L'editoriale del direttore
Difendere Juno a Milano. Il coraggio della maternità oltre ogni moralismo
Un figlio che non si vuole non necessariamente deve essere un figlio che non deve nascere. La storia delle due mamme milanesi che partoriscono figli non desiderati merita qualcosa di molto diverso dalla gogna pubblica
“Juno”, lo ricorderete, è un meraviglioso film uscito nel 2007 nelle sale di tutto il mondo. La protagonista di “Juno” è Ellen Page, il regista si chiama Jason Reitman e la storia di Juno è quella che certamente non avrete dimenticato. Una giovane del Minnesota, di sedici anni, dopo aver fatto sesso con il suo migliore amico, Paulie Bleeker, rimane incinta. Inizialmente, decide di abortire, in gran segreto, ma dopo aver preso appuntamento per l’operazione sceglie di cambiare idea, capisce che per lei un’alternativa c’è e opta per un’altra soluzione: proseguire la gravidanza, con l’intenzione però di dare in adozione il figlio a una coppia scelta da lei. La storia di Juno è forse la migliore da evocare in queste ore per provare a raccontare con un occhio diverso da quello convenzionale due storie che nelle ultime ore hanno catturato l’attenzione di molti osservatori. La prima storia è quella di Enea, il bambino partorito da una donna poco prima della Pasqua, lasciato dalla stessa madre in una moderna ruota degli esposti attivata nel 2007 dal Policlinico di Milano, e la seconda storia è quella di un’altra madre che dopo aver partorito in un capannone abbandonato nei pressi di Milano, ha scelto di lasciare la figlia all’ospedale Buzzi di Milano.
In entrambi i casi, nel primo in particolare, l’approccio seguito dal moralista collettivo, perfettamente incarnato dalla Ezio Greggio Associati, è stato quello di mettere alla berlina la mamma che ha scelto di abbandonare il figlio, denunciando la sua irresponsabilità, il suo gesto osceno, la sua scelta disumana. E in entrambi i casi, nel primo in particolare, la discussione si è andata a concentrare sul tema della privacy, ovvero sul dovere civile dell’opinione pubblica di proteggere l’identità della donna che ha scelto di non tenere il proprio figlio. In pochi casi, invece, si è deciso di concentrarsi su un altro fatto non meno importante rispetto a quelli appena elencati. Un fatto che per l’appunto ci riporta alla storia di Juno e che ci dovrebbe far ragionare su una scelta coraggiosa compiuta dalle mamme dei due figli abbandonati in ospedale: aver capito che un figlio che non si vuole non necessariamente deve essere un figlio che non deve nascere.
La storia dei due bambini di Milano, e delle due mamme e della loro scelta di vita, ci riporta alla mente la storia di Juno, è ovvio, ma ci riporta alla mente anche la storia di un’altra donna che per molte ragioni è stata uno simbolo positivo di Milano negli ultimi anni: Paola Bonzi. Paola Bonzi, anche qui lo ricorderete, è stata una donna coraggiosa che per molti anni ha gestito il Centro di aiuto alla vita della Mangiagalli, a Milano, provando a mettere la sua passione e la sua esperienza a disposizione dell’articolo 5 della legge 194, quello in cui si dice e si ricorda che “il consultorio o la struttura socio-sanitaria” deve aiutare la donna, se ci sono le condizioni, a “rimuovere le cause che porterebbero alla interruzione della gravidanza”, promuovendo “ogni opportuno intervento atto a sostenere la donna, offrendole tutti gli aiuti necessari sia durante la gravidanza sia dopo il parto”. Paola Bonzi, dal 1984 fino all’anno in cui è scomparsa, il 2019, ha detto di aver aiutato a valutare un’alternativa diversa dall’interruzione di gravidanza circa 20 mila mamme, convincendole come Juno a fare una scelta diversa rispetto a quella che avevano inizialmente considerato e ricordando con la sua testimonianza che per manifestare a favore della vita più che impegnarsi a trovare un modo per rendere più restrittive le leggi sull’aborto occorre fare tutto il possibile per agire in un’altra direzione, non facendo per esempio sentire sole e perseguitate le mamme che di fronte a un figlio non voluto capiscono che interrompere la gravidanza non è l’unica scelta possibile.