Comunità
Dietro le corna, la vera vicenda mediatica dell'estate italiana
Altro che sesso e amore: l’affaire Segre-Seymandi è il triste specchio di un’insopportabile sudditanza economica delle donne in Italia
In quella che va configurandosi come la vera vicenda mediatica dell’estate italiana, un passo oltre il viaggetto di agnizione ferroviaria di Alain Elkann e di quel suo articolo grossier sulla gioventù che, incredibile, schiamazza e non veste di lino, c’è una domanda che nessuno si è posto e che invece non solo spiega tutto, ma che giustifica anche le prime dichiarazioni fatte dai due protagonisti dopo la diffusione del video in cui lui screditava lei che forse aveva screditato lui davanti a una folla di amici imbarazzati. La domanda è questa: se Cristina Seymandi, invece di essere la figlia pur molto arrembante di una buona famiglia borghese, fosse stata l’erede di una schiatta della Torino collinare del genere frequentato finora da Massimo Segre, questo si sarebbe permesso di denunciarne le presunte infedeltà in pubblico? Se, per intenderci, Seymandi si fosse chiamata Agnelli, o Camerana, o Re Rebaudengo, questo attempato Alfredo Germont si sarebbe permesso di denunciarne nel corso di una festa eventuali scorrettezze sessuali e affettive, “qui testimon vi chiamo”? Chiunque conosce la risposta.
A dispetto della lettera aperta alla Stampa che qualche giorno fa Segre, uno dei finanziatori degli indimenticati furbetti del quartierino con Banca Intermobiliare, ha scritto per spiegare quella che a suo dire sarebbe stata l’esigenza di rendere pubblici i motivi della rottura del fidanzamento, la sua necessità di “tutelarsi” dalle abilità affabulatorie di Seymandi, addirittura “l’unico modo per evitare narrazioni distorte prima che potesse raccontare chissà che cosa su di me” – chissà che cosa, poi dice che Torino non è una città provinciale – è infatti questa la vera motivazione della querelle. Il potere. Non il sesso, non l’amore se non, verrebbe da dire, in misura secondaria, ma l’orgoglio di un potente che si sente tradito, ferito nell’onore, un Mimì metallurgico con piscina che offre vacanze “tutto pagato”. Lo scandalo nel quale l’Italia vede una pruriginosa faccenda di corna, e che qualche candida anima adolescenziale addirittura giustifica, è lo sgarro di un inferiore, per status e disponibilità economica, che dunque merita di essere punito con la gogna pubblica.
Questo punto emerge cristallino, palese, in un passaggio del discorso di Segre che non vi è nemmeno bisogno di ascoltare nell’imbarazzante video, perché si trova trascritto in un’infinità di siti: “Ti confermo la mia stima lavorativa, se vorrai… potremo valutare come proseguire una collaborazione professionale”, e da una successiva dichiarazione di lei: “Continuerò a lavorare con Massimo. Non posso permettermi di perdere il lavoro”. Seymandi, già collaboratrice non troppo popolare dell’ex sindaca Chiara Appendino, risulta infatti e invece amministratrice molto oculata della Savio Thesan, azienda produttrice di sistemi di ventilazione, di cui ha acquisito nel 2021 la quota di maggioranza da Giulio Segre, uno dei figli del banchiere, e che ha salvato dal fallimento e dal conseguente licenziamento di 153 dipendenti con un’iniezione di 2 milioni di euro ottenuti grazie a un bando di Finpiemonte. E’ dunque molto possibile che fra l’abile quarantenne e i figli di Segre, per dichiarazione dello stesso banchiere all’origine e alla guida della clamorosa rottura, non corra buon sangue e nessuna reciproca stima, ma che Segre senior voglia continuare ad avvalersi delle capacità gestionali di lei (i dipendenti della Savio Thesan si sono già detti molto preoccupati dell’evolversi del caso), così come è del tutto logico che Seymandi, che nell’impresa ha messo ogni impegno economico ed entratura politica, non possa davvero concedersi il lusso di sbattere la porta e magari cedere le quote dell’azienda che ha contribuito a risanare.
Ma anche se la situazione dovesse procedere nel solco dell’attuale status quo, si tratterebbe comunque di un rapporto di potere sperequato, che vedrebbe una donna offesa e messa alla berlina continuare a frequentare sine die per ragioni economiche il suo offensore: in pratica un ergastolo sociale, fine pena mai, che il banchiere deve aver attentamente valutato perché, in caso contrario, nella sua mediocre e ormai celebre prolusione di uomo amareggiato, avrebbe inserito anche l’offerta di riacquisto delle quote, segno della separazione definitiva. Invece Segre non vuole, più probabilmente non può, privarsi dei servigi di Seymandi, ben sapendo che lei è costretta a fare altrettanto, e dunque eccoli, avvolti dal loro personalissimo e infernale vortice di ricatti e di interessi, nel quale l’amore non gioca parte alcuna. Niente soldi gettati in faccia, “qui pagata io l’ho”, perché entrambi intendono tenerseli ben stretti.
Resta la storia dello sdegno, che nessun papà Germont è qui per rimarcare, la celebre tirata dello “sprezzo” di cui si rende “degno” chi “pur nell’ira la donna offende”, perché la cronaca quotidiana è costellata di omicidi di donne per mano di ex compagni che fino all’altro ieri i media titolavano come “dramma della gelosia” quasi fosse un’assoluzione, dunque che volete che sia una gogna in mondovisione social, giusto un attimo di divertimento per una folla di abbrutiti. La storia della letteratura, ma anche e purtroppo la cronaca di oggi, è costellata di manchevolezze femminili punite con l’umiliazione pubblica, infedeltà anche presunte come nella “Griselda”, racconto medievale elaborato da Boccaccio e da Chaucer come esempio di costanza femminile messa alla prova attraverso le più indecenti crudeltà, che Antonio Vivaldi mise in musica nel 1735 e che lo scorso anno Gianluca Falaschi si domandò a lungo se portare in scena o meno al Teatro La Fenice nel timore che l’ala femminista più intransigente non gradisse la riproposizione di una figura così passivamente assoggettata al volere maschile. Seymandi è di certo meno paziente della povera Griselda a cui vengono sottratti anche i figli in tenera età e la più giovane spacciata per sposa promessa del padre, non è di certo costretta a lavorare gratis alla cura spiccia del palazzo del re, ma la linea di comportamento di Segre è identica a quella del re della Tessaglia e cioè l’umiliazione pubblica costante, la lettera scarlatta, la marchiatura a fuoco, un palcoscenico di ignominia eterna. La dimostrazione pubblica maschile del proprio dominio, sociale e – ribadisco perché è il punto centrale della questione – economico. Che nessuno in Italia abbia colto questo particolare è spiegabile solo con il dato emergenziale di un’occupazione femminile fra le più basse in Europa: secondo gli ultimi dati, diffusi lo scorso aprile da Confcommercio e certificati con un’indagine parallela anche da Bankitalia, il tasso di occupazione delle donne nel nostro paese è infatti del 43,6 per cento contro una media europea del 54,1 per cento.
Al sud il dato è addirittura tragico: solo il 29,9 per cento delle donne ha un’occupazione, contro il 52 per cento del nord. Questo fa di una buona metà delle donne italiane, in alcune zone addirittura dei due terzi, delle predestinate potenziali a ogni genere di violenza. Delle succubi in nuce, perché il controllo economico è il primo segno della dominazione: chi non ha soldi non può fuggire, chi non sa come mantenersi è costretta a subire la volontà di un altro. Dovrebbe essere il primo insegnamento di un padre a una figlia, sappiamo da un buon numero di analisi e sondaggi che in Italia non lo è quasi mai, anzi che il “regalino quando la mia principessa me lo chiede” sia ancora prassi comune fra i padri che invece ai figli maschi insegnano quasi da subito a gestire la “paghetta”. L’ultimo rapporto D.i.Re (Donne in Rete), basato sui dati raccolti nei centri antiviolenza, segnala che chi ricorre ai centri di accoglienza ha subito violenza psicologica nel 77 per cento dei casi, violenza fisica nel sessanta per cento, e violenza economica nel 33 per cento. Come puntualizzano dal Museo del Risparmio, istituzione torinese del gruppo Intesa Sanpaolo che diffonde cultura economica nel paese e con il quale, anni fa, sviluppai un progetto di educazione finanziaria delle future spose scoprendo che perfino un buon numero di laureate (la laurea, secondo recenti dati dell’Ocse, riduce il rischio di violenza economica quasi del 44 per cento) riteneva perfettamente accettabile che fosse il marito a occuparsi della gestione dei beni comuni, il 33 per cento delle donne che cerca aiuto è senza reddito e meno del 40 per cento ha un reddito sicuro.
Questi dati, sottolineano dall’ufficio studi dell’istituzione guidata da Giovanna Paladino, evidenziano come ancora troppe donne dipendano da qualcun altro per vivere e che molto spesso “non si rendano nemmeno conto di delegare in questo modo la loro libertà a qualcun altro”. Il nocciolo della violenza economica sta proprio in questo: priva le donne della libertà. Le indagini condotte negli ultimi cinque anni dal Museo del Risparmio sul rapporto tra mondo femminile e denaro mettono in luce che ben il sessanta per cento delle donne delega, volontariamente, la gestione economica al partner e il restante quaranta per cento gestisce, da sola, unicamente le spese quotidiane: fra l’altro, in molti casi lo fa convinta di gestire l’andamento della casa quando in realtà sovrintende giusto alla cottura del minestrone. Le donne esprimono anche un minor interesse in ambito finanziario e solo la metà di loro si dichiara abbastanza o molto competente, rispetto al sessantotto per cento degli uomini.
Da questo divario di conoscenza derivano: una minore capacità di risparmio, che è vissuto come pratica residuale più che come pianificazione, una minore propensione all’investimento (solo il 45 per cento delle donne risparmia, e prevalentemente in piccola parte), oltre alla stravagante idea che il possesso di denaro sia non solo gratificante, ma in primo luogo legato alle opportunità di consumo personale: in parole povere, lo shopping, la borsetta nuova, il vestito griffato. Per le donne italiane, il risparmio equivale a trovarsi delle belle monete sonanti in tasca, come la rezdora dei racconti di Guareschi, e a una carta di credito illimitata, insomma una cosa deprimente.
Dunque e per sintetizzare: in un paese come il nostro, dove il 21 per cento delle donne non possiede un conto corrente personale, contro il cinque per cento degli uomini, e il 9,1 per cento nemmeno la firma sul conto familiare, insomma dove viviamo una situazione di cultura finanziaria terzomondista, non è dunque così stravagante che nell’affaire Segre-Seymandi l’interesse del pubblico si concentri sulle presunte corna, cioè sulla S dell’argomento “sesso”, quando è evidente che, nonostante i depistaggi, la S che sottende a tutto il discorsetto sia quella, sempre interessante ma per l’Italia in tutta evidenza un po’ meno, dei soldi. Il sunto, il succo, il summary delle interviste rilasciate da Seymandi ci dicono che i suoi non può semplicemente permettersi di perderli, e il testo dell’abbandono di Segre che non può farlo neanche lui. Che poi qualcuno “trovi un po’ pallida” la bella signora bionda, come nel racconto di adulterio estivo di Fruttero&Lucentini, nessuno ha capito l’Italia più di loro, è davvero una faccenda lasciata al godimento popolare, cioè è del tutto marginale.