Ragione e istinto

La psichiatra uccisa e l'orsa. La malattia mentale e il rischio di farsene carico

Adriano Sofri

La dottoressa Capovani, aggredita dal paziente che aveva dimesso nel 2019, e la vicenda di Jj4 che ha ucciso un uomo in Trentino. La forza di andare oltre l'impulsività e la difficile vocazione alla cura

Si guarda il viso di Barbara Capovani, si leggono i ricordi di compagne di scuola e colleghi, l’uscita dal lavoro, il lucchetto della bicicletta, in una fine d’aprile. Si prova strazio e rabbia. “Il mio primo pensiero…”, diciamo per ricostruire la reazione a un’emozione così forte. Ma non è un pensiero, è qualcosa che viene prima, e fra poco sarà riafferrato e riportato alla ragione, come si deve fare con l’irruzione della sfrenatezza. Barbara Capovani non era la psichiatra del carcere, lo frequentava per consultare una collega o seguire qualche caso personale o confrontarsi con i medici interni – il carcere è un serbatoio e un incunabolo di malattie mentali.

 

Quel carcere che è stato il mio ospita da domenica l’assassino. Così il conato che chiamiamo primo pensiero fa immaginare la punizione, che somigli almeno in parte alla efferatezza del suo gesto. Impulso di cui subito dopo bisogna vergognarsi: ma bisogna vergognarsene solo se si ceda e lo si nutra con l’armamentario dei pensieri. In galera, come dev’essere – e spesso non è – quel nuovo arrivato va custodito da se stesso e dagli altri, isolato e sorvegliato, sarà visitato da mediche amiche della sua vittima, e che faranno forza alla ripugnanza. Se fossi in galera, naturalmente direi ai miei compagni che quell’uomo non va toccato. Ma i miei compagni dovrebbero sentire, e io di ciascuno di loro, che non ci è mancato quell’impulso “che viene prima”. E che, prepotente e precedente com’è alla ragione, tocca però il suo estremo: la consapevolezza che nel delirio sfrenato, nella “pazzia”, resta una quota di responsabilità. Dimettendo il suo futuro assassino nel 2019, la dottoressa Capovani ne descrisse i disturbi narcisistici e paranoici, aggiungendo che appariva “totalmente consapevole delle proprie azioni e del loro disvalore sociale”. Il lettore si chiede come siano conciliabili le due parti della diagnosi, e concludere che l’una o l’altra fosse necessariamente sbagliata. C’è un’altra conclusione possibile: l’inconciliabilità senza riparo.

 

Farò un paragone, non ve ne scandalizzate. C’è un giovane uomo che corre in un bosco, e una femmina d’orso coi cuccioli lo assalta e lo uccide. Un raro, tragico episodio del conflitto fra cultura e natura, o, se preferite, fra natura umana e degli altri animali. Il giudizio si spacca in due. Arriva a imputare all’innocente vittima umana di essersela cercata: doveva saperlo, pensarci… All’opposto, l’orsa: di cui non ci si accontenta che non costituisca più un pericolo, ma che si vuole punire. Lei, col suo nome ridicolo, o la sua categoria, una vendicata e rivendicata “zona esente da orsi”. Il paragone è largamente arbitrario, si capisce. Il residuo di responsabilità che va riconosciuto all’animale umano non appartiene all’orsa, dunque il desiderio di castigarla – “retribuirla”, come dice il linguaggio carcerario – è imbecille oltre che cattivo. D’altra parte, la malattia mentale dell’assassino di Barbara C. non ne fa un rappresentante della “natura” contro la “cultura”, se non in un senso molto mediato.

 

Ma ad accostare i due eventi e l’emozione che suscitano è il sentimento di quella “inconciliabilità”. Di un problema irrisolto e in una misura irresolubile. Si può fare molto, e si è fatto poco, per assicurare i territori degli umani e degli altri animali. Si può fare molto, e poco si è fatto, per sostenere chiusura dei manicomi – chiusura dei luoghi chiusi, delle riserve innaturali di creature umane ridotte non a bestie ma a oggetti – e capacità di cure, domicilii, protezioni di curanti e curati, soldi. Ma resta un fondo inesauribile di sacro, di dannato, nella malattia mentale, e di abnegato e temerario nella vocazione a farsene carico. Resta un rischio, per chi si avventura in un bosco. L’impulso che “viene prima”, a colpire, annullare, far sì che la cosa non sia avvenuta – e che va tenuto a freno ma non ignorato, è la condizione che ci fa umani, nel doppio senso, degli animali umani che siamo, e della compassione, che siamo capaci di sentire anche per gli altri. Chi si ferma a quell’impulso, e lo vada corredando di pretesi argomenti, a cominciare dalla caricatura della sicurezza, può ritornare al ripristino dei manicomi – è il gran sogno, riaprire luoghi chiusi – e della pena di morte: prendendola da lontano, dall’orsa

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