L'architetto della sabbia
L'utopia urbana di Paolo Soleri in Arizona, tra il Mediterraneo e i pellerossa
Il documentario, "Ask The Sand", di Vittorio Bongiorno ci illustra la storia di un sogno chiamato Arcosanti, creato dall'architetto torinese. Dalla costruzione della prima "Dome House" al Leone d'oro alla Biennale di Architettura di Venezia
Laggiù nell’Arizona / terra di sogni e di chimere / se una chitarra suona / rispondon mille capinere”, attaccava nel 1928 il celebre tango di Cesare Andrea Bixio e Bixio Cherubini… Quasi un secolo dopo, l’Arizona si rivela davvero la terra di un sogno chiamato Arcosanti, creato dall’architetto torinese Paolo Soleri, che forse è pure chimera o forse utopia, anche se chi cerca di portarlo avanti preferisce parlarne come di “una città-laboratorio”. Ma c’è anche la chitarra che suona. Anzi, è suonata proprio dai protagonisti padre e figlio di “Ask The Sand” (sottotitolo “Can we change the future?”): film che verrà proiettato il 14 giugno in anteprima mondiale al Biografilm Festival - International Celebration of Lives di Bologna e andrà successivamente anche alla Biennale di Architettura Countless Cities di Favara (Ag). Il documentario è scritto e diretto da Vittorio Bongiorno, in collaborazione con Sky Arte, che lo manderà in onda in autunno, e ha ricevuto il sostegno dell’Emilia Romagna Film Commission. Il regista, siciliano residente a Bologna, ha scritto in passato romanzi e documentari, come la storia musicale di Duke Ellington a Palermo nel 1970, il romanzo “Il Duka in Sicilia” (Einaudi Stile libero, 2011), o il documentario rockabilly “Greetings From Austin” (2019) andato in onda sempre per Sky Arte.
“Ask The Sand” è il viaggio di un padre e un figlio alla ricerca della città-utopia di Arcosanti, la città del futuro costruita nel 1970 nel deserto dell’Arizona dall’architetto italiano Paolo Soleri (1919-2013), allievo di Frank Lloyd Wright. “Soleri è un personaggio tra i più importanti del Novecento – tutt’ora dimenticato – raccontato con gli occhi vergini di un aspirante architetto con le antenne apertissime verso quello che accade nel mondo e a cosa ognuno di noi può fare per contribuire a migliorarlo”, racconta il regista. “Ask The Sand”: chiedi alla sabbia. Non potrebbe essere pure una ideale risposta riassuntiva alla domanda di Bob Dylan in “Blowin’ in the Wind”? lo stuzzichiamo: “Dylan è il mio Dio”, conviene Bongiorno. E allora forse merita un’altra citazione: “Romance in Durango”, nella traduzione di Fabrizio De André e Massimo Bubola. “Ho dato la chitarra al figlio del fornaio / per una pizza ed un fucile / la ricomprerò lungo il sentiero / e suonerò per Maddalena all’imbrunire”. In modo speculare, per il viaggio nel deserto che nel 2019 Vittorio Bongiorno fa con il figlio Giulio, per i suoi 18 anni una chitarra la compra per davvero, oltre a noleggiare una vettura. Lo strumento che poi vedremo suonare, e ascolteremo nella colonna sonora. “Un regalo per un figlio che diventa uomo” e che vuole studiare architettura. “La forma del mio naso che coincide con la forma del suo. Le impronte dei miei piedi che coincidono con le sue. L’ombra del suo corpo, che si sovrappone alla mia. Il mio cammino, che diventa il suo”, commenta il filmato.
Ma l’altro protagonista, appunto, è Soleri. “Sole eri = you were the sun”, ci fa osservare Vittorio. E’ invece Giulio che, verso l’inizio del film, racconta la storia di questo torinese nato il 21 giugno 1919, giusto un secolo prima del viaggio. A 27 anni, non appena laureato al Politecnico, Soleri in un inglese traballante manda una lettera a Frank Lloyd Wright, vissuto tra 1867 e 1959, a sua volta gigante dell’architettura del XX secolo, e ricordato, assieme a Ludwig Mies van der Rohe, Le Corbusier, Walter Gropius e Alvar Aalto, come maestro del Movimento Moderno. Cresciuto nell’ideologia individualista di quei pionieri che hanno fatto la storia del Nord America, Lloyd Wright esplorava il rapporto tra l’individuo, lo spazio architettonico in cui vive e la natura che gli sta intorno. Estimatore di Giotto, Piero della Francesca e dello stesso Le Corbusier ma al tempo stesso anche attratto dall’architettura organica di Lloyd Wright, Paolo Soleri in quella lettera chiede al maestro di essere ammesso a Taliesin West: la scuola di architettura appena aperta nel deserto dell’Arizona in cui “cerca l’armonia tra l’uomo e la natura; il cemento, la sabbia del deserto e i cactus”. “Se ci riesci, raggiungimi”, è la risposta di Wright. L’italiano arriva ed è ammesso, ma per soli 18 mesi. Poi viene cacciato. Non si sa perché, ma alla luce degli sviluppi successivi in molti ipotizzano che era già avvenuto un contrasto fondamentale. Il maestro americano, infatti, aveva ormai teorizzato il concetto della “Broadacre City”. Una “città a larga scala” che prevedeva l’equa suddivisione del territorio fra le famiglie locali, con una meticolosa organizzazione di trasporti, agricoltura ed esercizi commerciali: una idea ovviamente suggerita dall’abbondanza di spazi dei grandi orizzonti Usa, e anch’essa venuta dall’approccio dei pionieri alla conquista del West. Forse perché proveniente da un paese sovrappopolato dove invece la terra si è sempre cercata di utilizzare al massimo, a Soleri questa visione di una città praticamente incapace di porsi un confine non convinceva. La sua visione, applicata poi ad Arcosanti e sviscerata nel volume “Arcology: The City in the Image of Man” (1969), cerca invece di evitare l’espansione urbana incontrollata col comprimere e compattare le strutture urbane su tre dimensioni. Insomma, un sogno di città raccolte, coperte da cupole e somiglianti ad alveari umani.
“Invece di tornarsene in Italia”, continua il racconto di Giulio nel film, “si accampa lì intorno a Paradise Valley in mezzo al deserto a guardare le stelle. Nel 1949 disegna e costruisce con le sue mani la sua prima casa: Dome House”. Le immagini mostrano “una casa scavata per metà nel deserto e con una cupola di vetro per guardare le stelle”. La disegna per la miliardaria Nora Woods, di cui finisce per sposare la figlia. “Si ispira chiaramente ai Kiva degli indiani d’America, le sale cerimoniali sotto terra, ed è il suo primo esperimento di architettura che si fonde con l’ambiente”. Con la moglie torna poi a Torino nel 1950, e trasforma un piccolo camper in una specie di casa mobile aperta ai fianchi e adattabile alle necessità. Dopo un po’ si fermano a Vietri sul Mare, sulla costiera amalfitana: “Per imparare un mestiere da fare con le proprie mani, l’arte della ceramica”. Lì conosce Vincenzo Solimene, la cui famiglia lavora la ceramica da più di un secolo, che gli affida la creazione della sua nuova fabbrica. Tuttora attiva, la Ceramica Artistica Solimene è a sua volta chiaramente ispirata a un altro capolavoro di Lloyd Wright, il Guggenheim Museum di New York. “Ma l’Italia gli sta stretta”, continua Giulio. Nell’ottobre del 1954 torna dunque definitivamente in Arizona, portando con sé le tecniche di lavorazione dell’argilla e della ceramica che ha imparato a Vietri, e che dall’agosto 1970 in poi verranno applicate su larga scala per la costruzione di Arcosanti. “La prima cosa che costruisce è la sua casa-studio Cosanti, cioè anti-cosa, anti consumismo”, ci spiega Vittorio. “Dopo pochi anni inizia un progetto più ambizioso per 5.000 persone, che però si interrompe allo stadio attuale”. Con circa un centinaio di abitanti, cui però si aggiungono molti turisti. “Gli dà il nome Arcosanti per gli archi: le grandi volte”. Ma il nome richiama anche “l’Arcologia”, come tentativo di integrare ecologia e architettura. I filmati dell’epoca, che il regista ha acquistato da importanti archivi americani, mostrano i giovani allievi entusiasti che dicono di avere pagato 340 dollari a testa per avere il privilegio di venire a lavorare con il maestro. Una ragazza confessa che all’inizio si era sentita spaccare la schiena quando aveva provato a portare un sacco di cemento, ma ormai ne carica due per volta. Un ragazzo dice che gli sono venute le vesciche, ma tanto verrebbero con qualunque lavoro manuale. Gli altri filmati girati nel 2019 dall’operatore al seguito con i Bongiorno indagano all’interno delle due grandi strutture realizzate a un centinaio di chilometri da Phoenix. Là dove termina una gola che si affaccia sulla valle del fiume Agua Fria. Tra di esse, il collegamento è un “seme” di arcologia. Le automobili sono escluse; le distanze si misurano in minuti di cammino; la maggior parte degli elementi è realizzata con il metodo della formatura a terra, che sfrutta l’argillosità del terreno semidesertico dell’Arizona per creare le forme all’interno delle quali viene gettato il cemento. Incredibili forme colorate, cupole e strutture terrazzate escono così dal terreno semidesertico. L’insediamento sull’apice della gola fa inoltre un effetto abside che crea ombra in estate e cattura i raggi solari in inverno. Insomma, un modello di risparmio energetico straordinariamente in anticipo con i tempi, anche se al tempo stesso collega il futuro al passato preistorico delle citate costruzioni indiane. Soleri portò anche ulivi e rosmarini, il cui effetto “mediterraneo” forma un curioso controcanto ai cactus del deserto, con la loro fauna di scorpioni, tarantole e serpenti. L’olio di olivo così ricavato è una delle fonti di finanziamento di Arcosanti, assieme alle donazioni e alla produzione di ceramiche in stile Vietri e delle Soleri wind bells: campane in ceramica e bronzo, caratteristiche per il sottile velo di metallo che le fa suonare a forza di vento. Manufatti di cui il film ci mostra la realizzazione, con immagini suggestive. La città di Arcosanti è dunque progettata per autoalimentarsi e autogenerarsi, appunto come un convento benedettino, in uno scambio continuo con la natura. Ma le campane e i conventi hanno aggiunto anche il sapore medioevale, al già piccante intingolo tra mediterraneità grecizzante, memorie indiane e paesaggio western. Ovviamente, c’è anche più di un tocco di spezia fantascientifica, come ci ricorda lo stesso Vittorio, quando “verso la fine del film” vanno a Cosanti, la casa studio di Soleri, nei pressi di Phoenix. A Cosanti Soleri è morto il 9 aprile 2013, a 94 anni, dopo avere ricevuto nel 2000 il Leone d’oro alla Biennale di Architettura di Venezia. Mary Hoadley, che era venuta nel 1970 a starci per due settimane ed è poi rimasta come site coordinator, racconta che, a quanto pare, “George Lucas era andato lì e si era ispirato a quelle architetture ‘lunari’ per costruire i paesaggi visivi del primo Star Wars”. Un altro tassello del mosaico. “In realtà è più un si dice che una certezza”, ammette sempre Vittorio. Che aggiunge: “in vecchiaia, Soleri comincia a disegnare con il suo tratto da ambidestro, su dei lunghi rotoli di carta da macellaio, arcologie per colonizzare altri pianeti che ci hanno srotolato per le riprese sotto i nostri occhi stupefatti”.
In tutto il film Vittorio e Giulio pongono spesso domande sull’utopia, ma Hanne Sue Kirsch, l’altra allieva di Soleri e oggi coordinatrice dei suoi archivi, risponde categorica: “Non utopia, ma urban laboratory. Proviamo a costruire un’idea diversa. Un modo in cui l’umanità possa progredire”. “Riconoscere l’importanza delle implicazioni e delle relazioni ambientali è stato un notevole primo passo. Abbiamo quindi dovuto constatare che la vita è più complessa e ardua di quanto ci piacerebbe credere”, scriverà Soleri a qualche decennio dall’inizio della costruzione. “Qui, dove vita e lavoro sono una sola cosa, non puoi isolare l’uno dall’altro. In molti aspetti, le persone che stanno lavorando qui sono eroi”. “E’ stato un viaggio nel deserto per imparare a sognare”, è il commento finale che ci dà Vittorio. “A me hanno sempre affascinato i personaggi un po’ fuori dal mondo, e Soleri lo era in modo sublime”. Un po’ “fuori” confessa di esserlo anche lui: rivela di aver fatto lievitare i costi per includere nella colonna sonora, assieme alle schitarrate di famiglia, la musica di Calexico, Naim Amor & John Convertino e Joachim Cooder, il figlio di Ry. “Cerco di raccontare storie su quello che incontro senza dare giudizi, ho voluto fare un regalo a un figlio spalancandogli una finestra, e indicandogli una possibilità, uno sguardo alternativo sul futuro”.
Al ritorno dal viaggio il figlio Giulio si è davvero iscritto ad Architettura. Sul finale lo vediamo a Bologna che assieme al padre si confronta su Soleri con l’archistar Mario Cucinella. “Io non l’ho conosciuto personalmente, però ho incontrato molto del suo lavoro, perché ovviamente è una figura che non puoi non incrociare”, conclude Cucinella. “E’ stato uno degli attori del ’900, ed è stato forse l’unico che ha avuto il coraggio e l’ambizione di dire: realizziamo una comunità nuova”. Secondo lui, è stata comunque Utopia. “Cercare di costruire con l’architettura una comunità che guardasse al mondo con occhi diversi”. Nel finale del film, mentre Giulio suona la sua chitarra nel deserto, sentiamo le parole del padre: “Non chiedo altro alla sabbia del deserto che darci questa bellezza”.