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Il Foglio Weekend

Reportage da San Francisco, la città che tutti amano odiare

Michele Masneri

Covid, senzatetto e crisi della Silicon Valley l'hanno colpita ma non affondata. Intanto fioriscono i sobborghi

San Francisco. La notizia della mia morte è largamente esagerata, direbbe naturalmente quel gran battutaro sanfranciscano di Mark Twain. Ma lo potrebbe dire di sé la città stessa, sottoposta a narrazione terroristica da anni (gli homeless! La sporcizia! La fine della Silicon Valley!). Eccoci qui, dopo anni, solito freschetto – l’inverno più freddo della mia vita è stata quell’estate a San Francisco, già, sempre Twain -  ma gli homeless, poveracci, son sempre al loro posto, al limite spostati due isolati di qua o di là. 


La città anzi risplende. Nuovi quartieri rifulgono. North Beach adesso è molto di moda, il quartiere di Lawrence Ferlinghetti, il quartiere degli italiani pullula di masse che agognano nuove pizzerie e pinserie, mentre la libreria di Ferlinghetti Citylights festeggia i suoi settant’anni. Washington Square, il parco che cinge la chiesa di San Pietro e Paolo, è tenuto benissimo. Si girano altri quartieri, cercando l’agguato e il male di vivere, ma niente. E dire che ci si era preparati, non andandoci dal Covid, tipo Totò e Peppino a Milano, non coi colbacchi ma sospettosi, guardinghi, terrorizzati dall’essere assaliti da homeless sanguinari. Pronti a trovare una città in ginocchio. Maddeché. “Non ti avventurare dalle parti di Union Square”, mi aveva detto qualcuno con tono millenaristico. Dalle parti di Union Square, cioè la zona più commerciale, il downtown che in America è sinonimo di grattacieloni e traffico, ci sono appunto grattacieloni e traffico. Certo, i mall chiudono. Chiuderà Westfield, il più grande centro commerciale urbano su Market Street, specie di labirintico mammozzone, al piano terra cibarie teriaki e negozio Rolex, sopra qualunque marca possibile, dalle mutande H&M ai computer Microsoft.

 

A Westfield ci avventuriamo – arrivandoci con la nuova metropolitana leggera, il famoso Bart, Bay Area Rapid Transit, rinnovato e scintillante – e ci sono tanti turisti e nessun senso di morte. Nel suo ufficio al trentesimo piano di uno dei grattacieli più alti della città, Joe D’Alessandro, responsabile dell’ufficio del turismo di San Francisco, nel suo ufficio molto Mad Men che guarda a Nord verso il Golden Gate tra la nebbia, ci dice: “il fatto è che i mall stanno chiudendo in tutta America, non ci si va più, la gente compra online e ha ricominciato a fare shopping sotto casa, ma era un trend che già era cominciato prima del Covid”. E’ vero. Col Covid si sono riscoperti i sobborghi. Anche perché tutti presi dalla narrazione tossica sugli homeless, nessuno racconta mai di San Francisco l’incubo del traffico. Ingorghi micidiali in entrata e uscita, sui due ponti, a Nord quello famoso e rosso, a est il Bay Bridge meno celebre e bianco che però porta nelle più popolose Berkeley e Oakland. Puoi metterci anche un’ora ad arrivare in città dalla baia, e se vieni da sotto, dalla Silicon Valley, da Cupertino, da Mountain View, anche due. Così i meglio cervelloni che venivano strapagati per passare mezza giornata nel traffico nei famigerati “Google bus” o nelle Tesla ora lavorano da casa. I sobborghi sono il nuovo lusso. La teoria dei borghi qui è stata messa in pratica. Anche perché il borgo californiano non è il paesino italiano senza wi-fi e con l’unico negozio che apre alle 17 dopo la pausa pranzo e le vecchiette che ti guardano male. “Le persone hanno scoperto che si può stare benissimo fuoricittà”, mi dice Diana Ketcham, editrice e storica dell’architettura sanfranciscana.   

 

Dopo un’ora di macchina siamo a Palo Alto, così chiamata perché quando gli spagnoli scoprirono la California nel 1769 le truppe si radunarono qui sotto un’enorme sequoia (che ancora c'è), come racconta Malcolm Harris nell’appena uscito “Palo Alto. A History of California, Capitalism and the World” (Little, Brown): "bella Palo Alto. Il clima è temperato; le persone sono istruite, ricche, sane, innovative. Resti di una controcultura hippie sintetizzati con l'alta tecnologia e la grande finanza per produrre il cuore spiritualmente e materialmente ambizioso della Silicon Valley". Sul corso principale, University Avenue, pure in un giorno caldissimo di luglio, mentre le famigliole cinesi di “prospective” students vanno a sbirciare nell’università di Stanford, il corso pullula di sciure (Audi, Tesla, Tesla, Tesla, Audi, Audi, Rolls Royce…). Lo “zip” cioè il cap di Palo Alto è ormai il più ricco d’America, i redditi pro capite “possono competere col Qatar o col Lussemburgo”, scrive sempre Harris. Palo Alto, coi suoi garage diventati meta di pellegrinaggio, adesso è diventato un posto per abitarci. Ci aveva visto giusto Mark Zuckerberg, che sta qua in un villone boscoso con la prole asiatica. C’è anche, come in tutte le cittadine californiane, il cinemino barocchetto sotto casa (qui allo Stanford Theater, tirato su nel ‘25, oggi riacquistato, restaurato e offerto alla città dalla fondazione Packard, quelli di Hp, in questi giorni c’è una bella rassegna su Cary Grant).   

 

Come Berkeley: dove nacque la controcultura e oggi fioriscono soprattutto i ristoranti, il “gourmet ghetto” come è soprannominato l’angolo degli “stellati” è in fiore. Chez Panisse, identitario, che negli anni Settanta mentre impazzavano le Black Panther impose la cucina bio-chic ha riaperto e per trovare un tavolo servono mesi.  “Abbiamo tenuto tutto il personale a pieno stipendio per tutto il tempo del Covid, per due anni”, mi racconta la sua fondatrice Alice Waters. “Era troppo importante sostenere la comunità di lavoratori e fornitori, che spesso lo sono da generazioni”. Li si ritrova, gli esponenti di una grande famiglia biologica e goduriosa, il sabato mattina al farmers market al Pier 1 di San Francisco, a scegliere funghi, formaggi, uova, miele, in bancarelle affollatissime tutte con pos mentre i ferry caricano turisti a fare minicrociere nella baia, sperando di incontrare balene socievoli. In città la novità è che si trova posto anche in ristoranti un tempo impensabili come “Zuni”, col celebre pollo arrosto che ci mette un’ora a cuocere (equivalente West Coast del soufflé Fürstenberg di capotiana memoria) già immortalato nella serie “Looking”.  Davanti, su Market Street, accanto agli storici tram F, le auto senza conducente sfrecciano tranquille nonostante qualche protesta (qualche buontempone ha scoperto che mettendogli sul cofano dei coni stradali, quelli segnaletici, le macchine autonome, poracce, sbroccano, disorientate, e si fermano). Oltre alle auto, si aggirano robottini consegna-merce, piccoletti, sui marciapiedi, e sorgono diversi negozi di manicure robot, mentre nessuno ha ancora risolto l’annoso problema dei parrucchieri (“sono terrorizzata, ho speso 300 dollari e mi hanno rovinato la testa”, mi racconta un’amica, i parrucchieri sono carissimi e improvvisati, così si giustificano le chiome improbabili anche di dame prestigiosissime).  

 

Ma una parte della città più tecnologica d’America ha sempre avuto una sua anima luddista. E tanti sperano che torni a essere un po’ più abbordabile anche per chi non fonda startup. In molti sono stati licenziati, perché si era assunto troppo, negli anni delle vacche grasse. Tutti però sono pronti al nuovo ciclo, qui sono abituati, figuriamoci. Se la serie “Sulle strade di San Francisco” fu inventata per tranquillizzare gli americani negli anni Sessanta e Settanta di maniaci e killer, da Charles Manson a Zodiac, che qui spopolavano, oggi un po’ di crisi tecnologica non fa paura. Alla Fugazi Hall, così chiamata in onore di John N.  Fugazi, celebre emigrato ligure e poi banchiere amico e socio del più famoso Amedeo Peter Giannini, lo spettacolo “Dear San Francisco” va in scena con infinite repliche: una performance atletica che ricostruisce in coreografie la storia della città, dalla corsa all’oro al terremoto del 1906, dalla beat generation ai “techies” che vengono molto presi in giro, perché quella tecnologica è solo una parte della storia della città. “Interi settori hanno subito licenziamenti, già, ma altri, come il farmaceutico, no”, mi dice un giovane PhD a una festa in giardino nella Mission. E poi c’è tutta la new wave dell’intelligenza artificiale. Anche se “è una parola di cui tutti si riempiono la bocca”, mi dice invece Alberto Sangiovanni-Vincentelli, autorità dell’information technology all'università di Berkeley, “le più importanti realtà del settore sono qui”. Conferma Brooking Institution, non proprio una società di fricchettoni, il business dell’intelligenza artificiale fiorirà qui. “Le nove startup più rilevanti del settore, incluse OpenAI, Scale AI, Anthropic, Inflection AI, Databricks e Cerebras”, stanno qui, secondo il sito PitchBook. 

 

Certo, magari è cambiata un po’ la società, e la città, per cui non ti capiterà come negli anni d’oro dell’ultima bolla tecnologica di trovare al bar davanti a un avocado toast i nuovi startuppari miliardari (successe a me, coi fratelli Collison fondatori di Stripe, che vivevano in un sottoscala e facevano colazione con un almond milk latte nella Mission); tutti se ne stanno appunto nei sobborghi. La città è meno affollata e inflazionata. “Ma gli uffici non scendono di prezzo, perché gli affitti vengono pagati”, mi dice sempre Joe D’Alessandro. “Il problema rimane, spazi vuoti e tanta gente per strada”, mi dice invece David Thomson, insigne critico cinematografico. “E’ un paradosso terribile ma è un problema strutturale. Da sempre molti disperati arrivano a San Francisco pensando che sia una città liberal e si verrà trattati meglio, ed è così, e il clima rende possibile sopravvivere per strada”. Adesso pare che l’erede della Levi’s, grande dinastia locale, iniziata dall’immigrato bavarese Levi Strauss (che forniva tende ai cercatori d’oro ma inizialmente non ebbe fortuna con la sua strana fibra blu) si candiderà al comune l’anno prossimo, anche per sconfiggere l’annoso problema. 


Per quanto riguarda la sporcizia, a parte che venendo da Roma anche Calcutta sembrerebbe Zurigo, le strade vengono lavate abbastanza puntualmente, e il sistema di raccolta gestito da una società privata che si chiama Recology è super all’avanguardia (nel 2014 pure l’allora sindaco Ignazio Marino vi venne in pellegrinaggio).  Ma il vero problema di San Francisco pare più che altro la sua narrazione. Se accendi la Cnn o leggi qualunque giornale anche non americano pensi che la città sia un “inferno distopico invaso da criminali armati e tossicodipendenti da fentanil, le sue strade pullulino di rifiuti umani, i suoi edifici si sgretolino sotto i nostri occhi”, scrive il San Francisco Chronicle. 

 

“Io passeggio tutte le mattine a Downtown e San Francisco, le assicuro, è ancora una delle città più sicure d’America”, dice D’Alessandro. I dati confermano che c’è un problema di percezione: secondo quelli della polizia, la città è al 14esimo posto per numero di reati violenti, dopo Dallas, Seattle, New York e Phoenix. Il tasso di omicidi si è dimezzato dagli anni Duemila. Secondo Forbes, le città più pericolose d’America sono New Orleans, Detroit, St. Louis e Memphis: non San Francisco. 

 

Certo, ovvio, il problema dei senzatetto rimane drammatico, ma anche qui prima di Sf vengono nelle classifiche delle presenze New York, Los Angeles e Las Vegas (e chi ha mai sentito parlare del problema dei senzatetto a Las Vegas?). Certo, ci sono stati alcuni casi che hanno eccitato l’interesse popolare, come l’assalto a martellate al marito di Nancy Pelosi, icona sanfranciscana, a ottobre, o l’assassinio di Bob Lee, uno startupparo accoltellato a morte a Downtown ad aprile. Era il delitto perfetto per chi considera San Francisco “a failed city”, una città fallita (però poi si è scoperto che Lee conosceva il suo assassino, e delitto d’onore fu, l’accoltellatore non barbone ma fratello della fidanzata era, vabbè). La narrazione tossica sulla città è appoggiata anche da un altro svalvolato di successo che con la città (e non solo) ha sempre avuto una relazione complicata, Elon Musk. “Il crimine violento a Sf è orribile e spesso i colpevoli vengono rilasciati immediatamente”, ha tuittato (anche se lui come altri imprenditori destrorsi se n’è andato da tempo, in Texas).  

 

Ma il problema è più ampio. L’insospettabile Financial Times ha pubblicato a maggio una copertina del suo magazine col titolo “Addio, San Francisco”, con un’illustrazione in cui il Transamerica Pyramid, uno dei più famosi grattacieli della città, e il Sentinel Building simbolo di North Beach, sono diroccati e ricoperti di vegetazione. Peccato che il Sentinel, oltre a essere uno dei simboli della zona con la sua cupola  datat 1907, è il quartier generale di Francis Ford Coppola, al piano terra c’è il suo Caffè Zoetrope, sopra gli uffici della casa di produzione sua, di George Lucas e dei figli Coppola (per accedervi devi passare dal bar), e tutto pullula di attività.  Non lontano da poco sorge "Innovit", struttura del ministero degli Esteri italiano che funge da attrattore per le imprese che vogliono internazionalizzarsi e va a gonfie vele.   


Ma perché piace così tanto oggi lamentarsi di questa città? In una lunga analisi intitolata “La Character Assassination di San Francisco” apparsa a maggio sul sito Fair.org, che si occupa di  “debunking” delle notizie, il giornalista Ari Paul sottolinea come “San Francisco e la Bay Area, nell’immaginario della destra americana, sono la cosa più vicina che l’America ha a Sodoma e Gomorra. Sono identificate come l’epicentro della liberazione gay, la patria degli hippy e dei ristoranti vegani. Berkeley era un luogo primario del radicalismo studentesco e della controcultura degli anni ‘60, e continua a essere un temuto simbolo dell’attività accademica finanziata dallo stato. La ricchezza ha ripulito la baia da gran parte della sua bohème, ma la sua eredità politica nazionale sopravvive in titani dell’establishment democratico come Nancy Pelosi e Dianne Feinstein. L’industria tecnologica della zona, come Hollywood all’estremità meridionale dello Stato, è un redditizio settore capitalista che la destra, non a torto, associa al voto democratico. Quindi dipingere San Francisco come un esempio di governance fallita significa, nella narrativa di destra, dimostrare che l’esperimento urbano progressista è ampiamente fallito”. 


Il “framing” di San Francisco come “failed city”, città fallita, dice ancora la ricerca, è partito sui media di destra ma poi è risultato talmente irresistibile da rimbalzare su tutti gli altri. “La Cnn, il New York Times e l’Atlantic, hanno abboccato a questa mitologia”. E non solo loro. Secondo Paul, “la narrazione apocalittica su San Francisco è da un po’ che è in costruzione. Vengono presi singoli casi – come la chiusura di un singolo punto vendita di Whole Foods - per forgiare una storia complessiva. “Se prendiamo i morti per droga, il West Virginia ha tre volte il tasso della California, ma nessuno ne parla mai”. Insomma parlare male di San Francisco funziona sempre, fa fino, conferma le credenze popolari più terra terra, ne fa una specie di Capalbio senza le startup, un posto che tanti credono di conoscere, su cui anche chi non è mai stato può sempre dire la sua. 


Intanto il turismo esplode: più 29 per cento nel 2022 rispetto allo scorso anno (anche dall’Italia grazie ai nuovi collegamenti diretti United e Ita), la disoccupazione è stabile al 2,9 per cento e la città e la sua Bay Area rappresentano “la zona con la più alta crescita economica in America, più 4,8 per cento di Pil nel 2022 sull’anno precedente”. Un po’ Capalbio un po’ Milano, San Francisco ispira comunque sentimenti forti. E’ la città che oggi tutti amano odiare. A differenza di Milano, qui la nebbia, contro ogni climate change, resiste, ed è parte del suo fascino. Questa è l’unica cosa su cui sono tutti d’accordo. 

  • Michele Masneri
  • Michele Masneri (1974) è nato a Brescia e vive prevalentemente a Roma. Scrive di cultura, design e altro sul Foglio. I suoi ultimi libri sono “Steve Jobs non abita più qui”, una raccolta di reportage dalla Silicon Valley e dalla California nell’èra Trump (Adelphi, 2020) e il saggio-biografia “Stile Alberto”, attorno alla figura di Alberto Arbasino, per Quodlibet (2021).