La degradazione di Alfred Dreyfus, Henri Meyer 

in mostra al meeting

Cosa direbbe Charles Péguy dell'oscenità delle carceri italiane? Intervista possibile

Ubaldo Casotto

I numeri delle ingiuste detenzioni nel nostro paese sono intollerabili. Tornare alle parole dello scrittore che si batté per Dreyfus, la giustizia e la libertà

“La grande inquietudine. Péguy e la città armoniosa” è il titolo della mostra promossa dalla Fondazione Costruiamo il futuro e dalla Fondazione Censis che sarà esposta al Meeting di Rimini di quest’anno (dal 20 al 25 agosto) in occasione del 150° anniversario della nascita dello scrittore francese. Dedicata al tema della società, la mostra (il cui catalogo è pubblicato dalla LEV) è realizzata in sei giganteschi “Cahiers” sporgenti da due lunghe librerie (i “Cahiers de la Quinzaine” di cui Péguy fu editore) curati da Ubaldo Casotto in collaborazione con l’architetto Martina Valcamonica e la disegnatrice Nausicaa Dalla Torre.


 

Trentamiladuecentotrentuno è un numero che mi ha fatto inorridire. Corrisponde ad altrettante persone incarcerate ingiustamente in Italia negli ultimi trent’anni. Proiezioni? Sondaggi? No, dati ufficiali. La Corte dei conti, nel triennio 2017-2019, certifica che si è verificato un aumento della spesa a carico dello stato per il pagamento degli indennizzi per errori giudiziari e ingiusta detenzione, passando da 38,3 a 48,7 milioni di euro. Tale spesa è poi diminuita nel 2020 (43,9 milioni di euro). I casi di indennizzo, cioè le persone incarcerate ingiustamente, sono stati 1.023 nel 2017, 913 nel 2018, 1.020 nel 2019. Il dato complessivo calcolato dalle associazioni che si occupano di carceri è di 30.231 ingiuste detenzioni dal 1991 al 2021, circa mille l’anno. Roba da assaltare la Bastiglia italiana, che però non sarebbe trovata vuota come quella francese il 14 luglio 1789 (c’erano solo sette detenuti), ma piena all’inverosimile: 56.605 detenuti a fronte di 51.261 posti disponibili. Ci sono 110,4 persone in carcere ogni 100 posti disponibili. Il 45 per cento delle carceri italiane (85 su 189) ha addirittura oltre 140 detenuti ogni 100 posti disponibili (e la legge prevederebbe un minimo di 9 mq a detenuto). Il 26,2 per cento delle persone presenti negli istituti penitenziari (14.833 detenuti) è in carcere senza una condanna definitiva. Il 13,9 per cento (7.896 detenuti) è in attesa del primo grado di giudizio.

 

Mi sono chiesto che cosa penserebbe di questa situazione Charles Péguy, il grande scrittore francese vissuto tra Ottocento e Novecento che inorridì per molto meno, per una sola condanna, quella di Alfred Dreyfus, ebreo, ufficiale dell’esercito francese ingiustamente condannato per tradimento. Nella battaglia per la revisione del processo e la liberazione di Dreyfus, Péguy si lanciò anima e corpo, per anni, litigando con tutti: i suoi amici socialisti indifferenti e i cattolici monarchici colpevolisti. Divenuto cattolico non ritrattò una parola, anzi. Dato che c’ero, invece di tenermi il dubbio ho chiesto direttamente a lui cosa ne pensasse, in un’intervista postuma immaginaria, ma non tanto, dato che le risposte sono tutte rigorosamente tratte dai suoi scritti. Possiamo definire Péguy un garantista ante-litteram. Per lui il primo dovere della giustizia era innanzitutto quello di non incarcerare gli innocenti.
Ecco quello che mi ha detto.


Monsieur Péguy, Alfred Dreyfus, capitano dello Stato maggiore dell’esercito francese, ebreo, il 22 dicembre 1894 fu condannato da un tribunale militare con l’accusa, poi rivelatasi falsa, di alto tradimento. Il caso Dreyfus divise la Francia. Lei si schierò subito in difesa dell’ufficiale, impegnandosi in una battaglia giornalistica, giudiziaria e politica che culminò nell’annullamento della sentenza. Si fece molti nemici, si scontrò sia con i cattolici monarchici che erano schierati sul fronte della colpevolezza, sia con i suoi compagni socialisti. Accusò entrambi di aver cavalcato l’affaire Dreyfus per interesse politico e per calcolo di potere e non per il fatto in sé: un caso di intollerabile ingiustizia.

Il caso Dreyfus è un caso di giustizia, di libertà, di patriottismo. Dreyfus è il classico escluso, dalla società. Una società che esclude coscientemente qualcuno non ha titoli per definirsi tale.

Lei accusava in particolar modo i socialisti che all’inizio considerarono il caso Dreyfus una questione interna alla borghesia, uno scontro che non li riguardava.
I socialisti devono marciare per tutte le giustizie che si devono realizzare, non devono considerare a cosa servono le giustizie, perché essi o sono disinteressati o non sono.

Voi dreyfusardi vi siete battuti a morte per lui. La causa lo meritava? 

Era l’inevitabile conseguenza dell’impossibilità organica ad acconsentire all’ingiustizia, a rassegnarsi a ogni cosa che non vada.

Oggi l’idea di giustizia che va per la maggiore la fa quasi sempre coincidere con la ricerca del colpevole a tutti i costi. Per voi è innanzitutto il riconoscimento dell’innocenza di un uomo condannato ingiustamente.

La questione non consisteva affatto nel sapere se Dreyfus fosse innocente o colpevole. Ma nel sapere se si avrebbe avuto o no il coraggio di dichiararlo, riconoscerlo, innocente.

Perché dice che era una questione di patriottismo? Lei pensa che la giustizia negata sia la rovina di un paese?

Quello che noi volevamo era che la Francia non venisse a trovarsi in stato di peccato mortale. La Francia disonorata davanti al mondo, davanti alla storia.

Il tema della giustizia sarà per lei centrale anche dopo il ritorno alla fede. Non rinnegherà mai la sua militanza dreyfusarda. 

Dreyfus non era l’illusione della nostra giovinezza. Di tutto quello che abbiamo fatto dobbiamo essere fieri. Non c’è una parola che cambierei, non abbiamo niente da sconfessare.

Era una battaglia politica, per sua natura una cosa relativa, è lecito cambiare idea.

Il nostro dreyfusismo era uno slancio religioso, era di essenza cristiana, di origine cristiana, veniva da un ceppo cristiano.

 Lei dice insomma che la giustizia è, dovrebbe essere, il fine della politica. E che la politica non ha in sé la sua origine, c’è un ideale che la precede e la fonda. Lei parla di “mistica”. Giaime Rodano, un comunista che ha tradotto in italiano molte sue opere, la spiega così: “Mistica, cioè la politica innervata da una costante e coerente mobilitazione ideale”.

Il caso Dreyfus ci fa capire che tutto nasce come mistica e tutto finisce come politica. Ogni partito vive della sua mistica e muore della sua politica. Che cosa intendere per mistica e che cosa per politica, quid est mystycum, et quid politicum? Mistica repubblicana era quando si moriva per la repubblica, politica repubblicana è ora che ci si vive sopra. Che tanti uomini abbiano vissuto e sofferto per la repubblica, che abbiano tanto creduto in essa, che tanti siano morti per essa, che abbiano spesso accettato per essa prove supreme, ecco quello che conta, ecco quello che interessa, ecco quello che vale, ecco ciò che fonda, ecco ciò che crea la legittimità di un regime. Questo consacra, sanziona una mistica. Molti hanno sacrificato per lui (Dreyfus) la carriera, il pane, la vita.

E’ per questo che lei trova insopportabile quello che oggi definiremmo l’uso politico della giustizia? Lei non risparmia né destra né sinistra, ma ce l’ha soprattutto con i socialisti. 

Essi volevano nello stesso tempo tradire la mistica e sfruttarla. Il doppio gioco. Servirsi insieme della loro politica e della nostra mistica. Fare della politica e chiamarla politica sta bene. Fare della politica e chiamarla mistica, prendere la mistica per farne politica è un inganno imperdonabile. Rubare ai poveri è rubare due volte.

Ha qualcosa da aggiungere?

L’inamovibilità dei magistrati non è la sola forma né la sola garanzia della libertà, dell’indipendenza.

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