali sono a parità di popolazione il 30 per cento in meno che nei centri metropolitani. Divario aggravato dal fatto che mentre nelle periferie le coppie senza figli sono il 48 per cento delle coppie, nei centri metropolitani arrivano al 54 per cento delle coppie. E dunque: molte più famiglie di una sola persona, in pratica non famiglie, e più coppie senza figli: questa la realtà della famiglia nei centri metropolitani rispetto alle loro periferie. 


Ora, a questo riguardo gli interrogativi sono due. Il primo: perché nella grande città specialmente del centro-nord, dove si arriva a punte anche di 50 famiglie unipersonali su 100 famiglie, la famiglia ha così poco spazio? Il secondo: perché la situazione economica, sociale e culturale non è migliore dove la famiglia gode di una maggiore vitalità, vale a dire nelle periferie, anziché nei centri metropolitani?


Insomma, dov’è più l’importanza della famiglia, per una società moderna come quella italiana, se là dove ce n’è meno c’è più benessere, generalmente inteso, di dove c’è più famiglia? Domanda che implica un corollario ancora più inquietante: può mai tenere un istituto come quello della famiglia se proprio laggiù dov’essa è più marginale e meno incisiva le cose, dal reddito pro-capite ai livelli di istruzione alla stessa speranza di vita, vanno meglio anziché peggio? 
Interrogativi difficili. Occorrerebbero volumi. Qui ci si limiterà a un paio di considerazioni, poco più di uno spunto di riflessione. Prima considerazione: la città, la grande città, la metropoli in modo particolarissimo, è andata organizzandosi e articolandosi ben più attorno alle esigenze dell’individuo che non a quelle delle famiglie. Perché era più facile e meno dispendioso, punto primo. Perché apportava più vantaggi immediati e nel breve-medio periodo, punto secondo. Il calcolo è buono, poco da dire. Ma, così com’è, senza correttivi, è destinato a non durare, ad arenarsi, mancando di uno sguardo più lungo, più volto al futuro che sarà, quello non immediato. A maggior ragione in quanto – ed ecco la seconda considerazione – questo calcolo è stato reso possibile dal ruolo subordinato che hanno assunto le periferie rispetto ai centri metropolitani, dal loro vivere sempre più in funzione gregaria rispetto ai secondi.


Si guardi, in proposito, a cosa è successo in termini di cambiamenti di residenza. La grande città attrae i single e le coppie senza figli che vi hanno trovato lavoro o in cerca di opportunità, mentre spinge nelle periferie le famiglie di più persone che guardano a costi più contenuti per vivere, a cominciare da quelli delle abitazioni, o a una vita meno frenetica e più sicura per crescere i figli. Trattasi di uno scambio che non può reggere senza scombinare equilibri demografici e sentimenti sociali in quanto finisce per concentrare nei centri delle metropoli le spinte più individualistiche e creative lasciando alle periferie ruoli di supporto e, per così dire, di rifornimento. La metropoli dovrà ripensarsi per le famiglie, se vorrà avere un futuro. Ed è in questo ripensarsi, del resto, che può trovare un futuro la famiglia.