diario di viaggio
Regionale e sentimento. In viaggio sul treno per Bari: i lanzichenecchi sono altrove
Camicia di lino ma niente giacca e niente Proust. Si sale sul treno per il capoluogo pugliese temendo i selvaggi, i barbari, i tatuati col pitbull… Alla fine s’incontrano quaranta-cinquantenni dai gusti dubbi: spesso i padri sono conciati peggio dei figli
Camicia Caliban di lino azzurro, pantaloni Boggi avio, cintura borchiata Cuoieria Fiorentina, mocassini Timberland scamosciati, calze di cotone blu di cui ho dimenticato la marca, o forse non l’ho mai saputa, zainetto Tumi, occhiali Persol, profumo Bergamotto di Calabria Boellis… Quasi non mi riconosco, è molto difficile che esca di casa così sciolto, abitualmente sono più formale, la giacca me la metto sempre. Salvo eccezioni meteo e valide giustificazioni: non voglio arrivare a Bari fradicio di sudore. Ah, niente orologio, non porto l’orologio dal tempo dei primi cellulari dunque, se non ricordo male, dal millennio scorso. In questo sono un ragazzo moderno. Il treno è un regionalino che va da Barletta a Fasano. Le mie fermate saranno Bisceglie (la città di Marcello Veneziani), Molfetta (la città di Gaetano Salvemini), Giovinazzo (la cittadina di John Turturro), Bari Santo Spirito (la frazione di non so chi), Bari Palese Macchie (la frazione dell’aeroporto), Bari Zona Industriale (mai capito quali industrie vi allignino), Bari Centrale. La città di San Nicola e del Petruzzelli, di Bari Vecchia e del Murattiano, di Laterza e della famiglia Carofiglio, della Fiera del Levante (ma esiste ancora?) e di Luciano Canfora (lui esiste ancora di certo, continuano a intervistarlo sulla qualunque), la città della focaccia, della tiella, del polpo sbattuto, degli spaghetti all’assassina, e della Gazzetta del Mezzogiorno che, sempre se non ricordo male, fu il primo quotidiano a darmi una rubrica. Ma questo è passato remoto mentre il presente, un articolo di pochi giorni fa, consiste nella più bella recensione che “La ragazza immortale” potesse sperare: “Ecco il Grande Romanzo Italiano senza il formato dizionario, dalla rapidità che è insieme densità, del più iconoclasta e inimitabile rappresentante delle patrie lettere, con una scrittura totale dove convergono la prosa, la musica, la poesia, le arti figurative e l’amore”. Le parole di Enzo Verrengia sul mio romanzo sembrano leggermente esagerate perfino a me e però non posso dire che non mi abbiano toccato e oggi nutro ancor più simpatia per la città in cui sono state stampate.
Temevo i selvaggi, i barbari, i bruti, gli incivili, i pitecantropi con le asce di pietra. Era una vita che non prendevo un regionale. Mi domandavo: se Alain Elkann ha trovato i lanzichenecchi in prima classe tra Roma e Foggia, io chi troverò in seconda (classe unica) fra Trani e Bari? Soffrendo di tutte le fobie del mondo, da quelle famose e vietate che è saggio non esplicitare, a quelle meno note o meno violentemente represse, acrofobia, cinofobia, claustrofobia, demofobia, tacofobia, zoofobia, temevo di tutto. Temevo i maomettani, i barbuti, le donne velate. Temevo i tatuati col pitbull. Temevo i camiti col machete, gli sbarcati, le zingare, i rapper. Temevo, e però temevo di meno perché non mi risulta girino armati, di incappare in qualcuno dei cattolici beghini e poverini che ultimamente mi hanno attaccato per il mio elogio di Pier Ferdinando Casini e per la mia difesa di Alain Elkann. Ma che problemi hanno? Ma che gli hanno fatto quei due? Ipotizzo: Casini troppo godereccio e troppo trasformista, Elkann troppo ebreo e troppo ricco. Hanno detto, i cattolici beghini e poverini, che scrivendo certe righe mi sono rivelato “non troppo distante” dallo scrittore in abito di lino. In qualche modo ci hanno preso: è proprio il lino ad avvicinarci. Non l’ebraismo: d’estate se vuoi metterti la giacca il lino è indispensabile anche se sei cristiano, non è che la fede nel Dio vero da Dio vero, in colui che si è incarnato nel seno della Vergine Maria, garantisca una migliore termoregolazione. E non certo la ricchezza: ho appena visto un blazer Piombo/OVS in puro lino a 25 euri (magari Fabiana Giacomotti ci spiegherà come un simile prezzo sia possibile). Io continuo a preferire il mio sarto veneto Paolo Zanatta che purtroppo mi costa di più ma non è lui a rovinarmi, sono le tasse e le bollette (dunque sempre le tasse siccome le bollette sono piene di tasse). Insomma il lino se lo possono permettere quasi tutti e se pochissimi vestono in lino non è per un problema di soldi, è per un problema di, scusate la parola, cultura. La non ricchezza è un alibi, un passaporto per lo Stato di Sciatteria. “Uno snob cafone e presuntuoso, un radical chic mancato”: mi hanno definito così, ed è abbastanza divertente. “Fa il grande cattolico quando gli torna utile”: a parlare sono sempre gli stessi cattolici beghini e poverini, e stavolta è poco divertente innanzitutto perché è molto stupido. Utile? Non ho capito bene: utile? Me lo ripetete scandendo meglio? U-t-i-l-e? Utile mostrarsi cattolici oggi in Italia? Ma dove? Datemi l’indirizzo che ci vado subito. In treno, in macchina, anche in taxi se lo trovo.
Temevo tutto e tutti e in stazione tanto per cominciare c’è poca gente. Per giunta sembrano tutti miei connazionali. Senza volerlo ho azzeccato l’orario: grazie pigrizia! Prendere un regionale a metà mattinata si sta rivelando a portata di misantropo. Poca gente anche sul treno e però moltissima aria condizionata. Voglio la mia giacca! Una qualsiasi delle giacche blu di lino, nemmeno molto stazzonate (non tutto il lino si stropiccia allo stesso modo), che in questo momento mi attendono disoccupate e tristi nell’armadio. Ecco un altro vantaggio del mezzo privato: la temperatura la decidi tu. Alzi l’aria condizionata, l’abbassi, la spegni, la riaccendi, apri il finestrino, chiudi il finestrino, ti spogli, ti rivesti… E’ casa tua, sei il duca nel tuo dominio. Sul mezzo pubblico sei invece un numero in balia di un potere remoto e capriccioso. Procedendo verso il capoluogo della Terra di Bari, il vagone si riempie. Ma nessun lanzichenecco, anzi. A Molfetta sale un trentenne in doppiopetto di lino bianco, camicia a righe bianche e blu, addirittura cravatta. E orologio. E cartella (non zainetto, non trolley) di cuoio. Chi sarà? Dove andrà? L’insieme commuove ma i dettagli mi fanno storcere il naso. Il lino è troppo sottile e perciò semitrasparente: sotto la manica si vedono le righe della camicia. Non è un bell’effetto. Inoltre indossa mocassini senza calze. Io questa scelta dei piedi nudi nelle scarpe non sono mai riuscito a capirla. L’ho notata spesso in Sgarbi, l’hanno fatta notare in Nordio. I piedinudisti non conoscono l’esistenza delle vesciche? Le calze non servono soltanto a proteggersi dal freddo e dall’ineleganza: anche dallo sfregamento contro la scarpa. Avranno pelle più spessa della mia, Sgarbi, Nordio e il trentenne in doppiopetto di lino bianco che sospetto essere un influencer della moda.
Passa il tempo facendosi dei selfie, sorride, sembra stare bene al mondo. A differenza di Alain Elkann fra Roma e Foggia, non legge Proust. Nemmeno io leggo Proust. Né fra Trani e Bari né su altri percorsi. Mai letta la “Recherche”: amo la sintesi. Su Proust ho letto la biografia di Giuseppe Scaraffia, di Proust ho letto gli articoli raccolti in “Pastiches et mélanges”: a posto così, grazie. Nel modulo davanti al trentenne in doppiopetto, ossia alla mia sinistra, si è seduto un sessantenne con scarpe da ginnastica e braghe corte, la tenuta di ordinanza dell’italiano dimissionario dall’estetica. In più ha una maglietta grigia, come i suoi capelli, come il suo sguardo, come suppongo la sua vita, sulla quale è stampata una prolissa scritta in inglese, “Denim Indigo Blue since 1975” e altre parole che non riesco a leggere. Perché un sessantenne pugliese se ne va in giro con una scritta simile? Perché tanta mancanza di amor proprio? La maglietta l’ha comprata lui oppure la moglie? O magari è un regalo della figlia? Oltre che un ministero della Sovranità Alimentare ci vorrebbe un ministero della Sovranità Linguistica, o qualcosa di più ampio che li comprenda tutti, il ministero della Sovranità Mentale… Nel modulo ulteriore si è seduta una coppia, su di lei niente da segnalare (le donne sono mediamente meno sciatte, meno arrese), su di lui, in bilico fra i quaranta e i cinquant’anni, una maglietta Guru (d’epoca?), jeans pieni di strappi, scarpe con grosso logo Nobull. Non vorrei smentire dei pregiudizi, i pregiudizi mi piacciono, ma bisogna prendere atto che l’età conta poco: spesso i padri sono conciati peggio dei figli. In Italia, il Bel Paese dalla Brutta Gente, oltre al problema dei bruti nativi abbiamo il problema degli abbrutiti, uomini cresciuti al tempo del vestito buono, della riga dei pantaloni, delle scarpe lucidate con la spazzola, e che adesso con la scusa dell’estate escono di casa in ciabatte.
Ho preso il treno per capire se è ancora possibile prendere il treno, per fare l’Alain Elkann della situazione e per andare alla Pinacoteca Provinciale di Bari che, quando sono all’interno del ciclopico edificio, scopro chiamarsi ora Pinacoteca Metropolitana di Bari. Puro nominalismo. E’ passata di grado senza esporre un quadro in più anzi oggi ne espone parecchi in meno, alcune sale sono chiuse perché stanno allestendo una mostra. Meglio. Bisognerebbe sempre guardare pochi quadri alla volta, i grandi musei ubriacano, stordiscono, bisognerebbe imporsi di concentrare l’attenzione su un’unica sala, su una manciata di tele, ma chi ci riesce. E così, nonostante le sale chiuse, di quadri ce ne sono a disposizione anche troppi. Troppa arte sacra di livello medio, o medio-basso, che dovrebbe essere riportata nelle chiese a svolgere un’onesta funzione devozionale mentre qui dentro di funzione estetica ne svolge proprio poca. Troppi Giaquinto, il pittore molfettese a cui la Pinacoteca è intitolata, e nessuno è il suo capolavoro. Meglio, o meno peggio, l’Addolorata che ho visto l’altro giorno nel Duomo di Barletta. Troppi quadri piccoli ed è un difetto delle pinacoteche provinciali, metropolitane per finta, e dei collezionisti provinciali coi loro acquisti micragnosi e così ci si ritrova, per successive generose donazioni, con sale piene di macchiaioli formato francobollo (con l’eccezione di un importante “Ritorno della cavalleria” di Giovanni Fattori che misura 42x84). Troppi quadri anni Sessanta, o decenni limitrofi, di autori provinciali giustamente dimenticati e autori nazionali ingiustamente ricordati. Eccoli qui i lanzichenecchi che non ho visto in treno. Nel dopoguerra un esercito di astrattisti e informali invase le gallerie italiane espellendone brutalmente i figurativi. La civiltà artistica subì un colpo durissimo: i Sacchi di Burri come il Sacco di Roma. L’arte divenne disumana. Resistettero, assediati, derisi, Guttuso e pochissimi altri. Ma il tempo è galantuomo ed ettari di quell’arte iconoclasta non dicono più niente a nessuno. Si salvano i pezzi più ispirati di Capogrossi, Burri, Fontana (che fra l’altro vestiva formale come Elkann), mentre il resto è muto. E sgraziato. In Pinacoteca intere pareti sembrano semplicemente imbrattate. Fra tante cose brutte la più brutta, dispiace dirlo, è il dittico firmato Giosetta Fioroni. A parziale discolpa c’è come dicevo la colpa collettiva, il fatto che gli anni Sessanta, e pure i Cinquanta e i Settanta, sono invecchiati quasi in blocco. Oltre che peggio del rococò di Giaquinto. In conclusione cosa salvo? L’Addolorata di Francesco Solimena, stesso soggetto e quasi stessa epoca del Giaquinto di Barletta, ma qui abbiamo una donna vera e là una maschera. E soprattutto lo Svenimento di Bonito e la Toeletta di Tota. Non pretendo ci sia su tali opere condivisione universale. Chiaramente conta lo sguardo maschile, o almeno l’interesse per il corpo femminile. A cominciare dal seno, coperto eppure prorompente e per giunta maneggiato dalla fantesca, nel settecentesco, scaltro Bonito, eburneo e libero dallo scialle azzurro nel novecentesco, ipnotico Tota. Roberto Longhi che di solito eccelle nel formalismo scrivendo dei quadri di genere di Bonito si avventura nello psicologismo e li stronca definendoli adatti “per un pubblico grosso ed idiota, inabile a discernere le gradazioni del sentimento”. Idiota lo va a dire a qualcun altro, l’estensore di una tale critica d’arte che definirei vegetariana. Ci sarebbe voluta la prosa carnivora del napoletano Domenico Rea per spiegare la pittura carnale del napoletano Giuseppe Bonito. Mi torna in mente l’articolo fantastico dedicato ad Alessandra Mussolini nel 1993. La nipote del Duce si era candidata a sindaco di Napoli contro il comunista Bassolino e l’autore di “Ninfa plebea” si produsse in un peana erotico, impolitico, sfrenato. Mai più recuperato quel pezzo, nemmeno su internet ne trovo traccia (devo chiedere lumi ad Andrea Di Consoli che di Rea è stato biografo). Era talmente bello che bisognerebbe festeggiarne il trentennale. Mentre della maschietta nuda di Riccardo Tota, suppergiù Anni Trenta, le parole giuste le avrebbe trovate Pitigrilli: mammifero di lusso.
Chi ti incontro, uscito dalla Pinacoteca, sul Lungomare di Bari? Gianrico Carofiglio? Per fortuna no. Michele Emiliano? Dio me ne scampi. Checco Zalone? San Nicola mi ha protetto… Incontro Nicola Conte, il grande jazzista. E’ una visione, procede coi pantaloni bianchi e la camicia blu aperta sul petto e i capelli scompigliati dal vento. Profumo di anni Sessanta/Settanta: mi vengono in mente Mario Schifano paragonato a un puma da Goffredo Parise, Lucio Battisti che corre sulla copertina di “La batteria, il contrabbasso, eccetera”, il concittadino Pino Pascali (di cui nella Giaquinto ho appena visto un’opera) immortalato da Ugo Mulas. Lo fermo, mi presento, gli menziono il comune amico Corrado Beldì, gli dico di averlo ascoltato a Novara Jazz, gli chiedo cosa sta facendo, mi parla del disco uscito da pochi giorni, ci salutiamo. Io vado verso la stazione e il treno che mi riporterà a nord-ovest, lui prosegue sul lungomare in direzione sud-est ed è proprio la sua rotta: l’ultimo disco ha un titolo in swahili e a sud-est di Bari, dopo la Madonna di Capurso e dopo Taranto, sempre dritto (magari non in treno, meglio in aereo o in nave), c’è giustappunto Zanzibar.