l'indagine
Il corpo dei bambini, concepiti e postati online
Nelle tribù i figli erano proprietà dei genitori. Oggi il meccanismo si ripete, con i social pieni di pupi ignari. Tra autolatria e voglia di intenerire, alla ricerca di un like
Concepiti e postati. I neonati non hanno il tempo di un vagito che dall’ecografia fanno già gli instagrammer. Una ricerca condotta dalla Società italiana di pediatria con omologhi istituti europei, pubblicata sul Journal of Pediatrics, rivela che il 14 per cento delle madri condivide sui social ecografie col pancione; a un anno le foto del bambino sono già 300; “Entro il secondo compleanno” – spiega Pietro Ferrara, responsabile del gruppo sui diritti del bambino della Sip – “il 70 per cento dei genitori ha raccontato al web i progressi del figlio”. A 5 anni molti bambini compaiono in migliaia di foto su Internet.
Sono numeri che confermano sensazioni. Ma se – come si dice – nessuno ha mai chiesto di nascere, figurarsi chi possa chiedere di nascere in foto, con la faccia arrossata o le dita accavallate. In un’istantanea appeno dopo lo sforzo di venire fuori. O magari anche prima di venire fuori, nel pancione, come è capitato ai figli di Ferragni o più di recente al bebè di Aurora Ramazzotti, che posava con abito Ermanno Scervino in copertina per Vanity Fair. Dalla scollatura omerale la veste cascava, esaltando il pancione. E la foto circolava sui social con dichiarazione: “Non è stato facile”.
Accade così, caro bambino feto o embrione, che prima della culla – prima o dopo lo strapazzo di nascere – non si possa comunque sfuggire a Instagram. Il social preferito di tua madre, dove l’utenza media ha all’incirca la sua età: trent’anni. Ma dove il codice etico è più o meno quello di un pigiama party. Una tendenza piuttosto recente, per dire, è lo shower baby party. Ovvero – scrive il sito “Pianeta Mamma” – “un’occasione carinissima e super felice, che allieta tutte le mamme in dolce attesa arrivate alla fine della gravidanza. Viene organizzato dalle sorelle o dalle amiche più care ed è una festa che è in voga anche in Italia ma arriva dall’America”. E dall’America, questa festa carinissima e super felice, l’ha importata a Milano la più carinissima e super felice delle ragazze in età da bebè. Già nella serie tivù “The Ferragnez” avevamo appreso dello shower baby. Una festa “a sorpresa” per finta: di solito la mamma decide quand’è e dà indicazioni su cosa è lecito o illecito fare, dire, mangiare. Condizioni del party: fare tanti regali al nascituro – da cui “shower”, pioggia di regali – non bere alcolici in solidarietà con la donna incinta e scattarle foto che posterà sui social. Il party ha grande successo fra le venti-trentenni in dolce attesa. E soprattutto per merito di Ferragni. Dopo aver importato il party, “La Ferry” l’ha organizzato a sua sorella, “la Francy”, insieme a tutta “la Family”. Così racconta su Instagram. E svela ancora di aver pianto, durante la lettura dei discorsi, forse perché “in crisi ormonale”. E in effetti è tutta una burrasca di ormoni. Una febbre che esalta e pone diversi temi. Primo: com’è che di figli ne facciamo pochi ma ne fotografiamo tanti? Perché la questione somiglia un po’ a quella del sesso e cioè alla nota formula per cui meno si fa più se ne parla. E poi c’è un altro fatto visto che se una mano sgradita sul mio ginocchio femminile è molestia, lo stesso non vale per il bambino (le cui guanciotte vengono spupazzate e filmate senza che nessuno gliel’abbia chiesto). E il fatto è che se il corpo adulto esige rispetto, quello infante no. Il corpo del bambino è emanazione di un altro, è una proprietà.
Talvolta non solo il corpo, visto che i post sconfinano nel diritto d’autore. Sempre su Instagram ci sono profili di bambini prodigio. Una di loro sa tutte le capitali d’Europa, ministra degli esteri. Un’altra – viralissima – battibecca col padre che non vuole metta lo smalto. E alla fine, come una fidanzata orgogliosa, risponde: “Va bene, fa’ quello che vuoi”, ministra per le pari opportunità. Una coppia padre-figlia fa il salto di qualità: dal social al televisore (che sarà pure un dinosauro ma segna ancora la differenza fra chi ci prova: sui social, e chi ce la fa: in tele). Sono Stefano Pollari, papà influencer, e sua figlia. Che porta un nome che è già storia, letteratura, geografia linguistica… La bambina si chiama Ilary. E infatti parla in romanesco. Stefano e Ilary hanno due profili che insieme contano 400 mila follower. La bambina è piccola ma tanto vispa. Prende in giro il padre che le dà da mangiare il poké: “Sembra il riso dell’ospedale. Se chiama poké perché è poco”. Follower: centinaia di migliaia. Età: cinque o sei anni.
La trama è sempre la stessa. Il genitore scatta, posta e tira su l’engagement. Ed è – volendo esagerare – come una versione “Disney Channel” di Irina Ionesco, la fotografa francese che scandalizzava ritraendo la figlia nuda, con le mutandine e il reggiseno abbassati. Figlia che da adulta l’ha citata in giudizio per averle “rubato l’infanzia”. Ai bambini prodigio in apparenza non si ruba niente. Ma queste mamme e papà manager ci pensano mai a quando i bambini avranno anche solo otto anni e a recitare l’alfabeto greco non saranno buffi ma fastidiosi? Brillanti promesse e già soliti stronzi?
Alla base di tutto il fenomeno – e alla base di tutto il social – c’è comunque una logica tribale. Perché Meta non è community ma tribù. E, sempre per il gusto di esagerare, la logica è proprio quella di molti primitivi che consideravano i figli piccoli “proprietà”. E ci facevano di tutto. Se nell’Africa Nera o nel Nuovo Mondo o – più tardi – fra le streghe occidentali, i bambini potevano essere cotti e mangiati, gli instagrammer sono un aggiornamento più mite. Non sono puerofagi, ma col corpo bambino si cimentano nel gioco tribale del like. Scattano e postano. Guance, pance, coscette, rotolini di carne umana senza mai chiedere permesso all’umano che li possiede. Umano che ancora per qualche anno non potrà dissentire. Stesso umano che di lì a poco – magari nell’età del pudore – si guarderà bene dal fotografarsi coi genitori, che per ora lo espongono al mondo. E non pensano mai che – nascosto – c’è forse qualche tribale della vecchia scuola. Magari meno mite alla vista di coscette pucciose… Non ci pensano perché forse, per dirla con Ida Magli, viviamo nel “mito dell’infanzia” da più di duemila anni. E cioè nell’idea che i bambini siano quanto di più sacro, amato, protetto quando in realtà l’antropologia mette in fila una serie di soprusi sempre esistiti, dall’abbandono alla violenza sino all’aborto. Sopruso che abbiamo semplicemente civilizzato. E in questa civilizzazione, anche l’esibizione del figlio è un richiamo tribale. Perché ancora vede nel figlio una proprietà. Un oggetto da sfoggiare come borse e orologi (a proposito di Ilary).
Ma se non bastano gli antropologi, pure i medici – come quelli della ricerca del Journal of Pediatrics – dissuadono dal “condividere immagini dei figli in qualsiasi stato di nudità”. Il pericolo è ovvio. Ma non è solo un fatto di sicurezza. Una proposta di legge, presentata a marzo dal deputato Bruno Studer al parlamento francese, si dichiarava “contro la tentazione della viralità” e per “l’imperativo dell’intimità”. In Italia siamo stati abituati alla baby-politics, coi figlioletti che fanno capolino dagli account dei ministri. Ecco, la proposta del macronista Bruno Studer vira in senso opposto. Scoraggia quello che i beninformati chiamano sharenting, da sharing e parenting: il postare compulsivo dei genitori. Studer si richiamava a uno studio dell’Observatoire de la Parentalité & de l’Éducation numérique secondo il quale il quale il 53 per cento delle mamme e dei papà francesi condivide contenuti sulla prole; col 43 per cento di loro che pubblica foto e video fin dalla nascita e il 91 che li immortala nell’arco di tempo da zero a cinque anni.
Instagram, social di noi esteti ed epicurei, offre notevoli spunti. Le poche amiche di venti-trent’anni che abbiano deciso di riprodursi da un giorno all’altro, infatti, cambiano subito stile del feed. Da che c’erano tacchi spacchi vini e pesce crudo, iniziano a comparire date di nascita scritte in alto, subito dopo il nome, nella “bio” del profilo. Le date di nascita, cui seguiranno foto di ciucci e girelli, sono ovviamente quelle dei figli. Ma la febbre del baby-post è sintomo di un bisogno che preesiste. Sentire il figlio una proprietà, postarne gli occhioni e i prodigi, è una forma d’autolatria. La stessa febbre d’autopromozione che faceva postare frutti di mare, viaggi esotici o – ai più dotti – foto di libri sconosciuti. Condividere i progressi del figlio, insomma, è anch’esso un modo di lisciarsi l’ego. Auto-proiettandosi in una vita che si reputa appendice. Per ottenere complimenti prima d’allora impossibili: “pucciosissimo”, “tenerissimo”, “carinissimo”.
E a proposito di carinerie, va sempre ricordato che questa è l’èra del cute. E che il fenomeno prende piede perché intercetta lo spirito del tempo. Nel 2021 veniva tradotto e pubblicato in Italia un libro, Carino! Il potere delle cose adorabili (Luiss University Press) di Simon May, filosofo del King’s College. In copertina un gatto glitterato con al collo un fioccone rosa. Hello Kitty, Baby Yoda, gattini, Minnie, Topolini e… bambini! Sono i numi tutelari dello Zeitgeist. Il carino, scrive May, è più efficace del bello, perché a differenza del bello – che toglie il fiato – il carino è ricattatorio. Se la bellezza mette in crisi, turba, toglie il sonno, getta luce sulle proprie mancanze, la carineria no. Chi è bello taglia. Chi è carino fa moine. Ammorbidisce, ma pure ricatta. Pensateci. E’ più facile accanirsi con un dio sceso in terra che con un batuffolo rosa. I genitori sballottolano i figli come orsacchiotti di pezza. Li immortalano nudi come puttini. Li tengono sacri, ma intanto ne fanno product placement. E con loro acchiappano tanti like. Quando spunta un bambino nel feed, è difficile non mettere il cuoricino. Oltretutto nessuno sano di mente dice: ma che brutto bambino, perverso polimorfo! E quasi nessuno – dopo millenni di miti dell’infanzia – è così cattivo da ignorarlo.
Loro sono i baby ruba-cuori. E non si possono attaccare impunemente: da qui l’essenza ricattatoria del cute. Essenza di cui forse si è consapevoli nell’ambito della psicopolitica. In Italia c’è tutto un filone, si diceva, di figli di politici che rubano la scena ai genitori. Conosciamo i nomi di questi bambini, talvolta hanno il viso pixelato. I genitori ci hanno raccontato – contestualmente a proposte elettorali – di quanto li amino o si sentano in colpa per il troppo tempo lontano da loro. Ebbene, fossero i politici volpi nei loro post coglieremmo il ricatto. Della serie: io politico posto il pupo, e se ti piace t’intenerisco, ti mostro il mio volto umano; se non ti piace, il disumano sei tu, io sono vittima (e si sa quanto il vittimismo sia un esercizio di potere: perché chi viene ferito è buono e ha più diritto a essere ascoltato). Tuttavia, oltre Nietzsche e Simon May, può anche darsi la realtà sia un po’ più semplice. Può darsi infatti che i figli dei politici non siano figli di volpe ma di gente normale. Che cede ai piaceri normali. Come è quello di sfoggiarli sui social sul modello dei propri elettori (e sempre secondo il principio di “somiglianza” che sostituisce la novecentesca “rappresentanza”).
E ancora non può sfuggire, se parliamo di bambini e mondovisione, uno degli influencer occidentali più amati, il Dalai Lama. L’amico di Richard Gere che si mette sulle gambe un bambino e lo bacia in bocca. E poi chiede gli si succhi la lingua secondo un costume tibetano che manifesta rispetto. L’immagine corre veloce, una parte del mondo s’indigna e il Dalai Lama si scusa. Prima col ragazzino, poi con la parte di mondo lesa. Ma lo scandalo lascia il tempo che trova, visto che il Dalai Lama fa poco più dei genitori sui social. Fa quindi lo scemino, come tutti. Gli indignati sbaciucchiano anche loro figli e nipoti. E qualcuno, da qualche parte nell’universo, chissà un marziano, guardandoci su Instagram potrebbe pensare all’incesto così come noi ci turbiamo per quella lingua. Per carità, un genitore, per quanto ubriaco d’amore, è sempre più perdonabile di un capo buddhista. Ma il tema vero – per cui il relativismo non regge – è che un bambino è bambino a tutte le latitudini. E se genitori e buddhisti fanno un po’ gli scemini, non si può chiedere raziocinio agli infanti. Che non sanno bene cosa comportino Instagram o una lingua in bocca (ammesso lo sappiamo noi che in buona fede approfittiamo). E poi bisogna tenere a mente che i neonati crescono. Le guancette si riempiono di segni, la voce diventa grave. Con tutto il corpo adolescente che predispone al rinfaccio. E dopo migliaia e migliaia di foto, forse a ragione, si rinfaccia. Non si resta bambini per sempre.
generazione ansiosa