La basilica di Santa Maria Maggiore vista da via Panisperna (Ansa)

Roma laboratorio politico

Black panther ed Ezra Pound. Un quartiere spiega l'italia degli estremi

Michele Masneri e Andrea Minuz

La sezione di Colle Oppio, le radici meloniane, i fascisti sempre a tavola che familiarizzano con la sinistra radical chic. Un set e un sogno immobiliare a metà. Tra scrittori e monnezza. Esquilino, Italia

Destra e sinistra insieme, scrittori impegnati super antifa e fascistoni irredimibili, palcoscenico del degrado romano più sfrenato, ma anche teatro di euforiche sperimentazioni multietniche e inclusive. Se  uno straniero, o un alieno, arrivasse oggi in Italia e volesse capire che succede (o che non succede), nell’èra del primo governo Meloni, potrebbe recarsi all’Esquilino. Celebre colle romano, dai contorni indefiniti tra la stazione Termini e i Fori imperiali, racchiude in sé la meglio resistenza e l’identità sotterranea del melonismo più ruspante tra “la” Colle Oppio della corrente “i Gabbiani” e CasaPound, e accanto i mercatini multietnici, chi teme la sostituzione etnica e chi si è già sostituito, ma da mò. 


E’ un campo largo con dentro la meglio società civile e i fascisti di CasaPound che qui prendono il cappuccino tutti insieme al bar. C’è la Gay Street, ci sono i percorsi del Pride e la palestra di boxe, “Indomita”, dove ci si allena tra gli slogan di Evola e Almirante. C’è la sede unitaria dell’Intelligence italiana circondata da stabili e palazzi occupati, tantissimi, tra cui il diamante della sinistra movimentista, “SpinTime”, e per l’appunto CasaPound (l’occupazione qui si fa impresa, sistema, economia sostenibile, artigianato, prodotto tipico). 


Chissà se Meloni – premier romana la cui identità urbanistica è molto fluida (natali a Roma nord, lunghe vacanze in Spagna, poi Garbatella ed Eur) – avrà “stressato” l’Esquilino nel suo pitch per lanciare Roma come sede dell’Expo 2030. Il quartiere racchiude in sé tanta biografia d’Italia anzi come usa dire oggi della Nazione. 


Nato come avamposto umbertino delle nuove borghesie, con molti portici di nostalgia torinese, è diventato la sua nemesi, un esperimento di quartiere che taglia completamente fuori la borghesia. Scarso ceto medio, laboratorio politico interessante che esalta gli estremi: dropout, sbandati, homeless moribondi nei cartoni insieme a una sofisticata bohème e alle élite del giornalismo e della politica (tra i residenti, Franceschini, Sorrentino, Nicola Lagioia, Goffredo Fofi, Elena Stancanelli, ma anche una colonia di émigré hollywoodiani, Abel Ferrara, Willem Dafoe, Matt Dillon). Distese di monnezza come ovunque a Roma, ma qui di più. Quasi un parco a tema per turisti che si fanno i selfie coi gabbiani in posa sopra i cassonetti. Però considerato molto chic, con quotazioni in rialzo, e gentrificazione “alla romana”, cioè che non funziona.  


AM: Nel 2016, una Giorgia Meloni in modalità opposizione si immortalava su Facebook con uno shooting sotto i portici di Piazza Vittorio, epicentro della zona, in una promenade del degrado: “Il rione Esquilino è uno dei simboli del degrado a Roma”, scriveva, “incuria, abbandono, mancanza di sicurezza, carenza di controlli, commercio illegale ed evasione fiscale, immigrazione selvaggia. Lo storico quartiere costruito all’indomani dell’Unità d’Italia in stile umbertino è l’emblema del fallimento delle politiche di integrazione della sinistra e di tutto quello che non vorremmo ci sia nella capitale e in tutte le nostre città”. Eppure, proprio lì, a due passi, anche le sue radici, le sue speranze, i suoi orizzonti. La storica sezione di Colle Oppio, non una sezione qualsiasi, a dirla tutta neanche una sezione, ma una grotta.


MM: Una spelonca in mezzo a ruderi delle Terme di Traiano. Un seminterrato senza finestre, pochi metri quadri, praticamente un corridoio con bagno. Un locale spoglio, umido, un metro e mezzo sotto terra. Primo rifugio di profughi istriani ed ex combattenti della Repubblica Sociale che arrivano qui nel ’47, “scavano a mani nude” o così vuole la leggenda, si ficcano lì sotto, non se ne vanno più. Diventa la prima sede nazionale dell’Msi (sezione “Istria e Dalmazia”). La spelonca al Colle Oppio è il garage della Silicon Valley della destra italiana, dovrebbero farci subito un tour.


 AM: A Roma la chiamano “la Colle Oppio”, al femminile.


MM: Come Giorgia, “il presidente del Consiglio”.


AM: Qui, dopo la vittoria elettorale compare uno striscione: “Ritorna il vecchio sogno”. Scende una lacrima. Alla Colle Oppio, la giovane futura presidente del Consiglio veniva a farsi le ossa nei roaring nineties. Prima ancora c’era Pennacchi che negli anni Settanta era di ronda la notte. Si vedeva spesso anche l’attuale Dg della Rai, Giampaolo Rossi, veniva qui a parlare di Marcuse e Pasolini, “era un costruttore di ponti”, ricorda Fabio Rampelli, un altro che si fa largo nella Colle Oppio degli anni Ottanta, diventa capo della corrente dei “Gabbiani”,  in omaggio a Jonathan Livingstone. I Gabbiani cullano e proteggono Giorgia nella sua scalata. Colle Oppio era insomma il ritrovo di tutta la galassia della destra: musica d’area, editoria letteralmente sotterranea, biliardino, busti del Duce, avanguardia e tradizione, ma anche iniziative sociali, partnership con la Caritas, volontariato, ambientalismo di destra. Se prima nei posti chiave del paese si era passati tutti da Lotta Continua, ora si deve fare i conti con Colle Oppio. La scuola di Colle Oppio arriva al governo, ma la storica spelonca diventa una discarica, risucchiata dal degrado, ricoperta di monnezza. Mette i sigilli Virginia Raggi, nel 2017, con un blitz solenne, i vigili che entrano all’alba, causa morosità dell’immobile e una concessione scaduta dal 1971! “Uno spazio inadatto a qualsiasi attività pubblica” certificava il Campidoglio. “Lo sappiamo bene”, replicava Federico Mollicone, ultimo presidente del Circolo, “qui c’abbiamo tutti i reumatismi”.

  

Operazione dei Vigili a piazza Vittorio (Ansa) 

MM: Altro genius loci: famoso per il fisico roccioso (è stato azzurro, non di sci ma di nuoto), e non si sa come facesse a scenderci, “nella Colle Oppio”, Fabio Rampelli. Animatore della spelonca-startup, il romano, romanissimo  Rampelli, ha resistito meglio di tutti ai reumatismi. Ras capitolino di Fratelli d’Italia, oggi vicepresidente della Camera, è anche architetto, e potrebbe lanciare un restauro del garage! Ma invece niente. Il suo architetto preferito è il sommo e fascistissimo Luigi Moretti, nato proprio qui, all’Esquilino, in via Napoleone III, la stessa di CasaPound, da una cameriera e da Luigi Rolland, autore anche delle Poste di piazza Dante oggi trasformate nella sede dei Servizi segreti, la  Langley de noantri. “Nella carriera politica mi ci sono trovato per sbaglio” ha raccontato. “Avevo studiato, sono abilitato a svolgere la professione di architetto, che ho anche iniziato a praticare con soddisfazione, da disegnatore e poi da progettista, avevo altre prospettive”. Inizia appunto la costruzione della nuova destra, a Colle Oppio, dove si inventano il leggendario circolo dei Gabbiani, poi ingrassati come quelli romani, diventati corrente pasciuta. E’ riuscito a portare all’Esquilino pure l’architetto del re (all’epoca principe) Carlo d’Inghilterra, il leggendario Léon Krier, lussemburghese che progetta “come una volta”, che considera la palazzina romana come la summa dell’urbanistica di tutti i tempi, che doveva rifare Tor Bella Monaca, e che ha presenziato a un convegno proprio a piazza Vittorio.  


AM: E si dà un gran da fare, Rampelli nelle fiaccolate esquiliniche di commercianti e residenti contro il degrado, “è ora di dire bastaaaa! Non se ne può più di vagabondi!”. Un rituale che va avanti da trent’anni, senza risultati tangibili, e che si produce semmai nel suo simmetrico opposto: l’incontenibile euforia per un’integrazione che nei fatti si vede pochino, ma si porta tantissimo nei seminari, workshop, reading e gastronomie locali. Un’immigrazione insomma tirata per la giacchetta: agitata come spauracchio dalla destra,  portata in trionfo, esibita, messa in vetrina dalla società civile dei residenti progressisti. Loro però, gli immigrati, se possono, quando possono, se ne vanno. Anche i cinesi. L’Esquilino non gli piace. Se vogliono combinare qualcosa, negozietti di famiglia a parte, c’è ben poco anche per loro.


MM: Tra i due mondi, un epicentro di esquilinismo dialogante, di terra di mezzo,  il teatro Brancaccio, dove Meloni ha fatto una delle sue prime uscite pubbliche, allo spettacolo di Checco Zalone. Il Brancaccio fu l’ultimo palazzo principesco costruito a Roma, in cemento armato, in fretta e furia perché l’ultimo principe Brancaccio spiantatissimo aveva sposato un’americana che a quel punto pretendeva il maniero… il decoro…


AM: E poi c’è la sinistra, in un arco che va dall’elegantissimo Franceschini agli squatter ormai boomer, ma sempre con orecchini e Birkenstock. All’Esquilino, soprattutto e più che altrove, ecco la composizione sociale che la destra impugna oggi come grande nemico, i famigerati “radical chic”, qualunque cosa voglia dire. 


MM: Nella definizione originale si evocavano ricconi con servitù e party, incuriositi dalle Black Panther, oggi pare che basti abitare in posti  dove qualcuno talvolta imbraccia un libro, terza media e Isee sopra la sussistenza, io la chiamo più “fascia alta dei morti di fame”, e dunque in questa accezione l’Esquilino è proprio “il” posto dei radical chic. Scrittori, sceneggiatori, lettori riflessivi di Internazionale (che ha la redazione poco lontano, come il nuovo Hollywood Reporter diretto da Concita De Gregorio, che non abita ma è come se abitasse, dea radical chic di quartiere). C’è la Gay street o quello che ne resta, ci fu un tempo in cui si pensava a pedonalizzarla e valorizzarla, ci sono i club e la sfilata del Pride che non  disturba i fascistoni che sono a tavola a magnà. 
AM: E lì, sempre a pochi passi, la sede “Pro Vita & Famiglia”, le gigantografie coi neonati. 


MM: E poi in pieno Colle Oppio anche il Sanctuary, oggi club notturno con piscina (sulla Domus Aurea) e già luogo dell’Apperò, aperitivo gay dove allignava l’umanità notturna di Marco Prato, e dunque siamo in piena “Città dei vivi”, dunque in zona Nicola Lagioia, scrittore che a un certo punto è stato identificato come testimonial del quartiere, nel bene e nel male, forse perché l’altro grande testimonial, Paolo Sorrentino, sta per trasferirsi ai Parioli, e la politica (ma anche l’Esquilino) non ammette vuoti. E poi tutti i registi, Garrone, i fratelli d’Innocenzo… 

  

Cassonetti pieni in via Panisperna (Ansa)
  

AM: Il cinema italiano ormai è un affare di correnti. Quella di Monteverde Vecchio, presieduta da Moretti, più residenziale e borghese, e quella dell’Esquilino in grande ascesa, dura e pura, immersa nel degrado. Piazza Vittorio diventa un film di Abel Ferrara. Prima ancora c’era “L’Orchestra di Piazza Vittorio”, documentario sull’omonimo collettivo musicale. L’Esquilino è un set a cielo aperto, si girano tanti film. E a conferma della contaminazione, non solo l’underground, lo sperimentale, la nicchia artistica, ma anche “Fast and Furious” che ha bloccato il quartiere per giorni.


MM: In questi giorni, un grande mercato set del nuovo film di Gabriele Mainetti, che ha mandato in confusione i residenti, convinti che fosse proprio tornato il vecchio mercato della piazza. 


AM: Ma infatti a volte c’è talmente tanto schifo diffuso e dal basso che uno pensa, vabbè forse è un set, staranno girando, e invece no. Da questa nebulosa di sinistra spicca poi la scuola “Di Donato”, visitata anche da Mattarella all’alba del Covid per stemperare la fobia dei cinesi (era la fase in cui Formigli mangiava il pollo in salsa agrodolce in tv). Scuola aperta e partecipata, presidio di antifascismo per piccoli Mozart dell’inclusività e dell’integrazione, la Di Donato ha vinto anche un David di Donatello, col documentario “Il Cerchio”, ambientato nella scuola (e infatti subito workshop di cortometraggi già alla Materna, ché cineasta e cittadino viaggiano di pari passo). Ci sono le “mamme della Di Donato”, attivissime tra feste etiopi, carnevale bangla, sabato interculturale, zumba e danze africane, mercatino del consumo etico, calcio sociale, teatro sociale, pranzo sociale, ping-pong antirazzista. Un’eccellenza del quartiere, modello di scuola molto spostato sul centro-sociale en plein air.


MM:  Globalizzazione dal volto umano. Il gelataio Fassi, celebre, ha prima venduto ai coreani, poi adesso organizza reading e corsi di scrittura nel suo “palazzo del Ghiaccio”. 


AM: L’Esquilino è anche l’ennesimo sogno immobiliare infranto. Da che mondo è mondo artisti e bohémien vari trovano posti che costano poco e sono in pessime condizioni, ci mettono del loro, un po’ di colore, festivalini, graffiti, reading sui temi giusti, l’area in questione attira gente con più soldi da spendere, eccetera. La fiaba in genere finisce che i prezzi al metro quadro schizzano, i vecchi proprietari fanno i soldi, qualcuno rimane, chiude la cartoleria, chiude la merceria, apre la boutique, il negozietto vintage, la ciclofficina-birreria. La gentrification, pure con tutti i suoi limiti e paradossi, funziona ovunque: New York, Parigi, Berlino, pure a Praga. Qui non ci si riesce. La versione romana prevede un misto che scontenta tutti, vecchi e nuovi residenti. I prezzi salgono ma i difetti rimangono, e anzi sembra quasi che l’Ama (Azienda municipale ambiente) ci si metta di impegno a far fallire le gentrification (che volete che vi leviamo la monnezza per farci i soldi eh? Ed è subito “speculazione edilizia”!). Pubblica amministrazione e Comune amano mettersi di traverso, subito insospettiti dai processi di ammodernamento, che andranno assecondati casomai con la dovuta lentezza, aprendo così anche spiragli a nuove “occupazioni” verso immobili bloccati da anni nel purgatorio dei permessi e delle autorizzazioni. Sembrava appunto che qui, all’Esquilino, la presenza dei Franceschini, dei Sorrentino, degli Willem Dafoe, innescasse la fatidica rinascita. Ci si sbagliava. Errore madornale. Perché degrado e sporcizia garantiscono semmai il radicamento nell’“autentico” e nel “vero”. Sono una forma di resistenza alla dittatura del “decoro”, concetto sospetto, piccolo-borghese, e diciamolo pure, de-destra. Il “decoro” è il cavallo di Troia delle speculazioni immobiliari. Con la scusa del decoro si sradicano i territori, si cancellano le tradizioni e le sperimentazioni. C’è anche un manifesto teorico, “Contro il decoro. L’uso politico della pubblica decenza” di Tamar Pitch, sociologa dell’Università di Perugia, che piace molto alla sinistra antagonista: “Decoro, merito, disciplina sono le parole d’ordine e gli obiettivi di politiche che legittimano la paura contro ciò che è sporco, contaminante, eccessivo, minaccioso per l’ordine e la sicurezza”, che sarà anche vero, ma sorci morti, cacca umana e pipì davanti casa non sono solo un “discorzo”, un “testo” o un “dispositivo del potere” ma proprio sorci morti, cacca e pipì. 

 

MM: Non sarebbero piaciute molto ai coniugi Bernstein…

 

AM: Però le Black Panthers che mangiavano i bocconcini di roquefort ai parties dei Bernstein a Park Avenue davano l’ebbrezza, il brivido della “Rivoluzione” nel salotto, il degrado vero e sincero dell’Esquilino, che scorre nelle strade coi suoi fluidi corporei e i cumuli di monnezza non riciclati, non differenziati e neanche performativizzati da uno street artist, garantiscono un’esperienza “critica” e antagonista rispetto alle progettualità sospette e mefitiche del decoro, del carino, e dei loro negozietti vintage (e infatti comprarsi un vestito all’Esquilino è impresa disperata). Così lo scrittore non vive nella falsa Trastevere americanizzata, semmai resiste nello schifo puzzolente, pardon “contaminante” dell’Esquilino. E si capisce, quindi, anche la grande, diffusa tolleranza e benevolenza per le “occupazioni”, uniche imprese immobiliari incoraggiate, utili anche a difenderci dalle insidie del “decoro”.
MM: Va detto però che l’Esquilino è stato pionieristico anche in questo. Un tempo era sintomo di degrado ingestibile, ma negli anni tutta Roma si è esquilinizzata, per cui oggi il quartiere è meno sporco di Monti Parioli, e con meno buche. Gli homeless poi sono sempre tanti, ma ormai ci sono pure a Milano, e la possibilità di incontrare un accoltellatore è molto più bassa di quella di incontrare Goffredo Fofi. L’Esquilino insomma è una piccola San Francisco, ovviamente senza le startup, e dove i cinesi che vedi non sono gli asiatici che vanno a Stanford bensì gli unici businessmen che aprono ristoranti e negozietti. Per il resto,   cassonetti rigurgitanti, ma anche per la prima volta da anni una vera rigenerazione urbana. il parco con la fondamentale “Porta Magica” è stato restaurato e - incredibilmente a Roma - viene pure manutenuto.   


AM: Ma non troppo, sennò si sfocia nel decoro.


MM: No, anche perché senza decoro il quartiere è un set già pronto. La stazione della metropolitana, credo una delle più sporche e pericolose del mondo, che va giù per decine di metri, è perfetta per dei film sul Bronx anni Settanta, tipo “I guerrieri della Notte”. 
AM: Davvero. E invece si ostinano col racconto dell’integrazione, subito sommersi da un cumulo di cliché, il kebabbaro, i bonghi, le canne, che palle!


MM: Il cortocircuito si vede in molte cose: nel vecchio “Mas”, da non confondere con la decima Mas, invece grande magazzino storico, che da poco ha chiuso, in cui il “paese reale” si comprava mutande e canottiere, e noi stronzetti di sinistra uniformi da piloti e da medici per le feste di carnevale. Per un pezzo di società era un luogo da performance - film di Rä di Martino, video “Supercafone” - per altri invece semplicemente posto dove andare a comprare le cose a poco prezzo. Ma tutto il quartiere si presta all’equivoco. Quartiere benestante, prezzi sui 4-cinquemila al metro, ma tutti poveri o travestiti da poveri. Non ci sono negozi, nonostante gli abitanti con alta propensione all’acquisto. Non ci sono palestre fighette se non una dei preti e quelle superfasce, il top del consumo è l’Oviesse by Massimo Piombo (una specie di Mas 2.0). Tanti pensionati afflitti, tanto antagonismo, nessun negozio, solo chioschi da mare, edicole, gialli, librerie di volumi turistici stinti dalla luce e dalla polvere… Però invece dentro, case da ricchi, dinastie, intellettuali, architettoniche, cinematografiche… 


AM: Resiste il “food”. 


MM: C’è Casadante, la Casa Cipriani della letteratura italiana: stanno tutti lì, la mattina all’alba Alessandro Piperno già in tre pezzi e tweed anche in luglio, a scrivere, perché la  moglie non lo lascia fumare a casa, e poi tutti, da Francesco Piccolo a Nicola Lagioia, e agenti, e editori, e editor. Casadante è il pranzo di lavoro dei milanesi, strategico, vicino al Frecciarossa, e impiegati del Sisde che vegliano.


AM: Leggeranno?


MM: Chissà. L’Esquilino  è talmente l’epicentro della letteratura e dell’industria culturale italiana che  non ci sono quasi librerie, perché vige una perfetta economia circolare di pdf  clandestini (e poi sceneggiature, con la linea A della metropolitana che porta verso il quartiere Mazzini, dunque la Rai. La linea della speranza…). E in una guida gastroantropologica, anche Rocco, trattoria “bien” dalle parti di via Lanza, e lì poteri forti, aristo, belle ragazze, molto cinema (e altra sede dei Servizi). 


AM: Covo di giornalisti, sembra l’Arena Robinson a Torino, o uno stand a La Repubblica delle idee.


MM: Ma chi preferisce invece un gastrotour fascio non ha che da chiederlo. Tra Casepound e “Gabbiani” uno si aspetterebbe ronde anti immigrati, feroci spedizioni punitive, invece i leader come Gianluca Iannone stanno sempre a tavola, in luoghi prediletti, indimenticabile la tavolata con la maglietta “cento e non più cento” in ricordo della marcia su Roma,  al ristorante “Danilo”, l’anno scorso.  Ma poi Iannone, già proprietario di locali come “Angelino”,  viene avvistato a comprare integratori e scioglipancia in farmacia. Altra nemesi, o metafora? 

 

AM: Si mangia anche allo Spin Time, il centro sociale di via Santa Croce in Gerusalemme occupato da Action e benedetto da papa Francesco con il suo elemosiniere, in versione elettricista per riallacciare la corrente staccata allo stabile. Nel 2020, nel palazzo occupato, Schlein ha presentatod le sue proposte sui migranti.  Erano i tempi delle Sardine, che a loro volta avevano eletto Spin Time come loro base nella Capitale. Modelli imprenditoriali impeccabili, solo entrate, niente tasse. Qui arrivano anche potenti Suv da Roma Nord, i genitori scaricano i figli adolescenti il sabato pomeriggio per qualche “evento”, contenti di uscire dalla loro cornice borghese per qualche ora, di provare il brivido del “degrado”, poi di nuovo a casa coi camerieri filippini che li aspettano. 
MM: Lo Spin Time è fichissimo, non come il cinema America, ma bello uguale (molto più sgarrupato, mentre all’America si sconfina nel decoro). Del resto l’okkupazione è l’unico tipo di startup che funziona a Roma. Prendi un posto di qualcun altro, ti ci piazzi, se te la giochi bene dopo un po’ fai la tua bella exit: Il comune o comunque lo stato te la comprano. E’ un business model poco esportabile, in America sarebbe difficile immaginarlo, ma anche a Milano. A Milano negli anni ruggenti Berlusconi si comprò per esempio il teatro Manzoni perché stavano per farci un supermarket. 

 

AM: A Roma non ti compra nessuno. Però pensa che sogno un TeleGatto allo SpinTime!