Facce dispari
"Osare" per ritrovare la fiducia. La filosofa Nodari ci spiega perché “è nei corpi la salvezza del pensiero”
"Le nozioni di corporeità, temporalità e alterità costituiscono il circolo virtuoso da cui rischiamo di deviare, oggi si respira più solitudine di prima, gli avatar rubano spazio alla vita. L'Intelligenza artificiale? Non bisogna demonizzare la tecnica ma neppure cederle il passo", dice la fondatrice del festival ‘Filosofi lungo l’Oglio’
Udite, udite l’Up Patriots to Arms della filosofia occidentale: il Pensiero ha bisogno di Corpi. Tra res cogitans e res extensa non più contrapposizione, ma un salvifico connubio per affrontare la fragilità della condizione umana nella fugacità del Tempo e per affermarsi come presenza adulta nell’èra che il pensatore Byung-Chul Han definisce delle “non cose”. Prima che si faccia troppo tardi, bisogna “osare” rompere le righe tra i rifugiati dello smart working e gli addicted di serie tv, tra i meteci del Glovo e gli hipster monopattinisti.
“Osare” è la parola chiave del festival ‘Filosofi lungo l’Oglio’, che celebra la diciottesima edizione quest’anno dal 5 giugno al 25 luglio nella consueta formula nomade, con cui toccherà 23 comuni bergamaschi e bresciani dando voce a 29 pensatori sul corso del fiume, dalla municipalità di Barbariga a quella di Villachiara.
Fondatrice e animatrice della rassegna è la filosofa bresciana Francesca Nodari, allieva di Bernhard Casper e prolifica autrice ispirata a Lévinas. Lei dice: “Osare pensare, osare conoscere, osare decidere, osare vincere la pigrizia che rende minorenni per sempre i sudditi della ‘happycrazia’”.
Perché questo motto quest’anno?
Non è un invito alla hybris ma una necessità: quella di riacquistare fiducia nel futuro. “Osare” è anche imperativo positivo e benaugurante nei territori che più hanno pagato un tributo alla pandemia di Covid e sentono gran voglia di tornare a sognare, con la consapevolezza di farcela quando ci si impegna per riuscire.
Anima e corpo?
Dobbiamo prendere consapevolezza che siamo una unità psicofisica: solo il senso di questa fragilità ci spinge a mettere a frutto il tempo limitato di cui disponiamo, per diventare protagonisti attivi delle nostre vite assieme agli altri. Siamo corpo ma anche tempo. Le nozioni di corporeità, temporalità e alterità costituiscono il circolo virtuoso da cui rischiamo di deviare, perché oggi si
respira più solitudine di prima, le relazioni umane si stanno deteriorando, gli avatar rubano spazio alla vita. Si torna dal mondo virtuale al mondo reale come cavalieri dimezzati. Colpisce la solitudine dei ragazzi che s’incontrano al crocicchio e invece di parlarsi si mandano whatsapp, mentre ci sarebbe bisogno di abbracci e pacche sulle spalle.
La presenza si sgancia dalla corporeità anche nelle relazioni lavorative.
Con il Covid ci siamo abituati all’uso delle call e delle piattaforme di connessione, benedette in quella congiuntura ma pericolose adesso. In una call faccio fatica a capire dove guardano gli altri, persino il timbro della voce si modifica e il cambiamento di interazione e interlocuzione incide sulle capacità decisionali importanti. La corporeità è insostituibile.
Il rapidissimo sviluppo dell’intelligenza artificiale non favorisce i suoi auspici.
È un processo che non si può bloccare, ma andrebbe quantomeno normato per scongiurare un dominio della tecnocrazia. Bisognerebbe stabilire con chiarezza il confine tra esseri umani e queste nuove diavolerie. Uso volutamente un’espressione che mi fa sembrare all’antica, perché in questo caso mi sento onorata di esserlo. Non bisogna demonizzare la tecnica ma
neppure cederle il passo. Occorre praticare la giusta via di mezzo aristotelica e capire fin d’ora quali possono essere gli esiti di un progresso.
Byung-Chul Han ricorda che all’intelligenza artificiale manca la dimensione affettiva e analogica e quella “profonda commozione” che i big data non portano con sé. La corporeità che manca alla macchina è via di salvazione?
Bisogna evitare ai nativi digitali di restare in balìa di una ChatGPT che scrive loro persino i compiti, relegandoli in un sistema che li irretisce e li riduce a ignoranti, soli e dipendenti. Ricordiamoci di essere uomini abitati dalla passione, con la consapevolezza di vivere in un tempo che pone sfide etiche importantissime: dall’immigrazione ai cambiamenti climatici sono questioni che coinvolgono l’uomo in tutto il proprio essere corporeo, col suo bisogno di emozioni e di espressione. Oggi mi pare che tante persone siano come paralizzate dalla paura: di sbagliare, di esporsi, di crescere, di non omologarsi a un pensiero. Non è facile uscire dal branco. Ogni scelta comporta i suoi rischi: vanno affrontati senza la tracotanza di dare risposte ultime. Da sempre, la filosofia offre risposte penultime.
Come diventò filosofa?
Alle scuole medie già immaginavo questa strada. Un giorno andai in biblioteca e m’incuriosì ‘Il giuoco delle perle di vetro’ di Hermann Hesse. Lo presi, ma il direttore mi disse di riporlo perché non lo avrei capito. Risposi che non pretendevo di capire tutto, mi accontentavo anche di poco. Osai. Nel proprio piccolo si cerca, con timore e tremore, di rispondere a domande grandi. Hegel dice che la filosofia è prendere con il pensiero il proprio tempo, ma anche, aggiungerei, la propria vita.
Cosa lega la sua rassegna filosofica al fiume Oglio?
Sono nata in provincia di Brescia e amo chiamare questo fiume il nostro vegliardo, come per personificarlo. Credo ci sia un dovere di restituzione verso queste terre così feconde, ma a volte sterili dal punto di vista culturale. Con soddisfazione: Casper si stupiva che ai festival di filosofia, in Germania, assistessero trenta o quaranta persone, mentre qui ad ascoltarlo in religioso silenzio ne trovava fino a un migliaio. Nel massimo pluralismo di pensiero, nomi, sguardi e competenze.
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