rimozione storica
La ruota della Cancel Culture. La rimozione delle statue è un'arte antica, ma l'iconoclastia di oggi è diversa
È legittimo mettere in discussione monumenti storici, ma è il meccanismo che c'è dietro oggi ad essere sterile: distrugge senza proporre nuovi modelli
Da sempre i monumenti sono stati oggetto di contesa e negoziazione, terreno di riscrittura del passato e riformulazione di universi valoriali. Tranne poche eccezioni, essi sono lo specchio dei valori culturali e politici delle élites che scelgono di erigerli, espressione del punto di vista di quei gruppi che proprio intorno a quelle statue intendono costruire la narrazione di un passato inscalfibile. A ben vedere, la stessa decisione di erigere un monumento è un atto di riscrittura del passato, un atto di cancel culture che nel momento stesso in cui sceglie di imporre alla memoria collettiva la celebrazione di un eroe o di un simbolo, esclude da quella stessa memoria tanti altri eroi o anti-eroi meno funzionali alla narrazione proposta. E’ legittimo, dunque, direi persino fisiologico, che quegli stessi monumenti vengano messi in discussione, persino sfidati e demoliti da chi non crede più nei valori in nome dei quali sono stati eretti, da chi a distanza di pochi o di molti anni crede in un passato (e in un futuro) diverso da quello immaginato dai propri predecessori.
La cancel culture, insomma, non è solo un terreno di scontro tra la cultura occidentale e i popoli colonizzati. Essa è parte integrante di un processo di ridefinizione del passato che la cultura occidentale ha sempre praticato. L’ennesima tessera di quella costante rinegoziazione del canone storico e letterario attraverso la quale la nostra civiltà stabilisce quali figure della Storia è giusto e opportuno ammirare e celebrare, oppure quali autori del passato occorre studiare per meglio onorare la nostra tradizione e meglio comprendere il nostro presente. C’è chi, seguendo questo ragionamento, si è spinto fino a sostenere, legittimamente (e provocatoriamente), che l’attitudine dei sostenitori della cancel culture non sia altro che un modo originale di onorare la Storia, un’attitudine speculare all’approccio filologico al passato proprio della tradizione umanistica. I distruttori delle statue, insomma, come i pazienti sostenitori del rammendo filologico della storia: accomunati, si capisce, dalla predisposizione a riformulare e mettere in discussione il passato sulla base di nuove evidenze e sensibilità. Due libri, usciti recentemente in Italia e in Francia, riflettono su questi temi con sguardo nuovo. Si tratta de I fastidi della storia. Quale America raccontano i monumenti (Il Mulino) dello storico degli Stati Uniti Arnaldo Testi, dedicato per l’appunto a ricostruire la storia dei monumenti americani a partire dalla constatazione che essi hanno da sempre, almeno da quando esistono gli Stati Uniti d’America, suscitato polemiche e controversie non di rado sfociate in rimozioni, rifacimenti, sostituzioni, occultamenti. E di Que faire du passé? Réflexions sur la cancel culture (Fayard) di Pierre Vesperini, un filologo classico che ragiona con sguardo appassionato e allo stesso tempo distaccato sui temi della furia iconoclasta e della cancellazione dei testi classici dai programmi universitari delle università anglosassoni.
L’atto fondativo degli Stati Uniti d’America fu proprio l’abbattimento di una celebre statua, quella del re d’Inghilterra Giorgio III, eretta a New York nel 1770 su richiesta degli stessi coloni americani: il 9 luglio 1776, infatti, una folla di rivoluzionari festanti distrusse il primo monumento equestre dedicato nel continente nordamericano al sovrano britannico, celebrando con quel gesto iconoclasta la nascita di una nuova nazione. Insomma, gli stessi padri fondatori, ora accusati di razzismo e colonialismo dai più recenti iconoclasti, furono i primi protagonisti di una cancel culture destinata a lungo corso. E poi c’è la storia dei due gruppi marmorei eretti alla metà dell’Ottocento, Discovery of America dello scultore napoletano Luigi Persico, raffigurante Cristoforo Colombo in posa muscolare con un globo terrestre tenuto trionfalmente tra le mani e una donna nativa americana, seminuda, vulnerabile, intimorita, e Rescue, opera di Horatio Greenough, una raffigurazione dello scontro violento tra colonizzatori e nativi, con un indiano che guarda minaccioso la famiglia del colono che tuttavia, dall’alto della sua stazza, lo domina proteggendo i congiunti. Sono monumenti che riflettevano “il clima di baldanzosa espansione verso ovest, di sottomissione delle nazioni indiane”, un clima che evidentemente, un secolo dopo, le autorità politiche americane non solo non condividevano ma guardavano con imbarazzo. Fu così che i due monumenti, solennemente collocati a suo tempo ai due lati della grande scalinata esterne del Campidoglio, furono silenziosamente rimossi dai membri del Congresso. Già, perché approfittando di un radicale restauro cui fu sottoposto il Campidoglio, i due gruppi marmorei furono sottratti alla pubblica vista e accuratamente riposti nei depositi, senza che poi a nessuno venisse in mente di rimetterli al loro posto una volta terminati i lavori di restauro: sin dall’antichità l’occultamento silenzioso, senza scalpore, di opere percepite come potenziali fonti di polemiche è stato un espediente senz’altro più efficace della pubblica rimozione, destinata invece, proprio in ragione della sua pubblicità, a suscitare inevitabilmente ulteriori controversie. Una cancel culture di stato, dunque, un Congresso americano che si fa interprete di un efficace soft iconoclasm, per usare una definizione dello storico dell’arte Alexander Nagel, autore di un gran bel libro sulle controversie artistiche nel Cinquecento pubblicato più di dieci anni fa (The Controversy of Art).
Le generazioni passano, lo spirito del tempo muta, il passato viene periodicamente reinterpretato e riscritto: è il ciclo naturale della vita (e della Storia). E tuttavia, che bisogno c’è di lasciarsi possedere dalla furia iconoclasta? Una scelta più lungimirante potrebbe essere quella di affiancare nuove statue ai monumenti che si intende contestare. Piuttosto che cancellare l’interpretazione della Storia simboleggiata dall’odiata statua, più semplice sarebbe aggiungere a quella un’altra nuova interpretazione, erigere cioè un nuovo monumento capace di riassumere e simboleggiare valori opposti, comunque diversi, rispetto a quelli che si intende negare. Lo teorizzò già nel 1992 James E. Young, professore di inglese e Jewish Studies dell’University of Massachusetts. E molti hanno raccolto nei decenni successivi la sua idea di contromonumentalismo o antimonumentalismo. Lo hanno fatto concettualizzando nuovi monumenti o riscrivendo i vecchi. Ecco dunque gruppi marmorei che abbandonano la verticalità del disegno scegliendo una meno gerarchica forma orizzontale, monumenti rovesciati che al culto della personalità collocata sopra al piedistallo contrappongono il culto delle tante anonime donne e uomini che quel piedistallo sorreggono dal basso con la forza delle loro spalle. Oppure ancora vecchie stèle di pietra, già raffiguranti eventi o personalità celebri del passato, letteralmente inscatolate in box di plexiglass con superfici a specchio tese a rimandare ai passanti l’immagine della loro quotidianità, come a ricordare che proprio loro, i più anonimi tra i cittadini, sono i veri protagonisti della Storia, non quegli eroi o finti eroi che scegliamo di elevare a idoli della nostra memoria storica. Scelte artistiche fantasiose, non c’è dubbio, che propongono un altro modo di rileggere il passato, un modo più raffinato e meno distruttivo di rovesciare la Storia. Scelte però che non risolvono il problema.
Per quanti sforzi si possano compiere per contestualizzare la furia iconoclasta che anima la cancel culture americana, per interpretarla come un piccolo tassello di un processo secolare, se non millenario, tipico della storia occidentale, per quanto si cerchi di trovare soluzioni alternative e indolori, è difficile non vedere la natura perversa di un meccanismo distruttivo che tende per sua natura a riprodursi all’infinito, destinato perciò a ritorcersi anche contro le stesse minoranze che oggi contestano i simboli dell’occidente schiavista, razzista e colonizzatore. E’ già successo con lo Stonewall National Monument, il più importante memoriale che onora il movimento per l’uguaglianza Lgbt, collocato a Manhattan, nel West Village. Il gruppo monumentale include anche il Gay Liberation Monument, un lavoro di George Segal, uno dei più noti esponenti della Pop Art degli anni Sessanta, raffigurante due coppie di persone in bronzo dipinto di bianco, di dimensioni naturali: una coppia di uomini in piedi, l’una con la mano sulla spalla dell’altro, e una coppia di donne seduta su una panchina, una con la mano appoggiata sulla coscia dell’altra. Negli anni ottanta del secolo scorso il monumento fu preso a martellate, coperto di vernice nera e scritte insultanti da parte di chi non tollerava la semplice raffigurazione di un rapporto sentimentale tra coppie dello stesso sesso, collegando in modo arbitrario e tendenzioso quel simbolo dell’amore omosessuale alla crisi dell’Aids che infuriava in tutto il paese. Nel 2015 quelle stesse figure sono state prese d’assalto da due attiviste queer che ne mettevano in discussione la rappresentatività dal punto di vista del movimento Lgbtq. Era davvero il caso che a disegnare il Gay Liberation Monument fosse un’artista non gay e non scelto dalla comunità stessa? E poi, perché raffigurare solo persone bianche? Perché così middle class? Il monumento insomma rappresentava solo l’immagine più conservatrice del movimento. Risultato: facce e mani dei maschi bianchi dipinti di marrone, statue vestite in drag con parrucche e reggiseni, cartelli di protesta che invocavano la presenza di donne trans, nere, e latine.
La logica distruttiva della cancel culture, in altre parole, tende a replicarsi quasi meccanicamente. Se accettassimo l’idea che sia legittimo abbattere la statua di Thomas Jefferson in ragione del fatto che possedeva degli schiavi o perché, nonostante fosse consapevole del problema dello schiavismo, non fece nulla per risolverlo, dovremmo per questo motivo cancellare ogni traccia memoriale della grande maggioranza dei leader della Rivoluzione americana, a cominciare da Washington e Madison, provoca Pierre Vesperini; dovremmo ribattezzare molte delle capitali americane e, forse, arrivare a mettere in discussione l’esistenza stessa degli Stati Uniti d’America fondati, come sono, su una diffusa cultura schiavista e razzista. Il fatto è che i monumenti non celebrano il carattere o le inclinazioni delle personalità raffigurate, non parlano delle loro virtù né tantomeno dei loro vizi o delle loro debolezze. Essi raccontano piuttosto delle res gestae, di ciò che hanno compiuto nella loro qualità di leader politici, condottieri militari, etc. Nel caso specifico di Thomas Jefferson i monumenti a lui dedicati ricordano la Dichiarazione d’indipendenza, una dichiarazione che Jefferson tanto contribuì a formulare e della quale tutti noi occidentali siamo in qualche modo debitori. Quello e non altro celebra il monumento. Così come la statua di Churchill a Londra, che tanti hanno chiesto di rimuovere in nome delle indubbie propensioni razziste del leader britannico, ricorda il ruolo che questi ebbe durante la Seconda guerra mondiale, un ruolo fondamentale a difesa dei valori della democrazia occidentale sfidata dal nazismo senza il quale probabilmente saremmo qui a raccontare una storia molto diversa. Ritirare la sua statua, scrive Vesperini, significherebbe annullare questo esempio di lucidità e coraggio, ma soprattutto significherebbe non distinguere più tra lui e Hitler.
La cancel culture è l’espressione più profonda, e in un certo senso più estrema, della cultura puritana di cui l’America è intrisa. Una cultura – diciamo pure un’ideologia – che divide il mondo e la Storia in puri e impuri, eletti e riprovati. Un universo dominato dall’ossessione del peccato e dalla ricerca di redenzione. Un mondo unilaterale, senza dialettica né confronto. Un immenso safe space, direbbero gli anglosassoni, nel quale solo i buoni sono chiamati a esprimersi, e dove naturalmente solo i buoni e i puri possono vedere la loro memoria onorata nello spazio pubblico. Ma chi sarebbero i buoni in questo utopistico spazio sicuro? Seguendo la logica puritana, e portando alle estreme conseguenze la sua ratio, nessuno o quasi si salverebbe dall’onta del peccato. Non gli eroi della lotta anticoloniale come Toussaint Louverture, il leader dell’indipendenza haitiana, anch’egli possessore di una dozzina di schiavi cui imponeva di lavorare nelle sue piantagioni di caffè. Non certo il leader del pacifismo mondiale Mahatma Gandhi che, ormai settuagenario, dormiva nudo accanto alla pronipote adolescente per mettere alla prova la sua castità, così sosteneva, e da giovane avvocato nell’Africa del sud pubblicava articoli razzisti (in Ghana hanno da poco rimosso una sua statua per questa ragione), ma neppure Ernesto Guevara, la cui predilezione per le esecuzioni sommarie non dovrebbe, a occhio, superare il vaglio della censura puritana, né il leader venezuelano César Chávez, di cui Biden ha esposto un busto nella sala ovale, che dirigeva in modo personalistico e autocratico il suo sindacato, United Farm Workers, espellendo chiunque fosse in disaccordo con lui. Nessuno si salverebbe: non solo in ragione della debolezza morale della natura umana ma perché tutti i grandi uomini sono pieni di grandi colpe o errori. E perché la Storia, come gli uomini, è profondamente impura: è un terreno melmoso nel quale le luci si alternano alle ombre, in cui lo stato moderno, solo per fare un esempio, lo stato del quale le nostre nazioni sono eredi dirette, è frutto di violenza, massacri, menzogne, soppressioni di culture, dislocamenti forzati di popolazioni. Semplicemente, non può esistere una Storia senza il male, una Storia dalla quale sia espunto tutto ciò che oggi ci fa vergognare del nostro passato, una Storia senza gli anticorpi che quel passato oggi disprezzabile e disprezzato ha generato.
generazione ansiosa