Saverio ma giusto
Per contrastare la solitudine non bisogna intervenire sulle persone sole, ma sugli altri
La pandemia da Covid finisce ed ecco l'annuncio di "un'epidemia di solitudine". Il dubbio è che la vera epidemia dei nostri tempi sia la tendenza a patologicizzare qualunque cosa. Una proposta
L’Oms non ha fatto in tempo ad annunciare la fine della pandemia da Covid (alla notizia mi sarei aspettato caroselli di macchine in piazza a Codogno manco fosse la festa scudetto del Napoli, con falò di mascherine, gavettoni di starnuti, stelline scintillanti fatte con i tamponi, almeno tre dosi di prosecco e grigliata di pangolini e pipistrelli fatti arrivare apposta dal mercato di Wuhan; e invece niente, abbiamo cantato sui balconi per l’inizio della pandemia e non per la sua fine, poi uno dice che siamo strani…), non si è fatto in tempo a uscire da un’emergenza sanitaria, dicevo, che eccone annunciata un’altra, e ben più subdola: Vivek Murthy, massima autorità sanitaria degli Stati Uniti, ha dichiarato che è in corso “un’epidemia di solitudine” – psichica e sociale – che avrebbe già colpito metà della popolazione americana, ma che dilaga anche nel resto del mondo. Non è la prima volta che viene lanciato questo allarme: già nel 2018 il governo inglese di Theresa May aveva istituito un ministero della solitudine per contrastare il fenomeno; e persino il presidente Mattarella, qualche anno fa, in alcuni suoi discorsi pubblici aveva dedicato alle persone sole passaggi pieni di preoccupazione. Ma adesso, dopo una pandemia che ha istituito l’isolamento come presidio sanitario e sinonimo di sicurezza propria e altrui, il fenomeno si è diffuso e radicato; al punto tale da parlare di vera e propria epidemia. Da persona che vuole essere lasciata in pace, a cui piace prenotare al ristorante un tavolo da uno e che se incontro per strada una persona che conosco tendenzialmente cambio strada per non salutarla, mi chiedo: ma che male faccio? A quanto pare, faccio male a me stesso: la solitudine – dicono i report su cui si basa anche l’allarme di Murthy – può rivelarsi mortale “come il fumo” – con la differenza che non impuzzolentisce i vestiti, non macchia i denti e non lascia mozziconi in giro – e può aumentare il rischio di morte del 30 per cento.
La solitudine infatti innescherebbe insonnia, disturbi alimentari, ansia, depressione, dipendenze, vabbè le solite cose. Effetti collaterali dell’essere vivi. (Per giunta faccio notare che insonnia, ansia, dipendenze, sono poi le cose di cui si parla quando ci si vede, insomma sono un collante sociale). Non starò qui a fare polemica – e cioè a elencare tutte le controindicazioni dalla compagnia, come i contagi, l’inquinamento acustico, l’irritabilità causata dalle opinioni altrui e l’omicidio; ma mi chiedo se e come s’intenda contrastare il fenomeno della solitudine. Obbligo di assembramento? Invito a indossare le maschere sociali al posto delle Ffp2? Campagna vaccinale che favorisca la vita sociale? – il siero ci sarebbe già: si chiama gin tonic.
Io penso che la vera epidemia dei nostri tempi sia questa tendenza sempre più diffusa a patologicizzare qualunque cosa, adesso persino la solitudine. O forse il problema è la povertà del nostro vocabolario personale, che ci porta a usare “solitudine” al posto di “isolamento” come se fossero sinonimi – mentre sono due cose ben diverse, e quella grave è la seconda. Ma dato che il mio titolo di studio non mi consente di obiettare in modo qualificato, prenderò sul serio questo allarme epidemico; e mi permetto di proporre una soluzione. Per contrastare la solitudine non bisogna intervenire sulle persone sole, ma sugli altri. Sì, gli altri: bisogna renderli più interessanti, più intelligenti, più gentili, più sessualmente attraenti – o anche solo vestiti meglio e più profumati. Vi assicuro che se le persone fossero migliori, avremmo tutti più voglia di stare in compagnia gli uni degli altri.