Le libertà mentono
Un bacio di un coach alla sua atleta si fa scandalo. Ma a violare davvero l'intimità è ben altro
Il processo all'ormai ex capo del calcio spagnolo rappresenta una barbarie utile ad esibire il "porco" e funzionale alla narrazione di una nazione franchista e machista
Le libertà mentono, in qualche caso. I video mentono, spesso, in questo caso no. Il bacio di Luis Rubiales a Jenni Hermoso, e mi pare lo abbia capito anche Michele Serra che ne ha scritto imbarazzato da moralista e umoralista di primo livello, è espressione di un’emozione cerimoniale, non una molestia sessuale; il suo “afferrarla”, il saltello del suo corpo nell’aria tra le sue braccia, l’espressione del viso, la circostanza più che pubblica, da palcoscenico, tutto dice che il processo al capo del calcio spagnolo (ex) è una caccia alle streghe. Si può essere più sobri, distaccati, o prudenti se vogliamo, come capita ad altri dirigenti che si complimentano con il team del calcio femminile, anch’essi ripresi dalle telecamere, ma processare pubblicamente, licenziare e dannare con una gogna piena e chiara un maschio che festeggia una donna, una professionista, una calciatrice appena incoronata dal lauro dei Mondiali, e lo fa a quel modo, è una piccola e forse non tanto piccola barbarie. Non c’è nel gesto espressione alcuna di libidine, di desiderio possessivo, di violazione dello spazio intimo di una donna, non c’è niente di niente di tutto questo. Che poi la Hermoso si dica imbarazzata e costretta nel ruolo, che le sue dichiarazioni possano sollevare un’ondata di riprovazione sociale e politica esagerata, falsa, quella sì priva di pudore e di vergogna, è solo un’aggravante oscura in tutta la storia di divinizzazione di un’etichetta che nulla ha a che fare con l’etica. Siamo ai riflessi pavloviani in materia di festeggiamenti ed emozioni: mi ha baciata, dunque è un porco. Se sei una brava donna solidale con le tue compagne “devi” dirlo, “devi” mettere le cose a posto, e consentire che gli automatismi dell’illibertà procedano e travolgano ogni cosa in nome della causa sacrosanta della autonomia e libertà assoluta del corpo femminile. Ed è un porco che conviene all’immagine simbolica e storica del machismo spagnolo, una persona che vale come un segnacolo ideologico e che “deve” essersi comportata male perché “deve” esprimere un progetto culturale, divenendone lo scandaloso obiettivo: siamo un paese di impronta franchista, machista, cattolico, in cui i diritti sono stati conculcati fino alla movida sociale di Zapatero e oltre, nella legislazione, nei comportamenti, e Dio ne guardi che cosa potrà avvenire della grande lezione della Cavalleria cervantina, che forse appartiene o apparterrà anch’essa tra poco al panorama di rovine di una cultura che si odia.
E dunque è legittimo stravolgere la verità palmare che vien fuori da un video, figuriamoci l’invenzione del romanzo: in fondo Dulcinea del Toboso era una santificazione scorretta della femmina e Aldonza Lozano, la sua immagine realistica, brutta unta e agliosa, il rovesciamento della donna amata o di quella immagine nel dismorfismo percepito di sapore maschile. Intanto contro la festa en plein air, sul palco, innocente, si è ritenuto giusto estrarre dal cilindro del wokismo la pena per la colpa, e che serva di lezione esemplare.
C’è invece qualcosa che vìola davvero lo spazio non solo sociale e pubblico, ma lo spazio più intimo della persona, e nessuno ne parla se non a mezza bocca. Il ministro dell’Educazione nazionale, Gabriel Attal, in Francia, ha decretato che a scuola, dove già non possono circolare il velo, la croce e la kippah, non si può andare vestiti con un abito laico che è l’abaya o il qamis. In nome della libertà, dell’eguaglianza e della fraternità un gendarme repubblicano è autorizzato nelle spiagge a imporre di svestirsi, di denudarsi, a una donna che mette il burqini e si veste come le nonne di quelli che oggi hanno settant’anni. Dalla spiaggia alla scuola ora diventa di rigore un giubbotto Moncler o una mise casual al posto della tunica di moda, l’eliminazione dei segni sacri era solo un pretesto per l’uniformazione. La messa in scena della libertà occidentale, in una dimensione ubuesque e cafona, l’ordine di denudarsi per ragion di stato, si mescola con la dismissione di ogni pudore nella persecuzione di un gesto di entusiasmo e di amicizia privo della benché minima connotazione maschilista e predatoria. E poi vogliamo che la gente comune creda a questo mondo rovesciato del patriarca Kirill, a questa ideologizzazione fanatica del vero e del personale, a questo disciplinamento della spontaneità e del più leale comportamento pubblico: in nome di che cosa, di quale scala di valori, di quale verisimiglianza?