Viaggia che ti passa
Prendere un aereo ci libera da ogni paraocchi occidentale e rende più felici
Neanche un drammaturgo francese dei primi del Novecento riuscirebbe a essere triste a Bangkok. E solo luoghi esotici possono trasformare la più funebre espressione di Daniel Day-Lewis in un sorriso da Harry Styles su TikTok
Più passa il tempo e più ne sono convinto: viaggiare fa bene. Ogni volta che sono in giro per il mondo, per lavoro o per piacere, ho l’impressione di stare meglio. Per esempio, appena atterro a Bangkok, mi sembra che vada tutto per il verso giusto (sensazione più unica che rara), perché è la città più facile del pianeta. Intorno a te, vedi solo gente felice, perché anche loro sono lì e stanno vivendo come te il momento migliore della propria esistenza. La sensazione di appagamento è contagiosa: neanche un drammaturgo francese dei primi del Novecento riuscirebbe a essere triste a Bangkok. Tempo una settimana e perfino Antonin Artaud si trasformerebbe in Antonella Clerici. Quando si è presi dall’estasi del viaggio, deprimersi è più difficile: ho delle valide ragioni per alzarti dal letto e mi va di lanciarmi in situazioni che, qui in Italia, eviterei a ogni costo. Riscopro il piacere del contatto con la natura, ho degli sprazzi di mondanità e da Ornella Vanoni mi trasformo nell’antropologa Margaret Mead, perché mi sento ben disposto ad accogliere con gioia tutte le particolarità e le stranezze della cultura che mi ospita, eccetto un’eventuale epidemia di febbre emorragica.
Qui a Milano, la prospettiva di uscire a comprare le sigarette mi terrorizza. In India, invece, posso affrontare col sorriso una gita nella contea di Munnar, “la terra dei tre fiumi” e delle verdeggianti coltivazioni di tè. O visitare le Backwaters, una rete di lagune e laghi salmastri che frastagliano la costa del Kerala, da percorrere ed esplorare a bordo di barche di tutti i tipi, dalle bagnarole più economiche a lussuose imbarcazioni anni Trenta, con tende e marinai più eleganti di un usciere dell’Eliseo. Il viaggio mi libera da qualsiasi paraocchi occidentale e mi prepara ad accogliere stimoli nuovi (ovvero: a bermi qualsiasi cialtronata). Come quella volta che sono andato a visitare uno psichiatra marma. Dovete sapere che in Kerala esiste un’arte marziale molto esclusiva, talmente ricercata che non la conoscono neanche le vostre amiche di corso Magenta: il Kalari, disciplina secondo cui l’essere umano è attraversato da una rete di marma, dei punti energetici (107 nel corpo, uno nella mente) sui quali è possibile agire sia per mandare al tappeto un aggressore sia per fare un massaggio rigenerante. In uno dei momenti più alti del mio relativismo culturale, sono andato da uno psichiatra marma che ha cominciato a darmi delle botte in testa, mentre io e sua moglie ripetevamo come in un mantra: “Sono una persona felice”. Intanto che il tizio mi prendeva a pugni il cranio, mi sono passati davanti agli occhi Charles Darwin, Bertrand Russell, gli antibiotici, il Napisan… mi è sembrato di buttare nel cesso millenni di evoluzione del pensiero e mi sono sentito in colpa: una versione Vhs di Pico della Mirandola. Mi sono ripromesso di non tornare più da quel dottore, ma poiché la mia perversa curiosità antropologica è mossa più dalla comicità che dalla scienza, sono abbastanza certo che, pur pentendomene, un giorno ci tornerò.
Ripensandoci, sono andato da questo tizio solo perché mi era stato consigliato da un maestro di Kalari, un uomo aitante che riceve la clientela nella sua casa/studio, un luogo molto charmant ma architettonicamente poco strutturato: al posto delle porte ha delle tende e, anziché avere un vialetto che conduce all’ingresso, ha uno sterrato con le galline. Eppure la sala d’aspetto è piena di ricchissime signore parigine che, ne sono certo, sono lì soprattutto per l’avvenenza del maestro. Un giorno, finito il massaggio dei punti marma vicini al sahasrara (o settimo chakra), mi ha fatto un piccolo dono. Era chiaro che non avevo chissà che ricchezze, ma indicandomi le francesi annoiate mi ha detto “Tu sei molto più generoso…” e mi ha offerto un bicchiere di latte e miele. Il latte era quello delle capre, che nutre solo con foglie di papaya, e il miele era prodotto dalle sue api che, mi ha assicurato, bazzicano solo fiori ben lontani dalla città di Thiruvananthapuram. La scienza può migliorare le nostre condizioni di vita, ma è difficile che ci renda anche felici, visti i costi delle cliniche svizzere. Solo viaggiando ci si può ritrovare in mezzo a un allineamento di contingenze in grado di trasformare la più funebre espressione di Daniel Day-Lewis in un sorriso da Harry Styles su TikTok.
Abituati alla tragedia