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In cerca di etichetta

Né pigrizia né pucundrìa, alla nostra “non voglia” di fare manca ancora un nome

Ester Viola

I nostri account sono vivacissimi e incazzati, le versioni offline di noi si sono fatte pesanti e fiacche. Serve un profeta della pesantezza dei tempi, un intellettuale pratico. Insomma qualcuno parecchio intelligente che risponda per tutti alla domanda: ma chi me lo fa fare?

E’ un problema generale. I nostri account sono vivacissimi e incazzati, le versioni offline di noi si sono fatte pesanti e fiacche. Non è pigrizia, quella che ci ha preso. Serve una nuova parola. Serve il medico. Signori, siamo sopraffatti, senza forze, senza voglia. Ci muoviamo come elefanti stanchi. Le solite carte al lavoro sembrano inaffrontabili. Ma noi abbiamo sempre lavorato tanto così? Tutti i giorni otto ore? E quanto ancora deve durare questa farsa? Vent’anni? Ci si sfastidia di tutto quello che impiega più di cinque minuti, delle subordinate complesse, dei clienti troppo petulanti, ma perché questo chiama anziché scrivere? Devo davvero arrivare in fondo al documento? Si leggono sette righe e ci si chiede che ho letto, che dice? Come il libro di fisica al liceo. 

Ma non è solo in ufficio, è ovunque. Mi danno un modulo e se sono più di quattro domande perdo la pazienza, la tessera del Carrefour per averla devi scrivere un tema. Rinuncio. Datemi una spunta per l’autorizzazione alla delega e vi sollevo il mondo: queste informazioni le potete recuperare voi? Questa ChatGPT, l’intelligenza artificiale, non è che a queste dodici mail riesce a rispondere? Va avanti così da tempo ormai. E’ carenza di ferro? Sindrome del rientro, scarsa motivazione, vecchiaia, il contrario cioè residui di gioventù, sono solo io? Ho chiesto. Siamo tutti.  
La diagnosi del peso dei tempi la pittò perfetta Baricco ormai qualche anno fa.

Nulla ha più avuto serie possibilità di sopravvivenza se non aveva nel suo Dna il patrimonio genetico dei videogame. Posso addirittura spingermi a fermare, per l’utilità di tutti, i tratti genetici di quella specie destinata a sopravvivere:
– un design piacevole capace di generare soddisfazioni sensoriali;
– una struttura riconducibile allo schema elementare problema/soluzione ripetuto più volte;
– tempi brevi tra qualsiasi problema e la sua soluzione;
– inesistenza e inutilità dell’immobilità;
– apprendimento dato dal gioco e non dallo studio di astratte istruzioni per l’uso;
– fruibilità immediata, senza preamboli;
– rassicurante esibizione di un punteggio ogni tot passaggi. 
Ho una notizia importante per voi: a parte rare eccezioni, se state facendo qualcosa che non ha almeno metà di queste caratteristiche state facendo qualcosa che è già morto da tempo
(The game, Einaudi).

Qualcuno dovrà presto provare a definirla meglio, la non voglia. Io mi rifiuto di cedere alla Società della stanchezza, di Byung-Chul Han. L’etichetta è un’arte. Società della stanchezza prima di tutto non sarebbe onesto. Gli stanchi sono stanchi perché hanno fatto qualcosa, noi prevalentemente no. I nostri culi non sono mai stati così parati, sono solo anni di viaggio di Ulisse con approdo al divano. Ci garba essere lasciati in pace, è un desiderio di non essere distratti mentre non riusciamo a pensare a niente, di non fare sforzi oltre le esecuzioni elementari, di evitarci il mondo. 

Non è che invento. La tensione moderna in quintessenza adesso è la facilitazione. Guardate. Smartworking: non ti devi più lavare di corsa per uscire di mattina. Non devi più uscire, di mattina. Le riunioni sono zoom, mai più incontrare dal vivo nessun cliente, mai più parcheggiare. Le pec, il processo telematico, le prenotazioni online, l’Esselunga a casa. Nessuno fa più una fila tranne dal dottore. Lo shopping di vestiti si fa al pc e se gli stracci non ti piacciono più o non vanno bene li rimandi indietro. Ti arriva il mangiare pronto dai ristoranti. Non devi andare al cinema perché il cinema è venuto lui da te. Netflix, Amazon e i loro fratelli. Pure lo shampoo, la seconda perdita di tempo più critica nella vita delle signore dopo l’amore, è diventato una passeggiata. Non devi lisciare o farti a boccoli i capelli con sforzi di braccia. Adesso, pagando un bel cinquecento euro, il potente phon supersonico ti farà i ricci, il ferro per le onde è aspirante, non serve manco il gesto di alzare le chiome e il gomito. La pesantezza moderna raggiunge i suoi vertici con l’audiolibro. Sei così moscio, ma così moscio che a leggere ti pare di morire? Eccomi, leggo io per te. Penso io per te. I giornali saranno presto sostituiti dai siti sparapillole di informazione che ti spiegano in cinque punti quello che ti piace sapere.

 

Ma dicevamo. Ci serve il nome. La si potrebbe chiamare pucundrìa. Quello però era un ammalamento nobile, viene da un alto sentire. Pucundrìa, parola figlia di hypocondrios, il luogo magico sotto il costato dove irradia questo dolorino sottile che frolla i cervelli. La pucundrìa è fatta per durare il tempo di una pioggia, ora è proprio una svogliatezza radicata, solida, in costruzione. Una serra tiepida della malavoglia e ci infunghiamo dentro. Ho pensato che serve un profeta del millennio. Uno buono. Un intellettuale pratico. Insomma qualcuno parecchio intelligente che risponda per tutti alla domanda Ma chi me lo fa fare. 

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