Transgender in viaggio - 3
La lunga strada del cambio sesso
L'affermazione dell'identità, il rapporto con i farmaci, il percorso in ospedale. Storie, tormenti e un dialogo con Massimo Ammaniti
Storia dell’artista-scrittrice Fumettibrutti, dall’adolescenza triste all’operazione (andata male) che rifarebbe. Adolescenza e fluidità.Lo psicoanalista Ammaniti e la tipica affermazione per contrapposizione. Claudia, che in un corpo di donna, oggi, salverebbe l’istintualità maschile assopita dagli estrogeni
“Non importa che cosa indosso perché, quando sogno, sogno i sogni di Lili” . “Ti amo perché sei l’unica persona che mi ha reso possibile” (“The Danish girl”, regia di Tom Hooper, 2015).
Due pittrici che prima erano una pittrice e un pittore. Siamo nella Copenaghen anni Venti, e tra la ritrattista Gerda Wegener e il paesaggista Einar Wegener, suo marito, l’amore è saldo. Un giorno la modella di Gerda non si presenta e Gerda chiede a Einar di posare per lei. Quasi per gioco, Einar assume l’identità di Lili Elbe, che da allora diventerà il suo alter ego, in un crescendo di tensione emotiva: Eddie sente che in fondo è sempre stato Lili, anche se ama Gerda. Decide quindi di sottoporsi all’allora sperimentale operazione di “riassegnazione chirurgica” del sesso, come viene chiamata oggi la fase finale della transizione da un genere all’altro, non percorsa in tutti i casi, visti i non trascurabili effetti collaterali. Lili si opera tre volte, passando da una sorta di castrazione chimica all’asportazione dei testicoli alla ricostruzione dell’organo sessuale femminile con trapianto di ovaie, ma quest’ultima operazione non riesce, ed Einar-Lili muore, sempre con sua moglie al fianco. La storia è una storia vera, a cui liberamente si ispira il romanzo di David Ebershoff, a sua volta adattato nell’omonimo film diretto nel 2015 da Tom Hooper e interpretato da Alicia Vikander e Eddie Redmayne tra la Danimarca, la Francia e i fiordi amati da Lili quando si chiamava Einar e sulle tele dipingeva quel mare freddo che si insinua tra le montagne. Anche il percorso medico di Einar-Lili è vero, e però oggi, dopo cento anni, fortunatamente, i possibili effetti collaterali di questo tipo di operazioni non vanno a minacciare l’incolumità di chi sceglie di farle, anche se i medici (urologi, ginecologi e chirurghi plastici) non nascondono che cosa significhi, dal punto di vista della salute e della quotidianità, dopo la cura ormonale, sottoporsi al bisturi per il passaggio uomo-donna, e che cosa comporti, nella transizione donna-uomo, passare per mastectomia, isterectomia e ricostruzione dell’organo maschile secondo le tecniche in uso nella chirurgia post-tumorale. Ma né un bugiardino di un farmaco bloccante, usato per congelare la pubertà, né quello di un farmaco a base di estrogeni o progesterone, usato nella “fase due” da chi voglia intraprendere un percorso di trasformazione di genere, e a volte neanche la prospettiva di un iter post-operatorio non semplicissimo, scoraggiano una persona transgender quando è convinta di voler arrivare fino in fondo.
C’è chi decide a un certo punto di fermarsi e chi di andare avanti, e di raccontare pubblicamente la sua storia, comprese le operazioni andate bene o andate male e l’altalena emotiva che accompagna scelte reversibili e irreversibili. Josephine Yole Signorelli, ragazza trans di 32 anni che lavora nell’editoria, nome d’arte Fumettibrutti, lo ha fatto con una trilogia di parole e immagini che l’ha portata al successo, dalle librerie al premio di miglior esordiente al Festival Lucca Comics fino al Salone di Torino, dove, due anni fa, è stata invitata nell’ambito dell’iniziativa “Adotta uno scrittore”. In “Romanzo esplicito”, “P.la mia adolescenza trans” e “Anestesia” (ed. Feltrinelli), Josephine ha descritto e disegnato senza filtro la vita di teenager bullizzata alla scoperta della propria identità di genere, nella Sicilia dei primi anni Duemila, e l’accettazione del proprio corpo, gli incontri in rete, il rapporto con la famiglia e con gli amici, fino alla trasformazione in quella che è oggi attraverso sette operazioni, tra cui una alle corde vocali, più una mastoplastica e una vaginoplastica andata male. “Un dolore enorme”, dice, “ma rifarei tutto, oggi mi sento finalmente libera”. Da ragazzina Josephine sapeva chi fosse, ma aveva paura di essere considerata “una persona di serie b, una persona surrogata che gli altri possono insultare, come succedeva a scuola, quando facevo fatica a presentarmi al mondo per quella che sono, e come accade a molti ragazzi che oggi spero di aiutare proprio rendendo pubblica la mia esperienza. Non c’è un inizio e una fine, l’ormone e l’operazione, ogni persona è sempre in transizione”. Josephine per un po’, da adolescente, ha nascosto la propria identità, perché, racconta, “potevo passare per cisgender”, cioè per una persona la cui identità di genere corrisponde al genere assegnato alla nascita. “E capisco chi continua a nascondersi per non essere insultato sul luogo di lavoro, magari, ma io a un certo punto non ce l’ho fatta più. La mia non è stata una scelta: l’essere transgender non è una scelta, è una condizione. Solo che non dappertutto si ha la possibilità di essere liberi, e non dappertutto si è disposti a combattere lo stereotipo umiliante che identifica la trans con la prostituta o comunque la sessualizza”. “Sogno un universo parallelo dove l’adolescente trans non debba passare da quella vergogna”, dice Josephine, “e dove il Servizio sanitario nazionale, per il quale sono felice di pagare le tasse, possa aiutare i ragazzi e le ragazze che vogliano cambiare sesso in modo che non debbano andare all’estero, rischiando quello che ho rischiato io”. Oggi che viene invitata nelle scuole e ai festival letterari, Fumettibrutti può ridere degli hater su Facebook che ogni giorno le scrivono cose come “zitta tu che hai 44 di piede” (anche se lei ha il 38) o “conosco buttafuori più belli di te”. E vorrebbe che nessun ragazzino dovesse “fare finta di non essere se stesso”, oggi che non pensa più alle conseguenze dell’operazione ma alle conseguenze dell’amore (“mi posso permettere, evviva, di soffrire solo per amore”, dice).
Si chiama “passing”, la circostanza per cui una persona transgender sembri agli occhi altrui cisgender. E c’è chi non dice di essere transgender mentre ancora sta intraprendendo un percorso di transizione, per evitare lo stigma, spiega Cristina Leo, psicologa transgender, coordinatrice dell’associazione Gender X ed ex assessore alle Politiche Sociali e alle Pari Opportunità nel VII Municipio di Roma, dove ha portato a termine il progetto “Casa di Ornella”, casa per persone transgender, non binarie e intersessuali, in difficoltà economica o alloggiativa con nome evocativo (quello di Maria Ornella Serpa, attivista Lgbt+). “Un aspetto importante e molto poco raccontato”, dice Cristina Leo, “è il fatto che molte persone transgender con un ottimo passing decidano di non fare coming out come transgender. Non riescono a sopportare le pressioni transfobiche e decidono di vivere nell’invisibilità, con sofferenza. Le persone transgender per anni hanno subito pesanti discriminazioni in tutti gli ambiti della vita familiare e sociale, che ne hanno determinato l’allontanamento da qualsiasi contesto lavorativo che non fosse il sex work. Soprattutto le donne transgender, quando ancora si usava il termine ‘transessuale’ per riferirsi a loro. Termine ormai desueto che porta con sé ricordi di un recente passato di medicalizzazione e di psichiatrizzazione, e fra questi anche la sterilizzazione forzata alla quale si sono dovute sottoporre molte persone transgender per poter affermare il loro diritto all’autodeterminazione”. Oggi, come si è detto a proposito delle sentenze della Corte Costituzionale del 2015 e del 2017 a proposito della legge 164 del 1982 sul cambio di sesso, è invece possibile la rettifica anagrafica anche senza intervento chirurgico. “Le nuove generazioni di ragazzi e ragazze transgender, e fra questi e queste le persone non binarie”, dice Cristina Leo, “non portano addosso un fardello così pesante, grazie alle battaglie delle generazioni precedenti e al supporto delle famiglie di origine e di una rete amicale, associativa, pubblica che prima semplicemente non c’era, o non era così solida e salda”.
C’è però, specie tra i genitori, chi si preoccupa di quanto i social, i media, i compagni, gli esempi che vengono dall’estero contribuiscano a creare, in molti adolescenti che non sentano dentro di sé un bisogno profondo di intraprendere un percorso di genere, una specie di curiosità verso la realtà transgender e in generale verso la fluidità vista on-line, come fosse un effetto-contaminazione dello spirito del tempo. Dice Massimo Ammaniti, noto psicoanalista dell’età evolutiva (che qualche tempo fa ha lanciato l’allarme rispetto all’uso precoce del cellulare: “Errore darglielo prima dell’adolescenza, si perderanno in uno schermo”): “Sicuramente viviamo in una società dove non vediamo più il ragazzino in giacca e cravatta a tredici anni e le ragazzine tutte sempre in gonna. Anzi, molte adolescenti neanche vogliono metterla, la gonna. Visti da dietro, ragazzi e ragazze sembrano simili, e quella che era una tipizzazione sessuale molto definita oggi può sembrare a volte accessoria. Prima si pensava al carattere maschile e a quello femminile come un qualcosa di definitivo, quando la personalità di ognuno di noi è un mosaico che prevede l’identificazione multipla con alcuni aspetti paterni e con alcuni materni. E sicuramente la società è più tollerante, ma questo non è detto che significhi una sorta di incentivo alla fluidità. Non dimentichiamoci che per molto tempo, nei collegi maschili, vedi ne ‘L’Uomo senza qualità’ di Robert Musil, l’adolescente poteva sperimentare una sorta di componente omossessuale e omofiliaca legata però all’ambiente. L’adolescenza può prevedere l’incertezza, prima che l’identità si strutturi in un genere definito”. E, dice Ammaniti, “la fluidità durante l’adolescenza può, in alcuni ragazzi, nutrire una sorta di sé grandioso legato però più al clima in cui viviamo e all’atteggiamento sociale. Ricordiamoci che è tipico dell’adolescente esprimersi e affermarsi contrapponendosi all’adulto e sfidando i luoghi comuni e gli atteggiamenti condivisi, presentandosi come speciale anche e soprattutto in gruppi dove impera un certo conformismo”. E’ la preoccupazione di molti genitori di ragazzi transgender: che non si indaghi abbastanza la motivazione profonda prima di incamminarsi, magari in modo non reversibile, verso il cambio di sesso, e che l’ambiente o il cellulare facciano il resto. La preoccupazione dei genitori, dice Ammaniti, “non deve spingersi a temere che i farmaci bloccanti o gli ormoni vengano dati su larga scala nei centri medici, senza una valutazione psicologica del ragazzo o della ragazza attraverso colloqui clinici, test e interviste. I farmaci non vengono dati con facilità a ragazzi in pubertà. Vengono usati soprattutto nei casi gravi, nelle serie situazioni di disforia di genere, cioè di discordanza tra sesso biologico e sesso in cui ci si riconosce, dove possa esistere anche un rischio di autolesionismo o addirittura un rischio suicidario”.
Ai tempi in cui Claudia Ferri, nata uomo, era adolescente, il ricorso ai farmaci per accompagnare la transizione di genere era tabù o fantascienza, specie nel paese del frusinate in cui è nata. Oggi Claudia ha 46 anni, lavora nell’ambiente dello spettacolo come consulente d’immagine per attrici, showgirl, modelle e libere professioniste, ama molto il suo lavoro, dice, e si ritiene fortunata, a differenza di alcuni ragazzi che ha incontro al Saifip, il Servizio per l’Adeguamento tra Identità Fisica e Identità Psichica presso il San Camillo-Forlanini di Roma, quelli che aiuta “a prendere confidenza con il corpo trasformato anche soltanto nell’aspetto, a prescindere da qualsiasi intervento medico, nel momento in cui ancora, a occhi bassi, si vergognano magari di mettersi una gonna. Li aiuto a sentirsi sicuri, magari aprendo per loro i mie armadi e prestandogli un vestito o una borsa per fare una passeggiata”. Fino a 40 anni, Claudia non ha intrapreso alcun percorso medicalizzato, pur sentendosi in un corpo (di uomo) che non era il suo, dopo una giovinezza passata in parte a nascondersi dal mondo a livello affettivo e sessuale (nessun rapporto significativo fino alle soglie dei trent’anni) e in parte a cercare di reagire a un disagio all’inizio non gestito. “Sono forte, mi dicevo, so affrontare il dolore, avendo avuto un padre malato di Alzheimer, un fratello malato di Sla e una sorella con un tumore. E a un certo punto, dopo una psicoterapia, dopo l’Università – crescendo insomma – ho capito che non potevo più continuare a sentirmi costretta in quel paio di jeans. I jeans erano diventati il simbolo di quello che non ero, motivo per cui sono andata al Saifip decisa a percorrere le tappe per la transizione di genere. E quindi: ormoni femminili e ancora ormoni femminili, per quasi quattro anni, fin quasi alla soglia del non ritorno”. Nel corpo di un uomo, dice Claudia, “avevo però conosciuto che cosa significhi essere uomo dal punto di vista dell’istinto e del desiderio. Parlo di istinto maschile per dire che, per quanto possa essere sopito e mascherato per un condizionamento culturale, è innegabile che esista e governi in qualche modo l’uomo nella sfera sessuale e anche spesso in quella affettiva. Prendendo gli estrogeni diventavo bella, diventavo simile a quello che avevo sempre voluto essere, ma, procedendo verso quella che è una sorta di castrazione chimica per alcuni preliminare all’intervento, perdevo quell’istinto, sostituito nel frattempo da una sensibilità sempre più spiccata e da una perdita di spinta e di desiderio che mi stava avviando alla depressione, forse perché avevo vissuto quarant’anni sentendomi donna, sì, ma conoscendo l’istintività di un uomo”. Da quello stadio Claudia è tornata indietro, nel senso che, pur “affermando il proprio genere come femminile, ho capito che non potevo arrivare all’ultimo livello della cura ormonale, dopo cinque anni irreversibile per alcuni aspetti, e ho preferito arrivare a una situazione in cui doso gli ormoni, sotto controllo medico, per non avere troppi estrogeni, anche se devo stare attenta agli effetti collaterali del progesterone”. In questa sorta di fai-da-te ormonale (“ormai saprei da sola che cosa devo prendere”), Claudia ha riflettuto su se stessa e sugli uomini, da cui si sente “delusa”: “Sono una trans non operata. Ho vissuto due storie d’amore, con una lunga convivenza. Ora sto da sola, so di avere una bella testa, so di potermi rendere utile aiutando i ragazzi in transizione a sentirsi meglio nei loro panni e le donne che seguo a liberarsi dalla dittatura di Instagram e Tiktok. Voglio godermi il lavoro, i flirt che non mi mancano, gli amici, senza passare dallo schema dell’uomo che ti conosce, gli piaci, scopre che sei una trans non operata e ha tre reazioni: o non vuole sapere niente e chiude o nega a se stesso di essere incuriosito o ti considera come un’esperienza circoscritta al momento. Qualcuno, rarissimo, ti vede come donna”. Ha riflettuto anche sull’emersione del tema del gender e della “fluidità” tra gli adolescenti, Claudia, quando un’amichetta del nipote tredicenne ha detto di non avere più un fidanzato ma una fidanzata: “Ho cambiato, mi ero stufata”. “Ho pensato alla società patriarcale affondata, alla famiglia tradizionale morta, all’uomo che vorrebbe sentirsi forte e vorrebbe schiacciare la donna che conquista uno spazio un tempo solo maschile. La famiglia tradizionale non c’è più e il maschio è devastato. Mi viene da dire: gli sta bene, dopo secoli di predominio. Però ci troviamo in un casino epocale, e i transgender sono forse all’epicentro”.