1927
L'ossessione demografica del fascismo? Un sogno infranto
Mussolini si sforzò di attuare una politica natalista con l'obiettivo di attrezzare l’Italia a diventare una grande e minacciosa potenza militare. Ma fu impossibile stimolare le nascite con misure illiberali
Oggi che siamo diventati fin troppi, il numero (contenuto) è sopravvivenza. Cent’anni fa, quando eravamo ancora pochi, il numero (eccessivo) era potenza. Potenza guerriera con cui spaventare, incutere timore più che rispetto negli avversari e pure nei non avversari, se non perfino negli amici; e naturalmente numero da gettare nelle guerre, mondiali o coloniali che fossero. Mussolini aveva le idee ben chiare, al riguardo. La sua concezione del numero degli italiani era genuinamente guerresca. Nient’altro. Così, quando si lamentava che l’Italia aveva, secondo lui (e non era vero per il tempo), troppi pochi abitanti, era alle guerre che guardava: a quelle in cui già era impelagato e a quelle che di riffe o di raffe si profilavano, bussando sopra i cieli della patria per portarci il peggiore dei destini. Il paradosso del fascismo è esattamente questo, che si sforzò di attuare una autentica politica demografica natalista col fondamentale, se non proprio il solo, obiettivo di attrezzare l’Italia a diventare una grande e minacciosa potenza militare. Solo che non c’è verso di attuare una autentica politica demografica, non certo di lungo periodo, a quel solo scopo.
Ma ascoltiamo le parole di Mussolini: “Parliamoci chiaro: che cosa sono quaranta milioni di italiani di fronte a novanta milioni di tedeschi e a duecento milioni di slavi? Volgiamoci a occidente: che cosa sono quaranta milioni di italiani di fronte a quaranta milioni di francesi più i novanta milioni di abitanti delle colonie, o di fronte ai quaranta milioni di inglesi, più i quattrocentocinquanta milioni che stanno nelle colonie?”. E’ il 27 maggio, giorno dell’Ascensione, del 1927. E il discorso passerà alla storia, infatti, come il discorso dell’Ascensione. Il primo discorso nel quale Mussolini esplicita la sua visione demografica dell’Italia. Può consentirsi tanto di strigliare gli italiani, che secondo lui non fanno abbastanza figli, che di porre di fronte al paese un obiettivo tanto netto quanto ben difficilmente realizzabile: portare la popolazione italiana dai 40 milioni di quell’anno ai 60 milioni per la metà del secolo. Una metà del secolo che Mussolini vedeva a buona ragione sotto l’egida ancora più schiacciante del fascismo: basti pensare che il regime era uscito perfino rafforzato dalle vicende collegate al delitto Matteotti (1924), con i gruppi di opposizione senza un disegno unitario di lotta antifascista e, anzi, divisi tra di loro come di più non si sarebbe potuto. E lui, Mussolini, forte di un crescente consenso popolare.
L’obiettivo dei 60 milioni di italiani da raggiungere entro il 1950 era una sbruffonata di quelle che gli piaceva concedersi, a Mussolini. Ma il decennio 1921-1930, alla cui metà si trova grosso modo il 1927, è un decennio d’oro per la dinamica demografica, quello che farà segnare il più forte incremento del movimento naturale (nati - morti) della popolazione nella storia dell’Italia unita. La forbice tra natalità e mortalità torna infatti ad allargarsi dopo un riavvicinamento che, con la super mortalità della Grande guerra e dell’epidemia di spagnola degli anni 1918-’19, era sembrato sul punto di determinare un balzo all’indietro di dimensioni formidabili tanto delle condizioni economico-sociali che demografiche del paese. Ma nel decennio 1921-1930 la mortalità scende sensibilmente mentre la natalità torna a crescere, cosicché l’aumento annuo della popolazione arriva all’11,6 per mille. Ora, se si fosse tenuto questo ritmo indiavolato di quasi 12 abitanti in più all’anno ogni mille abitanti, la popolazione italiana sarebbe raddoppiata, arrivando non a 60 ma addirittura a 80 milioni di abitanti nel giro di un’ottantina di anni, ovverosia attorno alla fine del primo decennio del nostro secolo, raggiungendo i 60 milioni sospirati da Mussolini nella seconda metà dei sessanta: pur sempre tra i 15 e i 20 anni di ritardo da quel 1950 così simbolicamente stabilito. Oltretutto Mussolini aveva non uno ma due ostacoli davanti a sé, in quel 1927. Il primo era quello di tenere alto il divario tra nascite e morti; ma il secondo era perfino più problematico: smorzare se non proprio sopprimere la vocazione migrazionista della popolazione italiana. Insomma, fare dell’Italia una potenza anche come numero degli abitanti in grado di competere con le superpotenze di allora era impresa tutt’altro che semplice. Eppure, agli occhi del Duce del fascismo, irrinunciabile.
Ed eccolo allora lanciarsi, al di là dei proclami, in una vera politica demografica che, seppure non gli avesse permesso di raggiungere i 60 milioni che si riprometteva nei poco più dei venti anni che lo separavano dalla metà del secolo, doveva però porre l’Italia nelle condizioni più favorevoli affinché la popolazione crescesse a ritmi più sostenuti e sicuri del passato. Purtroppo per lui, mentre sul versante della mortalità l’Italia, e con essa l’Europa e l’occidente più in generale, era entrata in una fase di contrazione irresistibile, la natalità dopo la ripresa del decennio post Grande guerra entrava a sua volta in una tendenza di lunghissimo periodo di ridimensionamento. Mussolini e il fascismo avrebbero fatto di tutto per contrastare questa seconda, e a loro occhi peggio che deleteria, catastrofica tendenza. Ma nonostante tutta la narrazione messa in piedi sulla super fecondità delle donne, sulla potenza procreatrice dei maschi e sull’italico popolo che non si risparmiava in camera da letto, durante il fascismo il tasso di natalità – numero di nati annui ogni mille abitanti – non fece che scendere. Incredibile a dirsi, ma vero. I nati furono infatti 27,5 ogni mille abitanti in quell’anno 1927 del discorso dell’Ascensione e sarebbero scesi a 23,5 per mille abitanti alla vigilia della Seconda guerra mondiale. Non proprio una discesa catastrofica, se si vuole cavillare, ma oltreché centellinata nel tempo, anno dopo anno: alla luce delle pretese popolazioniste del fascismo, catastrofica e basta.
Una tesi non così peregrina vuole l’Italia estranea e peggio ancora indifferente a ogni politica demografica, di qualsivoglia stampo, ma a maggior ragione se natalista, tesa cioè a invogliare le nascite e a stimolare la fecondità femminile, proprio come conseguenza dell’attivismo del regime fascista in quella direzione. Che il fascismo abbia ottenuto pressoché nulla dai suoi sforzi sul piano demografico (è vero che non sappiamo cosa sarebbe stato della popolazione italiana nel ventennio senza quegli sforzi, ma è lecito pensare, in base ai dati che possediamo, che sarebbe cambiato abbastanza poco) non è, o non sarebbe, dirimente: gli italiani – e non si parla qui semplicemente di popolo, ma di classi politiche e dirigenti nella loro articolazione – avrebbero avuto in uggia anche soltanto la dizione di “politica demografica natalista” come conseguenza dell’attivismo di regime al riguardo. Ma il tasso di natalità è sprofondato oggi in Italia all’inconsistente livello di 6,5 nascite annue per mille abitanti, meno della quarta parte di quando Mussolini affidò al popolo che lo ascoltava il suo proclama popolazionista: semmai ci trascinassimo nell’inconscio, più ancora che nella memoria storica, i sogni di grandeur demografica del fascismo, e non è così credibile, sarebbe l’ora di ramazzare tutto quanto e affrontare il dilemma demografico con la serietà che impone. Ciò detto occorre sottolineare con il dovuto rilievo che quello di Mussolini non fu affatto un proclama improvvisato. Il regime fece il possibile per incrementare matrimoni, nascite, famiglie – possibilmente numerose, va da sé – tanto che dieci anni dopo il discorso dell’Ascensione un ordine del giorno del Gran Consiglio del Fascismo a conclusione della seduta del 3 marzo 1937 torna a fare il punto sul problema con questa premessa, tutt’altro che insolita, e si dica pure vecchia, nel ragionamento: “Il problema demografico, essendo il problema della vita e della sua continuazione, è in realtà il problema dei problemi, poiché senza la vita non v’è giovinezza, né potenza militare, né espansione economica, né sicuro avvenire della Patria”. Ordine del giorno che apre la strada al Regio Decreto Legge del 21 agosto dello stesso anno che rappresenta senza alcun dubbio il più organico tentativo del fascismo – e della storia dell’Italia dalla sua unità ad oggi – di incrementare le nascite sia sostenendo il matrimonio che favorendo la famiglia e rendendo vantaggiosa la prolificità della coppia. Si va dalla concessione di prestiti agevolati alle famiglie per favorirne la costituzione e assicurarne la tenuta ai provvedimenti in materia tributaria, fatti principalmente di detrazioni ed esonero dalle tasse in rapporto ai figli e al loro numero; dalle misure per favorire la concessione di alloggi, il superamento di concorsi pubblici, l’avanzamento di carriera da parte dei dipendenti pubblici e di quanti nella pubblica amministrazione mostrano una particolare propensione alla prolificità fino alle norme per la tutela del personale femminile in servizio presso le amministrazioni statali durante lo stato di gravidanza e puerperio per le quali, anche se non di ruolo, si prevedeva la conservazione del posto, l’allungamento del periodo di congedo, la concessione di sussidi con una disposizione che equiparava i figli naturali a quelli legittimi – sempreché i primi venissero riconosciuti.
Il fascismo non si avventurò fuori dalla sfera dello stato e della pubblica amministrazione con certi provvedimenti, ma tra il 1932 e il 1939 non fece che legiferare in lungo e in largo fino ad arrivare a misure particolarissime, come la riduzione dell’80 per cento del costo dei biglietti su tutta la rete ferroviaria per i viaggi di nozze. Lo fece anche con provvedimenti di carattere negativo, come la tassa sul celibato, e con una disciplina restrittiva delle migrazioni interne e dell’urbanesimo. Il fascismo aveva infatti timore tanto degli spostamenti dalle aree rurali a quelle urbane che della crescita delle città: in entrambi questi aspetti vedeva occasioni di libertà di strati di popolazione che temeva di non controllare più così bene. Dovevano restare, letteralmente, al loro posto. Aveva ragione – almeno dal suo punto di vista. Ma furono proprio le premesse di quella politica demografica, guerresche e illiberali, a determinare tanto la mediocre presa delle misure nataliste, che pure avevano spunti di novità che non sarebbero stati travolti dalla fine ingloriosa del fascismo, quanto l’insofferenza o l’antipatia degli italiani per parole d’ordine, provvedimenti e perfino semplici ragionamenti demografici.
Il fascismo capì che la natalità andava sostenuta. Se lasciata a se stessa non avrebbe fatto che declinare, i quattro e perfino i tre figli per coppia non sarebbero durati. Capì che occorreva infilarsi nelle camere da letto degli italiani, nella loro vita sessuale, intima, per cercare in ogni modo di indirizzarla affinché non finisse sui binari morti – per la prolificità – della pura passione, dell’edonismo più moderno e, dal suo punto di vista, sconclusionato. Capì e mise mano a una politica natalista, per i tempi, tutt’altro che scevra da intuizioni azzeccate che ritornano, pur con ovvie modificazioni, anche oggi: come i prestiti senza interesse per la casa alle giovani coppie da rimborsare a rate mensili e il cui rimborso poteva essere addirittura condonato a mano a mano che la coppia aveva dei figli. Capì ma, paradossalmente, senza capire. La sua politica demografica mancò di sottigliezza e libertà. Era grossolana, era impositiva. Il fascismo intuì la tendenza declinante di lungo periodo della natalità, ma non capì che doveva puntare sull’innalzamento dei livelli di reddito, sul miglioramento della qualità della vita nelle campagne, sulla salubrità dei luoghi di lavoro, sulla rivoluzione urbanistica; non capì che quelli erano allora i veri fattori sui quali agire per stabilizzare i livelli delle nascite e ridurre la mortalità, così da ampliare comunque la forbice tra nascite e morti, aumentando il numero degli italiani. Non capì che misure demografiche anche di buona fattura non sarebbero bastate a modificare i comportamenti riproduttivi degli italiani, che nelle camere da letto degli italiani ci si poteva affacciare con qualche risultato se per un lato si abbandonavano i propositi guerreschi e di potenza che avrebbero dovuto sospingere le nascite e per l’altro si usciva da una visione demografica chiusa in se stessa, incardinata non sulla libertà ma sulla convinzione che proprio la libertà dovesse essere irreggimentata attraverso la limitazione della mobilità, dell’urbanesimo, dei passaggi da territori e vite più costretti a territori e vite di maggiori prospettive e più alte possibilità. Il fascismo aveva un obiettivo, pensò di realizzarlo attraverso un’azione indefessa di propaganda, nella convinzione che la propaganda di un’Italia forte e temuta nel mondo, che allargava nel mondo i propri spazi e confini grazie a un popolo numeroso e guerresco, sarebbe bastata. Voleva il numero, ma nella costrizione. Non poteva funzionare. Oggi Putin – e non è citazione per riempire la pagina, è un parallelo storico che s’impone di per sé – vuole la stessa cosa: allargare i confini, tornare alla Grande Russia. Solo che, stretto da una demografia compromessa e senza futuro, non potendo avere il numero non gli resta che la costrizione. Perfino peggio.
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