Prospettive
L'autarchia non può arginare il crollo demografico
Non basta qualche figlio in più, per l’Italia di domani devono aumentare le donne in età feconda. L’immigrazione come opportunità
Trenta anni fa, nel 1993, la popolazione delle donne in età feconda di 15-49 anni era di 14,4 milioni di donne, che rappresentavano il 49,1 per cento del totale delle donne residenti in Italia. Oggi, 2023, quelle donne sono 11,6 milioni e rappresentano il 38,6 per cento del totale delle donne residenti in Italia. Dal 1993 abbiamo lasciato sul terreno 2,8 milioni, pari al 20 per cento di quelle donne in età feconda che rappresentano l’autentico motore, la potenzialità, delle nascite, in Italia come nel resto del mondo. A scanso di equivoci: la popolazione italiana trenta anni fa era di due milioni di abitanti inferiore a quella di oggi. Ma allora era in crescita, oggi è in diminuzione da 8-9 anni per la prima volta nella storia demografica moderna e – come del resto altri importanti paesi specialmente asiatici dalla Cina al Giappone passando per la Corea – senza le condizioni non si dica per arrestare ma anche soltanto per frenare la discesa. A meno che non si ragioni, e si ragioni bene, su quel che occorre fare per evitare la debacle demografica della popolazione italiana e con essa dell’Italia tout court. Debacle, attenzione, ch’è data per sicura dalle agenzie demografiche più accreditate del mondo.
Lo stiamo facendo? Lo sta facendo il governo Meloni, e la premier in prima persona, di ragionare bene e, aggiungo doverosamente, di operare di conseguenza?
Una precisazione. Mi rivolgo alla premier e al suo governo non soltanto perché, ovviamente, reggono il timone di questo paese e ne condizionano e indirizzano con i loro atti il futuro più immediato. Mi rivolgo a loro anche perché la sinistra, a cominciare dal Pd, semplicemente ignora il problema. Cosicché navighiamo tra due estremi insoddisfacenti: chi lo ha in nota ma non lo capisce davvero; chi non lo ha in nota e se ne sbatte. Meglio ragionare con chi non lo capisce, non del tutto, pur avendolo in nota; con gli altri è tempo perso. Che non lo capisca, non almeno quanto sarebbe necessario, è dimostrato da un fatto inoppugnabile: siamo di fronte alla più grave crisi migratoria non solo nazionale ma internazionale, mondiale – e bene ha fatto la premier all’assemblea dell’Onu a rimarcarne con forza questo carattere. Ma avete voi, ha qualcuno sentito una parola su questa crisi, coi suoi flussi disordinati ed entropici di migranti, da parte dei nostri governanti che tirasse in ballo la nostra declinante se non proprio morente demografia con la lucidità e l’energia che la situazione richiederebbe? Nient’affatto, non una parola. Il motivo è chiaro, ed è culturale, profondamente, esclusivamente culturale: la premier, il governo (non so se anche la ministra Roccella, mi auguro di no) sono convinti che la situazione della popolazione italiana che continua a perdere abitanti e che ne perderà fino a venti e più milioni, invecchiando irreversibilmente, possa essere aggiustata, risollevata, risanata agendo sul versante della natalità, della sola natalità. Ovverosia, con un ventaglio di misure tutte volte a far fare agli italiani qualche figlio in più. In effetti sembra essere questo il punto decisivo, il versante sul quale collocarci, e sul quale il governo giustamente si colloca, per sferrare l’attacco a una natalità riottosa che anche nel primo semestre del 2023 ha continuato bellamente a declinare, come fa ormai ininterrottamente da una dozzina e passa di anni a ritmi che fanno temere il peggio.
Ma è proprio qui ciò che la premier e il suo governo non capiscono: che con una visione del problema della demografia italiana che guarda solo al suo risultato finale, ovvero alla natalità, alle nascite, e a nient’altro, siamo destinati, a dispetto delle misure nataliste più belle del mondo (e cominciamo ad averne di davvero buone, è doveroso riconoscere), siamo destinati ad andare incontro solo a delusioni. Sì, qualcosa forse racimoleremo pure, forse di qualche chilometro all’ora freneremo la caduta. Ma caduta sarà, non facciamoci illusioni. Guardi allora il governo, e ci rifletta bene, a un dato. Il numero medio di figli per donna in Italia è pressoché fermo da anni attorno alla soglia, in verità assai bassa, di 1,25 figli per donna, centesimo in più centesimo in meno. Ma le nascite, quelle, mentre il numero medio di figli per donna restava inchiodato su quel livello, declinavano al punto da precipitare dalle 577 mila del 2008 alle non più di 390 mila attuali, un terzo in meno di quindici anni fa. Com’è stato dunque possibile che si perdesse un terzo delle nascite mentre la fecondità femminile restava invariata? Semplice, perché le donne in età feconda non facevano che diminuire, cosicché se pure mediamente una donna fa oggi gli stessi figli di quindici anni fa, per il contrarsi delle donne in età feconda il numero totale delle nascite non ha fatto che assottigliarsi.
E si appuntino, sempre la premier e il suo governo, già che ci sono, anche quest’altro dato. In assenza di apporti migratori nei prossimi cinque anni, un quinquennio appena, entreranno in età feconda 1.354.509 donne che hanno oggi 10-14 anni, ed usciranno dall’età feconda 2.414.762 donne che hanno oggi 45-49 anni: ovvero la popolazione femminile di 15-49 anni si ridurrà di un altro milione e passa di donne per il fatto puro e semplice che chi entra in questa età viene da anni recenti di basse nascite mentre chi ne esce viene da anni lontani di alte nascite. Chiaro il concetto? Ahimè, non credo. Un obnubilamento di fumi autarchici confonde le idee della stessa premier, la più lucida della compagine governativa, che non si perita di affermare che i flussi migratori non risolvono il problema della popolazione italiana. Giusto. Non bastano. Ma, senza, non c’è scampo. Perché la popolazione femminile in età feconda – che come abbiamo appena visto tende a declinare irreversibilmente alla velocità della luce senza movimenti migratori – se affidata alla sola ripresa delle nascite ben che vada risentirebbe degli effetti di questa ripresa tra quindici-venti anni, quando le nascite in più comincerebbero a tradursi in donne in più in età feconda. Ora, a parte che non abbiamo tutto questo tempo a disposizione, cosa possono mai un po’ di nascite in più a partire da oggi, ammesso e non concesso che si riuscisse a ottenerle, quando la popolazione in età feconda, in assenza dell’apporto di donne di età feconda che vengono dall’estero, perde la bellezza di 200 mila unità all’anno? Pensiamo forse di balzare da meno di 400 mila a 600 mila nascite annue, così, dall’oggi al domani come neppure con la bacchetta magica?
Ecco, la visione autarchica, drammaticamente condizionante in un tempo di fenomeni planetari, a cominciare da quello dei flussi migratori, sta letteralmente sbriciolando la buona, ottima, e perfino doppia intuizione governativa: che il problema demografico è centrale per l’Italia del futuro; che la natalità deve essere incentivata con le misure giuste (aspettiamo quelle per il secondo figlio, decisivo in una popolazione di figli unici) se vogliamo sperare di riportarla a livelli più aderenti a una visione positiva del paese che sarà.
La premier e il suo governo hanno nella crisi migratoria attuale una formidabile gatta da pelare, è fuori discussone. Ma anche un’occasione. Solo nelle crisi si aprono possibilità impensate di politiche e azioni dirompenti per affrontare di petto situazioni altrimenti destinate a incancrenirsi. Quella demografica è di gran lunga la prima, dell’elenco. Dalla crisi attuale, si ricordi bene, dal punto di vista demografico abbiamo solo da guadagnare. Tutto da guadagnare. Sarebbe un guaio, l’ultimo che ci è concesso, e che seppellirebbe ogni speranza, se questa crisi svaporasse senza aver lasciato nella struttura della popolazione residente, e segnatamente nella quota delle donne in età feconda, un segno netto e duraturo del suo passaggio.
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