Il Foglio del Weekend
Dopo 40 anni i ricchi continuano a piangere (sullo schermo)
Tra film come “Triangle of Sadness” e serie come “White Lotus”, nessuno invidia più queste élite. In “Succession” ogni umanità è rimossa. Che sia un nuovo stratagemma della lotta di classe?
La prima puntata di “Los ricos tambien lloran”, in italiano “Anche i ricchi piangono”, uscì in Italia quarant’anni fa, trasmessa nel 1983 su Rete A, poi dal 1984 dal circuito Euro Tv e da gennaio ad agosto del 1993 da Rete 4; l’ultimo passaggio televisivo a livello nazionale risale al 1996 sul circuito Odeon TV. Con 248 episodi è stata una delle soap o telenovelas più viste nella storia d’Italia (ancora si chiamavano così, ancora non erano “serie”, erano un consumo subculturale non da vantarsi, non c’era l’espressione orgogliosa “Rete A and Chill” per dire che si sta a casa in pigiama e ciabatte come oggi a guardare Netflix).
Protagonista della serie è Mariana (Veronica Castro), una donna povera, cresciuta in campagna, priva di istruzione, che in giovane età aveva perso entrambi i genitori. Nel corso del suo “percorzo” troviamo varie figure antagoniste, interpretate da caratteri tipici della telenovela sudamericana: la matrigna, che caccerà Mariana dalla casa natale, la moglie del ricco Don Alberto, gelosa del marito che decide di accoglierla nella sua prestigiosa casa di città; la moglie del bel Luis Antonio, di cui si innamora e con cui inizierà una relazione appassionata. In tale quadro di amore costantemente ostacolato, la donna rimarrà incinta, e la ricerca dei propri figli sarà il nocciolo della seconda parte della narrazione, spostata in avanti di ben due decenni.
In Italia ebbe un tale successo che è diventato un modo di dire, un tormentone. In “Drive-in” Gianfranco D’Angelo ne fece una parodia con protagonista Pippo Baudo e l’allora moglie Katia Ricciarelli ribattezzata “Anche i Baudi piangono”. Altre imitazioni erano in “Chiquito y Paquito”, una sgangherata telenovela messicana in cui Adolfo Margiotta e Massimo Olcese mettevano in scena una surreale serie di parodie delle telenovelas, trasmessa all’interno del programma “Avanzi” nel 1993.
Quarant’anni dopo, assistiamo al proliferare di serie e film con lo stesso tema. Famiglie solo ricche oppure invece ricchissime, dinastie ultrasibaritiche o solo altoborghesi che finiscono comunque malissimo. Da “Succession” a “Parasite”, da “White Lotus” a “Triangle of Sadness”, sono tutte variazioni sul tema “ricco che ha poco da ridere”. Adesso è appena arrivato su Sky anche “The Forgiven”, film tratto dall’omonimo bel romanzo di Lawrence Osborne, storia di un gruppo di inglesi abbienti che vanno a una festa da amici in Marocco, e gliene succedono di ogni. Insomma, non è mai stato così difficile essere ricchi sul piccolo o grande schermo.
Forse la lotta di classe, secondo taluni scomparsa dall’agone politico in favore di quella per i diritti sociali, è ricicciata sullo schermo (la politica non tollera il vuoto, figuriamoci i palinsesti). Forse la ribellione, la macelleria sociale, le rivolte, che a ogni crisi finanziaria si prevedono e non accadono mai, sono entrate nelle sceneggiature (del resto, con gli scioperi recenti si capisce che gli sceneggiatori americani sono gli ultimi soggetti a essere rimasti di sinistra). O forse al contrario Hollywood produce queste serie in cui i ricchi fanno delle vite infami proprio per evitare che la gente scenda in piazza. Così forse sarà una bizzarra teoria, ma dopo la grande crisi dei mutui 2008, che ha affamato l’occidente, che ha visto i banchieri rimanere saldi al loro posto e ricominciare a guadagnare come prima, anzi di più, le classi abbienti hanno cominciato a finire malissimo, non sulla ghigliottina ma sulle piattaforme.
Partiamo proprio da quest’ultimo, “The Forgiven”, in italiano “Nella polvere”, pubblicato da Adelphi, grande successo del saggista-romanziere inglese Osborne, vede, in un antico villaggio marocchino, trasformato in buen retiro di lusso da una coppia di cinquantenni gay – l’americano Dally e l’inglese Richard – i preparativi per un grandioso party che ogni anno richiama decine di ospiti da tutto il globo. Un baccanale di tre giorni durante i quali, sotto lo sguardo misto di disprezzo e di invidia del personale, gli infami capitalisti se la spassano. Tutt’intorno, montagne sfregiate dai cercatori di fossili, strade su cui la polvere si deposita “con la leggiadria gravitazionale di una massa di piume” e oasi popolate da gente di una nobiltà “minacciosa e fluida”. Quando l’auto di David e Jo, diretti alla festa, investe e uccide un giovane locale, si innesca una catena di drammi e sfighe che li cambierà per sempre.
La versione cinematografica vede Ralph Fiennes nei panni dell’inglesone indolente e stronzo e Jessica Chastain della moglie delusa. In questo caso la maledizione dei ricchi si è abbattuta anche sulla produzione. “Eravamo in Marocco a girare e una settimana prima della fine delle riprese, nel 2020, è arrivato il Covid e dall’America ci hanno fatto tornare immediatamente, sa, le assicurazioni, assicurare un premio Oscar contro il Covid costa milioni” mi raccontò Osborne, che ha lavorato anche al film. “Poi però in piena pandemia il re del Marocco, che è un grande cinefilo e fan della Chastain, ci ha accordato un permesso speciale: solo una decina di persone, gli attori e il regista e pochi altri, sono andati lì nel deserto per finire”. Ah, quindi tutto bene. “No, la troupe si è presa tutta il Covid la prima sera”.
Ma a parte questo, chi guardasse “The Forgiven” potrebbe pensare di trovarsi in un ennesimo “White Lotus” ambientato in Marocco o in qualche altro luogo tropicale (prima o poi arriverà la versione catarina, grazie agli sponsor). Come tutti sanno, la prima stagione della serie creata da Mike White era ambientata alle Hawaii, dove un gruppo di famigliole ricche americane scarica addosso al personale di questo gruppo di hotel di lusso (i White Lotus appunto) le sue ubbie e paranoie. I personaggi più indimenticabili sono il capo villaggio interpretato da Murray Bartlett che a un certo punto sbrocca (e sarà colto in un memorabile rimming drogato) e Jennifer Coolidge che interpreta Tanya McQuoid, l’amica che abbiamo tutti, la rompiballe egolatra che ha troppi soldi e troppo tempo libero da dedicare alle sue nevrosi, e anche quando sembra dedicarsi agli altri è fatalmente sempre concentrata su sé stessa. Nella prima stagione è arrivata per spargere nell’oceano le ceneri della madre e metterà in croce una povera massaggiatrice dell’albergo, prima offrendosi di finanziarle un centro estetico tutto suo, poi stufandosi velocemente di lei e dell’idea.
Il personaggio di Coolidge, la riccona ammorbatutti, è stato talmente acclamato che passa anche nella seconda stagione, questa volta ambientata a Taormina, dove – la maledizione degli sceneggiatori italiani – lo show che brillava per dialoghi e battute feroci e riferimenti culturali e di costume esattissimi diventa una specie di Montalbano (scritto meno bene di Montalbano). “White Lotus” è una variante del classico genere upstairs/downstairs. Ma qui a differenza di serie come “Downton Abbey”, dove si empatizza con i padroni e con i sottoposti, sei subito portato a odiare i ricchi. Il genere si fonde con quello del “disaster movie” dando vita a un ibrido nuovo, che si sviluppa in varie declinazioni.
C’è la versione “crociera”, con “Triangle of Sadness”, il film di Ruben Östlund che ha ricevuto la Palma d’oro al 75º Festival di Cannes, tre nomination al Premio Oscar e due ai Golden Globe. La trama: un fotomodello (il “triangolo della tristezza” del titolo si riferisce, in termini di chirurgia estetica, alla zona tra gli occhi in cui si concentrano le rughe), è inquieto perché la sua fidanzata Yaya, anch’essa modella, guadagna più di lui, mentre la sua carriera è in crisi. Lei invece non sa decidersi se considerare la loro una vera relazione o solo l’ennesimo modo di mietere followers. I due vengono invitati gratis a una lussuosa crociera alle Bermuda in cambio di stories e post. Lì, ovviamente, disgrazie, naufragio, soprattutto il capovolgimento sociale per cui la più disgraziata delle persone di servizio, nel mondo post naufragio, prende il potere, accaparrandosi il bel modello e le scorte di acqua e cibo. Siamo insomma dalle parti di “Travolti da un insolito destino” (1974) di Lina Wertmüller.
Questi film sui ricchi che finiscono male sembrano ormai dei cinepanettoni di fascia alta, cambia solo la location e il cast. Cinepanettoni artigianali, di pasticceria: c’è la versione lotta di classe nel seminterrato, con “Parasite”, anche questo palma d’oro a Cannes (oltre a ben 4 Oscar), film del 2019 di Bong Joon-ho che ha consacrato il regista e il cinema sudcoreano. La trama, arcinota, una famiglia drammaticamente povera alla “Brutti sporchi e cattivi”, che vive in un seminterrato ad alto rischio allagamento si insinua gradatamente nella vita di una famiglia invece ricca che vive in una luminosa villa. Qui la divisione ricchi-poveri è anche immobiliare, perché i poveri passeranno dallo scantinato del quartiere popolare al bunker nella villa dei ricchi (seguirà una guerra tra poveri e l’uccisione del ricco capofamiglia).
C’è la versione quattro ristoranti (una delle migliori) con “The Menu”, pellicola dell’anno scorso di Mark Mylod, in cui i ricchi vengono trucidati in un ristorante stellato ambientato in un’isoletta del Maine. Lì, uno chef pazzo impersonato da Ralph Fiennes (che ha la faccia perfetta per questi film, è l’Ezio Greggio del “rich disaster movie”) decide di far fuori tutti i clienti accorsi una sera qualunque al suo ristorante. Ristorante su cui lui regna come un despota, e qui la scrittura è impressionante soprattutto per la descrizione d’ambiente che concentra e stigmatizza tutte le stronzate culinarie di questi anni, a partire dall’idolizzazione dei cuochi, passando per la cucina esperienziale, le spume, il molecolare, la critica gastronomica, il cibo come status symbol ecc. ecc. Siamo tra Agatha Christie e Ernst Lubitsch e “cucine da incubo”. Finirà che il pubblico di “foodies” viene scannato dal primo all’ultimo, e il film sembra chiudere anche simbolicamente con l’epoca dei cuochi televisivi e non, con riferimento alla chiusura definitiva anche di Noma a Copenhagen. Ormai che anche l’ultima portinaia ha assaporato in vita sua uno “stellato”, ora che anche tutto il vocabolario trash-culinario ha invaso il discorso comune (“buongiorno chef!” in tutte le trasmissioni televisive, dove “chef” è anche qualunque cuoco di bettola e buttagiù tra Trani e Remedello di Sopra).
In realtà il modulo “rich disaster movie” – la definizione è mia, scusate, non si è trovato niente di meglio, ma esisterà certamente qualcosa in inglese o tedesco di più preciso – può applicarsi a qualunque settore: la moda, le auto, l’arte contemporanea, un bell’Art Basel magari a Miami dove l’artista-sòla in preda a rimorso scanna tutti, oppure l’artista che mai è riuscito a entrare nel dorato mondo dell’arte costosa bensì relegato a Telemarket va lì e si fa saltare per aria. Di sicuro sarebbe impossibile nel giornalismo ormai impoverito e tantomeno nella letteratura. Un rich disaster movie ambientato a Torino durante il Salone del libro non sarebbe credibile, tra scrittori intruppati sotto i gazebo di plastica, che scendono nelle loro pensioni a una stella a firmare le dediche di libri da cui prenderanno il 9 per cento (lordo).
Forse si potrebbe fare invece un “White Lotus” milanese tra tassisti appena graziati dall’aumento delle tariffe varate da “RegioneLombardia”, con arrotondamento del 6 per cento di tutte le corse, mentre le dichiarazioni dei redditi rimangono al palo… e lì tassisti ricchissimi che assaltano un povero sindaco di sinistra che vorrà invece liberalizzare le licenze (non preoccupatevi, è fantascienza, non accadrà mai, anche se non si capisce perché, tanto non ti votano comunque). Oppure, per rimanere a Milano, un “Parasite” nel mondo della procreazione assistita, come nell’evento milanese da molti avversato, “Wish for a baby” che si terrà oggi e domani, e lì gruppi di “Terf” e family lifers che attaccano coi forconi dei biechi esponenti della lobby gay pronti a scegliere da catalogo bambini di taglie e occhi secondo portafogli; o magari leghisti insospettabili che prenotano baby molto ariani con occhi e pelli chiarissime e poi per sbaglio vien fuori il bambino nero, e dunque si radicalizzano e fanno la strage (e la nuova Rai melonizzata a coprire l’evento tipo Fox, o Atn…).
Si sarà già capito, vogliamo arrivare al solito “Succession”, e lì in quello che verrà studiato dai posteri come la prima serie “rich disaster” della storia, il dramma scespiriano degli 0,1 per cento, il vero “Anche i ricchi piangono” aggiornato a oggi. Si è già detto tutto, su questa serie che sta agli anni Venti come “Mad Man” e i “Soprano” stavano agli anni Duemila, sui “wealth consultant” che spiegano esattamente che tipo di uniforme avrà il personale, e quali interni avranno gli aerei privati, i veri protagonisti della serie (“hey non offendere il mio jet, mi fa stare male”, dice Shiv ironica al rivale Mattson in una delle ultime puntate). I jet privati sono gli unici personaggi con dei sentimenti veri nella serie, infatti. “Succession”, con una serie di stratagemmi, riesce a mostrarti ricchezze e patrimoni vergognosi e a non farti mai invidiare i super ricchi. Non vorresti mai essere loro. Con una fotografia gelida e un’estetica medicale, il dramma spersonalizzato che accade tra i membri della famiglia va in scena in luoghi angosciosi e senza connotati (sale riunioni, bagni pubblici, aeroporti in mezzo al nulla, ospedali). Ogni umanità è rimossa. Non si mangia mai, in “Succession”, non si fa mai sesso, il sesso diventa una cosa sporca e disgustosa che non si vede (il cugino Greg e il cognato Tom, i personaggi più squallidi, e non è facile, si autonominano “the disgusting brothers” per le loro scopate). Aiuta anche il perfido casting, per cui non è stato scelto un-attore-uno che sia veramente bello. Né maschi né femmine, è difficile trovare un altro caso nella filmografia di ogni tempo in cui nessun interprete sia davvero sexy. Tutti sono medi, e grazie alle inquadrature, alle luci e al buio, che enfatizzano i difetti, sembrano però dei mostri, stravolti, stanchi e provati dalla loro ricchezza angosciosa. A differenza tra l’altro dei veri Murdoch a cui si ispirano,dove due dei tre figli sono abbastanza bellocci (e non spietate pippe come loro, oltretutto).
Ma in Italia, che “Succession” sarebbe possibile? In Italia il 4,5 per cento di ultraricchi (cioè oltre i 75 mila euro l’anno dell’aliquota più alta) pagano il 38 per cento di tutto il gettito nazionale. Con i loro 75 mila euro questi ricchi italiani non potrebbero permettersi neanche un’ora di volo sul Boeing privato di Logan Roy! Un disastro. Altre idee? Forse una fiction ambientata tra Montecarlo e la Langa, col dramma estivo dello yacht rompighiaccio carico di giornalisti in vacanza mentre salgono e scendono figli che comprano giornali, vendono giornali, litigano su giornali? Che si chiudono quando non funzionano più, pur costando come un pieno del suddetto rompighiaccio? Non regge. Un mercato troppo piccolo, il solito problema italiano. A proposito di yacht, forse andrebbe fatto un “Triangle of Sadness” su Angelone Rizzoli, il leggendario cumenda, editore e produttore proprietario del “Sereno”, detto anche “la barca dei cessi”, per la quantità di toilette inusitata all’epoca, e trasfigurato in mille personaggi (a partire dal commendator Fenoglio nel “Vedovo”, il primo “rich disaster movie” italiano). Oltre ad aver inventato “Fantozzi”, commissionato a Paolo Villaggio da una rubrichina che scriveva sul Corriere sulle sue disavventure impiegatizie all’Italsider col sistema “missile a tre stadi”, definizione di Gian Arturo Ferrari per il business model di Rizzoli; prima la rubrica, poi il libro, poi il film (anche per “Don Camillo”).
In Italia pellicole e dinamiche del genere virano sempre e comunque sulla commedia. Saghe serie sui ricchissimi contro poverissimi si possono fare solo ambientate nel passato (Gattopardo new version di Neflix; Leoni di Sicilia). Nel presente, nel paese con lo scaglione più alto a 75 mila euro e con i tassisti che dichiarano seimila euro all’anno è impossibile fare la lotta di classe: siamo tutti poveri. Ecco allora che anche il genere “rich disaster movie” non funziona. In “Ferie d’Agosto” di Virzì protagonista era la sterminata classe media italiana, e l’unico che rischiava di esser fatto fuori era l’immigrato. Di solito è infatti sempre il povero che viene punito. Anche nella saga più politica che si sia mai vista, appunto Fantozzi, le sventure capitano al poveraccio, continue, devastanti, una peggio dell’altra. Divorato da dobermann, colpito da lavatrici che cascano in testa, usato da colleghe per far ingelosire altri colleghi, Fantozzi continuamente esposto a una classe altoborghese – la Megaditta e i suoi spettabili Azionisti – subisce tutto lui, e noi ridiamo contenti. Ai vari Gran Cav. Figl di putt, ai Direttori naturali, alle contesse vien dal Mare, a parte qualche falange tranciata, non succede mai niente.
Anche la saga Agnelli non è mai stata utilizzata. Però oggi è soprattutto il dramma del giornalismo più che della famiglia. Qualche settimana fa, volata giù da un balcone a Merano, è morta Virginia von Fürstenberg, cognome già epitome di ricchezza (soufflé Fürstenberg evocato in “Preghiere esaurite” e naturalmente “Siamo dai Fürstenberg a Capodanno"), cugina Agnelli, già tossica e anoressica e subito per i giornali “principessa triste” e attrice in “drammi dal grande contenuto emotivo”. Boh. Poi, in ordine di aggiornamento dei siti, figlia di Egon (ma no!); poi corretta in “figlia di Tassilo” (ma era il nonno!). Vabbè. Le grandi saghe per essere credibili hanno bisogno di precisione. Se “Succession” ha il wealth consultant, “The Crown”, altro rich disaster movie di cui conosciamo già il finale, ha come consulente storica una erede della famiglia Sulzberger, cioè i proprietari del New York Times. In Italia non si pretende tanto, basterebbe almeno qualcuno che sa consultare Google.
Una volta però la realtà serviva molto alla fiction. Dal celebre delitto Fenaroli nacque il “Vedovo” di Dino Risi del 1959, dove, lo si è detto tante volte, il povero imprenditore spiantato romano viene punito sì per aver architettato la dipartita della ricca moglie impersonata da Franca Valeri, ma soprattutto perché compie il peccato originale di voler migliorare la sua posizione sociale, una cosa che al cinema in Italia porta sempre malissimo. Se il salto di classe sociale fin dalle “Illusioni perdute” è la perfetta trama di fiction, in Italia non regge mai. Lucien Rubempré, l’eroe balzachiano, è figlio di una nobildonna e di un farmacista, che alla fine della sua tormentosa avventura riuscirà a trovare non l’amore ma il suo posto in società. Cioè a Parigi, nella capitale. Ma oggi chi mai partirebbe dalla provincia (oltretutto possedendo una farmacia!) per andare a Roma? Si troverebbe un paesone ancora più provinciale, oltre che i cinghiali. A Milano non ne parliamo, andrebbe a stare in tenda. In Italia il romanzo sociale non ha mai attecchito perché il cambiamento da sempre è frenato, il cosiddetto ascensore sociale non è mai esistito. Infatti appena è arrivato un po’ di boom economico subito c’è stato un gran bisogno di sentirsi in colpa, ed è arrivata l'alienazione.
In Italia, siccome abbiamo deciso che siamo tutti poveri, i drammi sui ricchi non sono credibili. Forse anche per questo la seconda stagione di “White Lotus” non funziona. In Italia bisogna essere tutti sempre poveri (oppure fatturare in nero). Se nella prima stagione ambientata alle Hawaii il personale dell’hotel multinazionale soffriva la lotta di classe, nella seconda ambientata a Taormina il focus è sulla coppia di ragazze che si danno allegramente alla prostituzione e al pianobar, chiaramente senza dichiarare un centesimo (né al fisco né alla Siae).
Così anche le inchieste di due quotidiani italiani, Repubblica e Domani, sulla premier Giorgia Meloni, in molti mesi di indagine e in molte pagine non arrivano a clamorose responsabilità penali, ma stabiliscono solo una cosa: che si è finta molto più povera di quello che è (oltre ad avere una famiglia molto più simpatica di quello che vorrebbe far apparire). L’appartamentino alla Camilluccia non era un appartamentino, quello a Garbatella nemmeno, e la mamma, Anna Paratore, che si manteneva scrivendo centinaia di libri rosa per Harmony, faceva discrete operazioni immobiliari. Il padre poi era un florido commercialista pure col doppio cognome e nipote di Agenore Incrocci (cioè Age di Age e Scarpelli, e torniamo alla commedia all’italiana). In Italia, è chiaro, non possiamo fare la rivoluzione perché, gratta gratta, siamo tutti poveri, ma col doppio cognome.