“Monica” di Andrea Pallaoro, con protagonista l’attrice trans Trace Lysette, in concorso alla 79esima Mostra del Cinema di Venezia 

Transgender in viaggio - 2

Storia di una madre progressista che si interroga su tutti quegli step e sul possibile “contagio sociale”

Marianna Rizzini

Chiacchierata con Silvia, davanti al coming-out della figlia-figlio. Poi c’è Ethan, che il percorso lo ha fatto, e posta la foto della mastectomia per “far sentire gli altri meno soli”. I ragazzi di “Gender X”, le iniziative nelle scuole per il registro alias, i dati sugli accessi ai centri, le tre tappe

“Puoi smettere di simulare, no?”. “Ed essere cosa?”. “Essere te stessa”. “E cioè chi sono?”

(“Victor Victoria”, regia di Blake Edwards, 1982)

   

Era il 1982 e Blake Edwards sfidava, in “Victor Victoria”, con ironia lieve e una Julie Andrews formidabile, il comune sentire sull’identità di genere, prima che il discorso pubblico e politico fosse investito dell’argomento, e attraverso il personaggio di una donna che finge di essere un uomo che finge di essere una donna. Ma oggi che il tema del gender si è imposto per effetto della realtà (figli adolescenti che dichiarano di non riconoscersi nel proprio genere) non è tempo di infingimenti o travestimenti, anche se a Sanremo, tre anni fa, il cantante Achille Lauro si è divertito a giocare con le identità fluide e con l’essere non-binario, cioè persona che rifiuta lo schema di identificazione esclusiva uomo-donna, avvolto com’era in abiti Gucci da ragazzo elisabettiano che se ne frega della mascolinità classica (“Me ne frego” era infatti anche il titolo del brano portato all’Ariston). E nei giorni in cui la scrittrice Michela Murgia, sul Corriere della Sera, racconta la convivenza con un tumore al quarto stadio e con una famiglia queer di dieci persone, sembrano obsolete le narrazioni mediate alla “Lady Oscar”, fumetto giapponese anni Ottanta ambientato in una Francia pre rivoluzionaria dove la ragazza di nome Oscar si faceva soldato per volere paterno (“il buon padre voleva un maschietto”, diceva la sigla, strana per le bambine di allora) e per l’ambizione di una carriera impossibile per le donne. Lo faceva con un’ambiguità agita solo a livello formale (abiti maschili, seno fasciato sotto la giacca da guardia di Maria Antonietta, sorta di sorella d’elezione). Vestita da uomo, lady Oscar, ossimoro nominale, non aveva dubbi di genere o di orientamento.

   

    
Le due cose, genere e orientamento sessuale, oggi viaggiano disgiunte, dicono i giovani transgender e i medici che si occupano del percorso di transizione, raccomandando a chi fa domande “di non fare confusione”. Capita, racconta Lukas, ragazzo trans di 18 anni in procinto di andare all’estero per ragioni di studio, “di sentirsi uomo, di volere un corpo da uomo, come me che per l’anagrafe sono ancora una ragazza, ma anche di voler amare un uomo”. Contraddizione? Realtà con cui fare i conti? Anticipo di un futuro dalle non prevedibili sfaccettature? Lukas non sì è rivelato subito ai genitori. Quando ha parlato, lo ha fatto prima con il padre che con la madre (“ho pensato che per mamma, essendo io nata femmina, fosse più difficile accettare il mio coming out”). 

 
Non ci sono prove empiriche di una maggiore o minore difficoltà di accettazione a seconda del sesso del genitore, ma la scrittrice Silvia Ranfagni, autrice del podcast autobiografico “Corpi liberi” (Chora media, 2022), dice che a un certo punto il suo ex marito, alla notizia che la figlia di dodici anni si era definita persona non-binaria, buttando lì anche così, ex abrupto, tornando da scuola, la frase “mamma, sono trans”, e comunicando di non volersi chiamare più Alba ma Alex, se n’era uscito così: “Fosse stato suo fratello maschio, non ce l’avrei fatta”. “Che il padre abbia accettato la transessualità del figlio per motivi ascrivibili al patriarcato?”, aveva allora pensato Silvia. Nel podcast Ranfagni ha raccontato il viaggio di incredulità verso il “cambio di percezione” della figlia-figlio – viaggio fatto da lei, donna che lavora e vive all’Esquilino, a Roma, e da una madre siciliana che abita in un piccolo paese sotto l’Etna. Due mondi, stessa realtà. Nessuna delle due donne sapeva dove andare a cercare (dentro di sé? Fuori di sé?), i possibili motivi della rivoluzione vissuta in casa, motivi forse più complessi da decifrare del “già complesso tema posto dalla nuova realtà”, dice Silvia, ricordando che il figlio “non-binario” spesso la liquida al grido di “mamma, come sei antica”, frase che tutti hanno detto ai genitori o pensato dei genitori, non importa in quale epoca, nell’età della ribellione. E a Silvia, che fa parte della prima generazione di madri e padri (quaranta-cinquantenni) alle prese con il tema gender già alle scuole medie, si è stampata in testa la domanda: “Ma è tutto vero?”. E dal momento in cui, nella sua cucina, quel giorno, il mondo ha cominciato a girare in un altro verso, Silvia si è domandata se per caso non fosse in agguato una se stessa “ottusa conservatrice” o se fosse invece segno di lucidità l’esprimere a se stessa dei dubbi, e aveva dovuto “imparare di nuovo a camminare” anche grazie alla storia di un ragazzo trans poco più grande di Alex, Mark, incontrato a Roma in compagnia del padre, ex marito della madre siciliana che Silvia era andata a trovare in cerca di lumi. La mamma di Mark, inizialmente “pietrificata”, non aveva reagito come il padre di Mark (che diceva “di sapere già tutto”, anche se pensava che sua figlia, poi figlio, fosse omosessuale). Dobbiamo guardare le cose come entomologi, mettendo da parte le opinioni e le resistenze istintive di chi un figlio lo conosce da quando è nato oppure no? Questo si sono chiesti quei quattro genitori. La nonna di Mark, ultraottantenne, invece, del nipote in transizione dice: “L’importante è che stia bene, fuori c’è tanta cattiveria”. 


Ma non le opinioni, quanto gli interrogativi che non trovano risposta si affacciano alla mente di Silvia oggi. Non importa quanto si sia progressisti e aperti di mente: “Ti fai molte domande e fai fatica ad accettare la nuova identità, vista l’età così acerba del coming out”. Non si capisce bene, dice Silvia, se, vista l’espansione preadolescenziale della dimensione transgender (i dati, per l’Italia, sono ancora pochi: l’Oms e l’Iss, tre anni fa, stimavano attorno a 4-500 mila persone i giovani trans), questa realtà “affondi sempre in un disagio profondo del ragazzo o della ragazza o se ci sia anche, accanto a questo, un elemento di contagio sociale”. Come se quello che si muove attorno – sui cellulari, sugli schermi, nelle case – non fosse ininfluente nella decisione di mettersi in viaggio oltre il proprio genere. Silvia non sa, come forse nessun genitore di adolescente sa, se e fino a che punto “si debba contenere e arginare il figlio oppure accoglierlo e dargli credito”. “Non so dove corra il confine”, dice, “so che la vita a volte ti sorprende con uno scarto, e tu devi sforzarti di non drammatizzare, di normalizzare”. Alex le dice: mamma, tu mi consideri solo trans. E lei risponde che no, lo considera “prima figlio e poi persona esposta a una realtà transgender”. Lui risponde: non capisci, e Silvia si sente “un po’ depauperata del ruolo di madre, come se il rapporto genitore-figlio fosse ora inglobato in un rapporto genitore-gruppo di minoranza”. “Devo fare un passo indietro”, dice a se stessa, rincuorandosi e poi di nuovo rientrando in pensieri senza certezza, come quando, durante un viaggio fatto al nord, ha incontrato una ragazza transgender che faceva l’autista di bus su e giù per i valichi transalpini, tra paesi di montagna e campagna, e viveva una relazione stabile senza sentire il peso del futuro come sentiva lei, mamma di Alex, quattordici anni indecifrabili come tutti i quattordici anni, ma in questo caso di più. “Non so se siamo di fronte alla punta dell’iceberg di un sommovimento più profondo”, ha pensato Silvia quando la sorella maggiore di Alex ha annunciato di volersi “ridurre il viso troppo tondo”, e quando la madre ha obiettato che l’accettazione di sé deve venire dall’interno, la ragazza ha risposto “ma perché devo accettarmi se si può cambiare?”. “Questa percezione del corpo modificabile via chirurgia gliel’abbiamo data noi”, ha pensato la madre. I cui pensieri ora corrono all’estero, e al fatto che altrove, per esempio in Gran Bretagna, “la realtà transgender ha già prodotto un mutamento nell’organizzazione sociale, vedi carceri e ospedali”. In Gran Bretagna è anche già partito il dibattito sui “detransitioner”, i pentiti del percorso di transizione di genere, con guerra di dati, accuse incrociate di transfobia e faciloneria e un caso-simbolo, “Bell v.Tavistock”, causa intentata da una ragazza allora quindicenne alla Tavistock and Portman NHS Foundation Trust, centro per il trattamento della disforia di genere. La clinica era stata denunciata per aver sottostimato la capacità di giudizio della ragazza nell’assumere i farmaci bloccanti della pubertà. In primo grado i giudici avevano dato ragione a lei, ma in Appello la sentenza è stata ribaltata. Per quanto riguarda le carceri, invece, in Italia la situazione per i detenuti transgender non è codificata in senso univoco, dicono i rapporti dell’associazione Antigone, vuoi perché le persone trans, per essere protette dagli altri, rischiano di finire in una sorta di isolamento non legato al crimine commesso, vuoi per la difficoltà dell’accesso alla terapia ormonale. 


Lontano dalla Manica, nell’Italia dove il concetto di autodeterminazione pervade politica e società, dentro e fuori dai partiti e dalle battaglie sui diritti, Silvia si domanda, senza avere risposte univoche, se la rivoluzione in casa sua “faccia parte di una storia che parte da lontano o sia espressione dello spirito del tempo, abbia a che fare con l’emancipazione femminile o con la crisi dei ruoli tradizionali in famiglia, con conseguente difficoltà di identificazione dei ragazzi nel genitore del loro stesso sesso”. E riflettendo, dice, “ti può anche balenare sottovoce nella testa l’idea che mio figlio Alex, di fronte alla storia tormentata tra me e suo padre, e di fronte a quella che potrebbe aver percepito, guardando me, come una sorta di fatica dell’essere donna, abbia in qualche modo preso un’altra strada”. Ma è un pensiero che resta sospeso: “A me ora”, dice Silvia, “importa solo di rimandare il più possibile qualsiasi medicalizzazione, anche se mio figlio dice di voler prendere presto gli ormoni per modificare la sua voce. Come ogni madre, vorrei che il suo corpo restasse il più possibile sano. Che cosa ne so io di quello che può accadere prendendo ormoni dai 18 ai 60 anni?”. Sui farmaci bloccanti il dibattito è acceso: sono davvero del tutto reversibili, come dicono nei centri per il percorso di genere? E quanto pesano i possibili effetti collaterali sulla densità ossea? E se la Wpath, Associazione mondiale per la salute transgender, quella che pubblica le linee guida per il percorso di transizione, da un lato ne raccomanda l’uso, da qualche anno negli Stati Uniti, anche negli ambienti vicini alla stessa associazione, visto anche il moltiplicarsi di cause legali da parte di “detransitioner”, ci sono medici che invocano cautela. Lo scorso gennaio, intanto, la Società psicoanalitica italiana ha scritto al governo esprimendo “grande preoccupazione” e “forti perplessità” sull’uso dei bloccanti della pubertà per i minori con disforia di genere, ma la Società di psichiatria e l’Ordine degli psicologi hanno preso le distanze.  


Dal lato dei figli la paura non c’è o non emerge. Ne parla Ethan, conosciuto dai follower come Ethan Giusto, ragazzo trans che veleggia tra i venti e i trent’anni e sul web fa da Virgilio, attraverso i gironi dell’età infernale, a ragazzini alle prese con un’adolescenza soggetta a sbalzi di tormento ancora più indecifrabili di quelli che pure funestano le adolescenze cisgender, quelle cioè di chi sente di appartenere “al sesso assegnato alla nascita”, come specificano all’ospedale Careggi di Firenze e come ribadisce chi ha un figlio in carico al Saifip (Servizio di adeguamento tra identità fisica e identità psichica) a Roma, presso il San Camillo. Ethan il percorso l’ha fatto e concluso al nord. E a Milano, dove per il “riallineamento tra identità percepita e genere assegnato alla nascita” molti guardano all’unità diretta dal dottor Maurizio Bini all’ospedale Niguarda, si sono registrati, negli ultimi quattro anni, dice un medico dell’ospedale, “decine di casi in più tra i giovani”. L’American College Health Association ha lanciato l’allarme per l’aumento “esponenziale” dei minori con disforia di genere e/o identità transgender in occidente rispetto agli anni precedenti al 2015: la stima è di 1 su 10-20, con insorgenza nell’adolescenza, specie tra le ragazze. 


Ethan dice invece di voler trasmettere “la felicità di aver intrapreso questa via”, e lo fa condividendo le foto della giornata lavorativa nel marketing digitale ma anche del se stesso operato al seno, con postilla di ringraziamento sui nomi dei medici, per “far sentire le persone meno sole”. Negli anni del percorso, iniziato nel 2018, Ethan stava con una ragazza, con cui ha convissuto quattro anni. “Oggi invece frequento un ragazzo”. Non gli sembra una contraddizione: “La gente pensa che una persona trans sia destinata alla solitudine e che avrà difficoltà a trovare qualcuno che resti al suo fianco. Ma chi ci ama ci vede per quello che siamo, non tiene per forza conto dei genitali”. Racconta la storia di due suoi amici, “una ragazza trans e un ragazzo trans che hanno una figlia: dal punto di vista legale, una volta cambiati i documenti, per quanto riguarda la possibilità di sposarsi o adottare, due persone trans hanno meno difficoltà di due persone gay. Per la legge, con i documenti cambiati, io sono un uomo. E una donna trans con i documenti cambiati è una donna. Ecco, io ora sto con un ragazzo e non potrei avere un matrimonio tradizionale, però potrei sposarmi con una ragazza”. Da un paio d’anni Ethan viene invitato nelle scuole e nelle università da collettivi studenteschi che gli chiedono di spiegare la sessualità transgender o “di aprire una finestra sulla quotidianità” nei suoi aspetti tecnici e medici – “come la rettifica anagrafica dei documenti e la mastectomia” – o emotivi. Durante l’infanzia e la preadolescenza, Ethan “non si faceva domande sul genere”. E’ dopo la pubertà, quando il corpo “ha cominciato a farsi sempre più femminile”, che ha cominciato a dubitare: “A 17-18 anni mi sentivo stretto nei panni di una donna, mi piaceva mettere abiti maschili, ma cercavo di omologarmi: andavo a fare shopping, cercavo di essere simile alle mie amiche, ma sentivo che non mi interessava, e ho cominciato a fare ricerche online. Più trovavo gruppi di persone trans, più sentivo crescere la consapevolezza: ecco, allora sono un ragazzo”. Verso i vent’anni ha cominciato a cercare informazioni su come affrontare medicalmente la situazione e a partecipare a gruppi di auto-aiuto. I genitori li ha informati dopo, già maggiorenne, a percorso ormonale avviato. “Non è che l’abbiano presa tanto bene”, dice, “forse per paura, forse per ignoranza, forse perché fino a poco tempo fa dire trans era sinonimo di donna prostituta”. Ethan sa che la terapia ormonale potrebbe essere a vita. “Alcuni si fermano, io so che devo fare le analisi ogni tot mesi, prendendo il testosterone, ma gli ormoni per me significano miglioramento netto della mia vita”. 


Il percorso medicalizzato nel pubblico, oltre che al Careggi di Firenze, al Niguarda di Milano, al Saifip di Roma e al San Martino di Genova, dove si segue il protocollo della Wpath, è possibile a Pisa, Palermo, Torino e Trieste e in altri centri anche privati censiti nel 2018 dalla Sicpre, Società italiana di chirurgia plastica ricostruttiva ed estetica. Quanto agli accessi, se nel 2018 i teenager che avevano fatto ingresso per esempio al Saifip erano stati 20, nel 2022 sono stati 114, con una prevalenza di adolescenti “assegnate femmine alla nascita” (68 per cento contro il 32 di “assegnati maschi alla nascita”). Aumentati anche gli adulti: più 55 per cento di accessi tra il 2018 e il 2022. Ma spesso, per l’intervento finale di riassegnazione di genere, con trasformazione dell’organo sessuale, ultimo step che non tutti percorrono anche per via dei possibili effetti collaterali a livello urologico o dermatologico (l’operazione ricostruttiva o demolitiva segue protocolli mutuati dai protocolli post-tumorali), spesso ci si reca in centri privati. Il percorso, secondo i protocolli Wpath e Onig (Osservatorio Nazionale sull’Identità di Genere), inizia con lo step della valutazione-osservazione psicologica. Non una psicoterapia, ma una serie di colloqui a cadenza mensile, al termine dei quali viene stilata una relazione, anche necessaria per il cambio documenti, per i quali si deve comunque passare dal tribunale di residenza. E se per gli adolescenti, come si è visto, il primo step medico è quello con i farmaci bloccanti, protratto per un massimo di quattro anni, per i giovani non adolescenti la cura ormonale, per alcuni aspetti irreversibile nelle conseguenze fisiche, può sfociare nel “real life test”: per un periodo di un anno il ragazzo o la ragazza vive nel proprio ambiente nel “ruolo” del genere a cui sente di appartenere (con la cura ormonale, l’abbigliamento, il comportamento). Terzo e ultimo step, la chirurgia demolitiva-ricostruttiva dell’organo sessuale, secondo varie tecniche. Il come e il quando arrivare alle soglie del protocollo è questione che investe le famiglie e i singoli. L’Agedo, associazione di genitori, parenti e amici di persone omosessuali, bisessuali e transgender, offre supporto a chi è convinto di accompagnare il figlio lungo questa strada. I genitori dell’associazione GenerAzioneD, invece, intervistati in marzo da Monica Sargentini sul Corriere della Sera, si sono detti preoccupati per “l’approccio affermativo nei centri per la disforia di genere. Lo scopo è accompagnare il ragazzo o la ragazza nella transizione all’altro sesso. Sei colloqui e ti danno i bloccanti. Nessuno si domanda perché all’improvviso è successa una cosa del genere”. 


Le associazioni che difendono i diritti dei giovani transgender, dice Gioele Lavalle, attivista di Gender X, mettono l’accento sulla “solitudine dei giovani che in famiglia non trovano appoggio dopo il coming out”, persone per le quali i social sono “l’unico punto di riferimento”, magari nel periodo di passaggio che precede il cambio di documenti: “Il processo può durare anche un anno. E’ importante che nel frattempo l’adolescente si senta accolto a scuola, per esempio con l’attivazione della carriera alias”, l’accordo informale che permette il cambio di nome sul registro, adottato da circa duecento istituti in Italia. 


Ma quanti sono i ragazzi transgender, nel nostro paese? Da Gender X dicono: “Nel 2020, il Centro di riferimento per la medicina di genere dell’Iss faceva riferimento ai dati della letteratura scientifica internazionale che indicavano una percentuale di popolazione transgender compresa tra lo 0,5 e l’1,2 per cento del totale. Nel 2019, secondo un’indagine della European Union Agency for Fundamental Rights (FRA), la maggior parte dei giovani intervistati (81,90 per cento) identificava con il genere assegnato alla nascita, mentre il 18,10 per cento con un genere diverso. La percentuale di popolazione trans e non binaria è portata verso l’alto proprio dai giovani”. Non è più tempo di lady Oscar. Non per niente il fumetto giapponese che negli ultimi anni ha avuto successo tra gli under 18, “Blue Period”, ha come protagonista Yuka, persona non binaria: maschio alla nascita, abiti femminili, e due pronomi per riferirsi a se stesso. 

  
(2 - continua)

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  • Marianna Rizzini
  • Marianna Rizzini è nata e cresciuta a Roma, tra il liceo Visconti e l'Università La Sapienza, assorbendo forse i tic di entrambi gli ambienti, ma più del Visconti che della Sapienza. Per fortuna l'hanno spedita per tempo a Milano, anche se poi è tornata indietro. Lavora al Foglio dai primi anni del Millennio e scrive per lo più ritratti di personaggi politici o articoli su sinistre sinistrate, Cinque Stelle e populisti del web, ma può capitare la paginata che non ti aspetti (strani individui, perfetti sconosciuti, storie improbabili, robot, film, cartoni animati). E' nata in una famiglia pazza, ma con il senno di poi neanche tanto. Vive a Trastevere, è mamma di Tea, esce volentieri, non è un asso dei fornelli.