Estate con Ester
Altro che social. Al processo Depp Vs Heard ha vinto il mestiere
Nel processo tra le due star, la farsa non era per noi, era per quei sette spettatori con potere di voto: la giuria. Depp lo ha capito e ha scelto la parte: ha saputo fare pena senza fare pena. Riguardare il confronto in aula nel documentario di Alice Cooper per capirlo anche noi
Si prosegue nella ricerca del recente, unico obiettivo del consorzio umano: il massimo della vita comoda. La moderna scioperataggine raggiunge il suo apice con i documentari. Un’ora e mezza, corso accelerato di tutto, dalle aziende farmaceutiche agli omicidi, e ti fai l’idea di avere l’idea di qualcosa. Sono bignami per fraccomodi ancora più fraccomodi. Ti metti su Netflix, e approfondisci lì. Presto si prenderanno anche le lauree a puntate, davanti alla televisione, l’importante è che la fruizione sia passiva e ci sia il divano sotto il nostro pesissimo culo. Tra i vari documentari orientativi dell’opinione, c’è quello uscito da poco sul processo Depp/Heard dello scorso anno, concluso con la vittoria del partigiano-per-sé Johnny. Di che si parla? Ovvio. Di come avremmo fatto un altro gradino verso lo scantinato del degrado della società civile. Nella specie: siamo nell’èra della giustizia sommaria sui social. È come la pensavo anche io l’anno scorso, prima di rivedere meglio, pensarci meglio, mettere insieme i pezzi della stessa storia, ma meglio.
Depp versus Heard cerca di pesare una variabile impazzita: il ruolo svolto dai social media nel processo, sedicenti domande scomode su come il traffico online fuori dall’aula possa aver influenzato la sentenza. La regista, Alice Cooper, è prontissima con le mani avanti. Sostiene che l’intenzione del documentario non sia quella di prendere una posizione, ma di inserire attentamente tutte le informazioni in un’unica storia e considerare come si sono formate certe opinioni. La propaganda della neutralità del documentario l’abbiamo già sentita, peccato che siamo spettatori fessi ma fino a un certo punto: il binario narrativo, a meno di non dormirci, su quel divano, non lo puoi nascondere con due foglie secche. I social comandano i processi! Colpa loro! Si può orientare un verdetto! (non è proprio così, almeno non sempre, non sistematicamente, altrimenti col #MeToo avremmo avuto le galere piene fino ai solai di maschi maiali).
Cosa ha deciso quel processo va chiesto a un buon penalista. Un avvocato che ammetta la verità sugli avvocati: spessissimo serviamo a poco. Quasi a niente. Quelle arringhe clamorose che vedete alla televisione sono americanate, dalle parti nostre danno perfino noia ai magistrati. Cos’è che devia davvero un processo in una direzione netta? Carte e testimoni. E quando – come nel caso Depp-Heard – tutto giace in perfetto e tragico equilibrio? È certo che quei due le abbiano date e prese in pari misura (mi si perdoni la banalità nel dirlo), e che entrambi fossero in una situazione psichica difficile, diciamo così. Relazioni depositate di disordini bipolari di qua, abuso di sostanze di là, problemi di gestione della rabbia e dipendenze a piacere.
In questi casi – un paio di disgraziati colpevoli, pareggio 1 a 1 – che si fa? Dove si deve mettere il giudice? Che pesci piglia, da che parte deve pendere la bilancia? Si tappino le orecchie gli spiriti più delicati: decide la simpatia. Sì, esatto, ho giurisprudenzialmente bestemmiato. Comincia a contare l’uomo, più della funzione. In altre parole: quanto garba una parte in causa o l’altra al giudice. O in questo caso alla giuria. Non c’è social che tenga, la farsa non era per noi, era per loro, quei sette spettatori con potere di voto. Depp lo ha capito e ha scelto la parte: ha saputo fare pena senza fare pena. Ora lo sguardo da Edward Mani di Forbice, ora la calata di testa di Donnie Brasco, dopodomani il mezzo sorrisetto del pirata dei Caraibi allo svarione dell’avvocato della difesa. Sempre composto, splendido, come se sul copione avessero scritto: fai il contrario dell’emotività. Più la domanda era stronza, più esasperava il garbo. Non ha mai dimenticato di far ridere i fantastici sette, ma senza lusinga, senza ricatto psicologico, senza chiamarli alla compassione. Insomma: senza mai rischiare il banco.
Riguardate il processo come al cinema. I dettagli. Lasciate perdere i social per un momento. La disperazione di lei sotto pettinature troppo ben fatte, e quel biondo. Quel biondo era un indicatore preciso: non puoi essere sincera nel dolore con quel punto perfetto di schiaritura. Con quei boccoli, non sei credibile nemmeno se sanguini. Ha guardato troppo la giuria, sempre. Occhi bastonati. Appello di commiserazione a ogni fiato. Chi ha la verità in tasca non implora.
Più che i social, ha contato il mestiere. E tra quei due, uno era un attore scarso, l’altro no.
generazione ansiosa