il foglio del weekend
Carta da favola. Perché non rinunceremo mai a conservare libri, lettere e biglietti
Due storie diversissime eppure uguali ci ricordano perché non riusciamo a sostituire questo materiale scorrettissimo che continua a piacerci nonostante le opzioni digitali
Due storie diversissime eppure uguali. La prima arriva dal lago di Garda. Qualche giorno fa, a Malcesine, sponda veronese, si è spiaggiata una bottiglia con dentro un foglio di carta. Niente mappa del tesoro o messaggio di naufraghi disperati sull’isola deserta (nel Garda, poi…) ma una letterina in tedesco, scritta con la grafia ordinata che evidentemente lì a scuola ancora insegnano. “Caro lago di Garda, con questo messaggio in bottiglia ci auguriamo che le nostre famiglie, i nostri amici e noi restiamo sempre felici e in salute. Caro lago di Garda, rimani bello e limpido come oggi”. Segue data, 9 agosto 2012, e la firma, Sabrina e Dennis (insomma, la lettera è rimasta a galla per dieci anni, appena poco di più di quanto occorra per arrivare, in Italia, a una busta spedita per posta…).
Storia numero due. Un brillante ricercatore del Centro studi donizettiani della Fondazione Donizetti di Bergamo, Edoardo Cavalli, si presenta nella biblioteca del Conservatorio di Palermo. Sta facendo delle ricerche su un’opera (ovviamente) di Donizetti, Alahor in Granada, e la pista palermitana s’impone perché è lì, al teatro Carolino, che l’Alahor andò in scena il 7 gennaio 1827 con mediocre successo: ma si sa che, in generale, tutta la stagione siciliana di Donizetti fu alquanto tormentata. Cavalli sapeva che il Conservatorio conservava una copia manoscritta dell’opera. Quando però ha aperto la prima delle due casse di legno, una per atto, che custodiscono la partitura, circa settecento pagine pentagrammate, ha avuto un tuffo al cuore e l’ha raccontato così all’edizione bergamasca del Corriere della Sera: “Mi è bastato vedere la prima pagina, la grafia era quella di Donizetti in quel periodo”. La mano non era quella del copista, ma dell’autore: un autografo di Donizetti, viva viva. Le ricerche continuano, però: “Da quanto tempo i fogli fossero custoditi nella biblioteca del Conservatorio o come ci siano finiti è tutto da ricostruire”.
Insomma, siamo su due piani diversi. Da un lato, il gesto sentimentale di due turisti un po’ fuori del comune che, invece di spedire una cartolina rétro o spargere i propri selfie su ogni social disponibile, imbottigliano una lettera d’amore per il Gardasee (per inciso, su questa fascinazione dei tedeschi per il lago in generale e quello di Garda in particolare bisognerà prima o poi fare uno studio storico-sociologico; se ne beava già Goethe…). Dall’altro, il serissimo lavoro di un musicologo a cui arride la fortuna e fa il colpaccio della vita: trovare un autografo del musicista che si è passata la vita a studiare. In entrambi i casi, c’è qualcosa di romantico. Messaggi in bottiglia e partiture che sbucano dagli archivi sono memorie che riemergono dal passato, prossimo o remoto non importa, una specie di filo diretto con chi ci ha preceduti, un messaggio dall’aldilà, almeno nel caso di Donizetti, i due tedeschi speriamo che siano ancora felicemente nell’aldiqua, e magari pure di nuovo in vacanza in Italia. Ma in comune entrambi i ritrovamenti hanno un’altra cosa: la carta. Il foglietto di Sabrina & Dennis e le settecento pagine di Gaetano sono carta scritta, e perfino a mano.
Ora, oggi la carta non gode di buona stampa (e figuriamoci la carta stampata, ma è un altro discorso). In un’epoca così ecologicamente imperiosa, impegnati a salvare il pianeta dai nostri stessi misfatti e imbevuti di correttezza politica come siamo, pare che stampare una mail sia un crimine paragonabile a mettere il vetro nel bidone della plastica. E infatti da parte dei corrispondenti più consapevoli c’è sempre, in calce alla mail, la diffida generalmente bilingue (così non ci sono alibi) a metterla su carta solo in caso di assoluta necessità. Ogni volta che clicchi il “print” della stampante un albero muore e la Natura non si sente troppo bene. Non più tardi di qualche giorno fa, sono stato aggredito dalla mia vicina di Frecciarossa perché ho esibito al controllore la stampata del mio biglietto invece di ostendere il cellulare, ma si rende conto? così danneggia l’ambiente, vergogna! (e io: sì, mi rendo conto, sono colpevole e anche disposto a passare il resto del viaggio in ginocchio sui ceci – ma non soffriranno, i ceci, intendo? – e con il cappello da asino in testa – purché ovviamente non sia fatto di carta – però la colpa è del mio smartphone che ultimamente mi pianta in asso, non potevo rischiare di pagare Trenitalia due volte…). Se avete un archivio cartaceo, nascondetelo. Non è per nulla corretto farsi sgamare dagli ospiti con una mensola della biblioteca tutta piena di faldoni con raccolte di vecchi pezzi, contratti e contatti in essere o spirati, remoti F24 tenuti lì perché con l’Agenzia delle entrate non si sa mai, perfino lettere-lettere, di quando ancora si spedivano dentro le buste, eccetera. “Ma come, ancora la carta?”, c’è sempre qualcuno che lo dice, spiegando pazientemente ma già un po’ annoiato, come il missionario che ripete per la tremillesima agli ottentotti i pregi della Bibbia e della strada ferrata (oddio, no, il paragone non è per nulla di ortodossia woke, diciamo allora: come Greta Thunberg che parla all’Onu), i pregi del Cloud, tutta la tua vita sulla nuvoletta. Quanto ai libri, ovvio, sbagliatissimo leggere quelli ancora cartacei quando c’è l’ebook reader e ormai la versione Kindle si fa pure per il calendario di Barbanera. Tutto lo scibile umano a portata di clic, vuoi mettere con i volumi magari pure brossurati, che sacrificio di spazio, che ammasso di polvere, che fatica quando parti per le vacanze e mezzo borsone se ne va per i libri, magari pure per quei classiconi che ti riprometti di “rileggere” da almeno tre estati (la bugia pietosa ai lettori è concessa: in realtà Proust o Dostoevskij si tratta per lo più di leggerli, arenato come sei a pagina venti da quando c’era ancora il Pentapartito)? E, sempre a proposito di grafia, che disastro quando tocca scrivere la dedica sul libro o il bigliettino che accompagna il regalo. L’uso della penna è ormai remoto quanto lo ius primae noctis, credo che anche alle elementari facciano i dettati al computer, e di conseguenza non sappiamo più scrivere, non in senso stilistico (questo lo diamo per scontato: basta aprire qualsiasi quotidiano italiano) ma proprio fisico, la mano che abbranca la penna che si muove sul foglio, che fatica, che noia, che brutta grafia, “ah che lettere storpiate, sembrano sciabole o rampini”, sempre Donizetti, L’ajo nell’imbarazzo. E che imbarazzo, appunto, quando invece si ricevono il libro o il biglietto, percorsi si direbbe da un ragno sotto Lsd, testo del tutto incomprensibile, mi starà facendo gli auguri o augurandomi un accidente, chissà. Di fronte alla pagina scritta a mano siamo ormai tutti degli analfabeti di ritorno, fra un po’ inizieremo a firmare con la croce, con grande felicità di chi raccoglie le firme per la presentazione delle liste alle elezioni, non dovranno nemmeno più taroccarle, che sollievo…
E invece diciamolo, sommessamente, senza farci troppo notare, senza far piangere alberi o pensare troppo all’Amazzonia in pericolo: a noi la carta piace. Piace per insopprimibile passatismo, perché si stava meglio quando si stava peggio, come diceva già l’uomo di Neanderthal, e perché tutti i tempi, quando sono antichi, sono anche buoni, e questo invece è lord Byron. Piace perché è un piacere vedere una lettera manoscritta bene, tipo quella in bottiglia dei due crucchi. Piace perché a suo tempo ci siamo fatti fare degli stupendi biglietti da Pineider, bella carta spessa, corsivi eleganti, incisione perfetta, proprio quando si smetteva di spedirli e perfino per condolersi si cominciava a usare Facebook. Piace perché la carta non si legge soltanto, ma si accarezza, si stropiccia, si alliscia, si manipola, nei casi di conclamato feticismo si annusa perfino, come il corpo dell’amat* (contenti?). Piace perché i giornali, certo, tutti li leggiamo sul telefonino, ma le rare volte che capita di prenderne in mano uno “vero” è una gioia, girare le pagine, non dover allargare l’inquadratura (che poi becchi sempre e comunque il refuso), perfino macchiarsi le mani di inchiostro, che meraviglia, che madeleine: Proust ci avrebbe subito scritto cento pagine. Piace perché Kindle è una bellissima invenzione e poi così finalmente il borsone diventa disponibile anche per un altro paio di scarpe, non si sa mai, ma non ci rassegneremo mai a non voltare pagina con la mano invece che con un clic, e i libri li vogliamo vedere lì, a incurvare le mensole della libreria da quanto sono cariche, illudendoci che i Proust e i Dostoevskij si possano leggere per induzione, semplicemente guardandone le copertine, e del resto se lo fa il ministro Sangiuliano, chi sono io per non provare la lettura telepatica dopo un così illustre esempio? (E poi qui bisognerebbe riflettere sul fatto che l’ebook non ha mai davvero sfondato, nemmeno in America, e le profezie sulla fine del libro cartaceo si sono rivelate clamorosamente sbagliate, dunque c’è speranza). Piace, la carta, perché ci dà un senso di possesso, di concretezza, tattile, fisico, carnale, che nessuna nuvola potrà replicare. Eccolo lì, il rogito del sudato appartamento, a portata di mano, concesso e non dato, beninteso, che lo si sappia ritrovare fra i faldoni e le polveri, quando nell’affannosa ricerca della ricevuta della Tari del 2008 viene la perfida tentazione di farla finita con tutte queste cartacce, via via, nella spazzatura, non c’è nemmeno l’incertezza sul bidone giusto. E invece no: quando l’insano gesto sta per compiersi, subentra la consapevolezza che in quelle carte c’è la memoria, la vita, e vuoi averle in mano e sottomano, da toccare per esserne rassicurati: finché c’è carta c’è speranza. “Giaccio e possiedo”, dice il drago Fafner, custode del tesoro dei Nibelunghi.
Infine, la carta piace perché ci regala episodi minori ma non minimi come quelli che vi abbiamo raccontato. Ha l’indeterminatezza e l’imponderabilità della vita, si può perdere, lacerarsi, sparire, risultare illeggibile. Le mail non si perdono, anche se fate finta di sì quando il caporedattore telefona irritatissimo e sbrigativo che il pezzo, benché i TRE rinvii già concessi, non è ANCORA arrivato, e tu pensi: per forza, ancora non l’ho scritto, e invece butti lì: ma come, non è possibile, guarda nello spam, oppure: sì scusa, ho dei problemi con la mail. Nessuno ha problemi con la posta elettronica, se la mandi è matematico che arrivi, è implacabile come il deposito nuvoloso nel quale l’archivi chiedendoti come sarà poi fatta questa nuvola piena di miliardi di email e pdf e jpg. Invece la lettera e il biglietto e il libro e il contratto si perdono, si macchiano, si strappano. Oppure ci regalano agnizioni ed emozioni irripetibili, come quella del tizio che sulla spiaggia di Malcesine trova une bottiglia con la lettera, o come quella di Edoardo che scoperchia una scatola e ci scopre la mano divina di Gaetano nostro. La mail, il cloud, l’archiviazione digitale sono la perfezione. Ma la vita non è perfetta, è fatta di incidenti, perdite, scoperte, incertezza. “A noi è negata l’idiozia della perfezione”, scrive la Szymborska, e avrebbe meritato il Nobel anche solo per questo. La carta è un’amante capricciosa ma irrinunciabile, è la gioia e la disperazione, è il passato che abbiamo di fronte, è l’emozione davanti ai manoscritti dei grandi, la perplessità per la grafia dei piccoli, è un inchiostro sbiadito su una carta ingiallita, è un bel Bodoni con la spaziatura giusta e la carta spessa (capita ancora, sì), è il papiro e la pergamena, sono i libri che abbiamo amato, le sottolineature e i commenti che ritroviamo quando ciclicamente li riprendiamo in mano, e magari scopri quanto già ti emozionava Shakespeare a quattordici anni e pensi quanto ti emoziona adesso che ne hai quaranta di più, ma magari per ragioni diverse. E’ il libro, lo spartito, il poster, la stampa, tutte invenzioni miracolose nella loro semplicità. Del resto, se siete arrivati fin qui, pensateci: il giornale che tenete in mano si chiama “Il Foglio”. Di carta (o almeno spero).
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