Il potere del brand
Il negozio senza marche a Milano rende tutti “creator”. Senza totem non si vive
“Yolo” in via Torino 60 è tappezzato da scritte a caratteri cubitali, come “Liberati da ogni etichetta!”. Ma più che emanciparsene, finisce per trasformare chiunque in un potenziale marchio: basta postare una foto sui social
A Milano ha aperto un negozio che vende abiti di marchi famosi senza etichetta, per (si legge sul sito-manifesto) liberare le persone dai condizionamenti (e pregiudizi) del brand, e far scegliere le cose da acquistare solo per la loro bellezza e il loro valore. Per di più, liberati dall’etichetta, i capi costano meno. Dopo 23 anni, si è concretizzato un pezzo del grande sogno di un mondo No Logo di Noemi Klein? “No Logo”, ricordiamolo, è il libro pubblicato da Klein (giornalista canadese) nel 2000 e ribattezzato la Bibbia del movimento anti globalizzazione. Ora, dopo quasi un quarto di secolo, è difficile resistere alla tentazione di mettere vicini lo store milanese senza marchi e il libro manifesto no global e giocare a trovare le differenze.
“No Logo” è figlio di un lavoro di indagine durato quattro anni dedicato allo smascheramento di quella che Klein considera l’anima nera del capitalismo post industriale, colpevole secondo lei di aver smantellato in modo indiscriminato le fabbriche occidentali per trasferire la produzione nei paesi dove la manodopera ha costi più bassi, dando il via alla delocalizzazione, matrice della globalizzazione, motore di crescita delle “demoniache” multinazionali. A prescindere dalla condivisione delle tesi dell’autrice, il libro ha una peculiarità che lo rende interessante e che ci aiuta anche a capire il senso del nuovo store milanese: il punto di osservazione dell’indagine di Klein non è prettamente economico, ma di marketing, perché l’autrice, per demolire il tanto temuto e odiato brand (che è un caposaldo percettivo, psicologico e non materiale di un’azienda) ne analizza in modo esemplare la costruzione. Questo rende “No Logo” uno dei manuali di storia e tecniche di marketing che ogni studente di questa materia dovrebbe leggere (interessante anche per tutti i consumatori).
Ora torniamo nel 2023, a Milano, in via Torino 60. Il nuovo negozio si chiama Yolo, che sta per You Only Live Once – si vive una volta sola, il motto del cuore della generazione Z (quelli nati tra il 1995 e il 2010, completamente immersi nel digitale), che sta dire che non si vive per lavorare e consumare. Yolo ha i muri e gli stand color rosa e celeste pastello, scritte a caratteri cubitali “Liberati da ogni etichetta!”, “Autentic*, Liber*!” (con lo schwa), camerini con pareti tappezzate da orsacchiotti, un corner con un canestro dove lanciare le palle (sempre rosa o celeste), corridoi con cornette dei vecchi telefoni che penzolano dal soffitto, una parete dove sparare per far cadere e vincere un gadget. Ma forse il centro di tutta la questione sta nella scritta “Diventa il tuo brand”: in effetti la notizia dello store brandless milanese io l’ho appresa Ida Galati, creator digitale, che in un reel racconta ai suoi 110 mila follower che “la location è interattiva, instagrammabile e tiktokabile, con messaggi motivazionali, sfondi per dirette e foto e video social…”. Ecco cosa ha fatto Yolo: ha eliminato i brand delle aziende per fare spazio al personal brand dei suoi clienti.
Ora, senza cadere nel rimpianto del mondo perduto, guardiamo le differenze: sembra che per quanto l’individuo abbia intrapreso un suo “percorso” di liberazione da ideologie, religioni e morali, per quanto abbia frammentato e relativizzato la realtà, senza totem non vive. Con Yolo il brand non è morto. Ieri era un baffo, oggi sono io, sola davanti allo specchio che mi faccio una foto con il cellulare e la posto sui social. E le aziende? Lo sappiamo, sono passate allo storytelling (una cosa vecchia con un nome nuovo), asset strategico per il quale si arruolano anche fior di scrittori, mentre Yolo, a quanto pare, è stato creato da un’agenzia di brand management.
Politicamente corretto e panettone
L'immancabile ritorno di “Una poltrona per due” risveglia i wokisti indignati
Una luce dietro il rischio