Il dibattito
Sesso e gender, nell'ultimo documento dell'Iss mancano solo gli asterischi
L'Osservatorio medicina di genere dell'Istituto superiore di sanità ha pubblicato delle linee guida per le pazienti lgbt+ che sono un ottimo compendio di wokeism: dentro c’è praticamente tutto
Tu vuo’ fa l’americano. O l’inglese: nonostante l’antipatia per la fuffa gender del primo ministro Rishi Sunak e anche del leader laburista Keir Starmer, il General medical council – l’ordine dei medici – nei giorni scorsi ha passato al colino woke il proprio linguaggio, ordinando di cancellare la parola “madre” se si parla di maternità e “donne” se si parla di menopausa. Perfino le surrogate mother diventano surrogate parent. Con baldanza provinciale, il nostro Istituto superiore di sanità si allinea al movimento dei Risvegliati: il suo Osservatorio medicina di genere ha siglato un incredibile documento dal titolo “Linee di indirizzo per la comunicazione del personale sanitario con i/le pazienti lgbt+”.
Mancano solo gli asterischi, il resto c’è tutto. Medici e operatori sanitari non devono “presumere che i pazienti siano cisgender e eterosessuali” (fatto statisticamente probabile) perché si tratterebbe di una “microaggressione”. Il prefisso cis indica la stragrande maggioranza dei “dormienti” che nati maschi si sentono maschi e nate donne si sentono donne. Nati uomini e nate donne poi: non esageriamo. “Lo screening del cancro della cervice uterina”, si legge per esempio, “è raccomandato per tutte le persone assegnate femmine alla nascita” (AFAB. AMAB invece l’acronimo per gli assegnati maschi). “Brava signora! Le abbiamo assegnato un maschio!”: ecco le buone pratiche in sala parto.
La faccenda del sesso assegnato è tra le più fulgide manifestazioni del butlerismo reale: non solo il genere ma anche i genitali sono una performance, una costruzione sociale e linguistica eteronormativa. “Il sesso non può qualificarsi come fatticità anatomica pre discorsiva. Anzi si dimostrerà che il sesso, per definizione, è già da sempre genere” ammonisce Judy in “Gender Trouble”. Altra radice del sesso assegnato la depatologizzazione dei rarissimi intersex che alla nascita presentano genitali atipici. L’Osservatorio propone di “sostituire il concetto di disordini (DSD) (…) con quello di ‘Variazioni delle caratteristiche del sesso’ (VSC), definizione più inclusiva”. Se assegno il sesso alla variante intersex, allora lo assegno anche a tutte le altre varianti, comprese quelle che appaiono come normalità.
Il documento dell’Osservatorio di genere è un ottimo compendio di wokeism, c’è praticamente tutto. L’identità di genere “su cui va adottata una prospettiva aperta” prendendo “consapevolezza dei propri possibili pregiudizi anche con l’aiuto di colleghi e/o esperti del settore” (una terapia di supporto se proprio non ce la fai) oltre che partecipando a “percorsi formativi”. Ai medici si raccomanda di “assumere un atteggiamento affermativo nei confronti delle persone lgbt+” (resta da capire, questione che meriterebbe una riflessione dedicata, che cosa c’entrino gli lgb con i t+), di “utilizzare un linguaggio neutro” e di vigilare sulla “comunicazione non verbale”, tipo uno sguardo perplesso. Si suggerisce anche di affiggere in studio “una dichiarazione di non discriminazione” oltre a dotarsi di servizio igienico gender neutral. Domande tipo “ha un fidanzato/a?” vanno sostituite con il più inclusivo “ha uno o più partner?”. Con i minori va assunto “un atteggiamento affermativo e solidale” senza “dare per scontato che si tratti di una fase di passaggio” e possibilmente indirizzandoli “ad associazioni lgbt+ sul territorio” (questa è davvero pesante). Per “le famiglie composte da genitori non eterosessuali e non cisgender” vanno evitati termini tipo madre/padre. E così via.
Il ricco glossario finale, passando per “demigender”, “eterosessismo”, “intersezionalità” e “pangender” approda a un oscuro “trigender” ovvero l’identificazione “con tre identità di genere”: quali, boh. Può essere che il doc dell’Osservatorio sia scappato ai più, compresi i ministri della Salute Schillaci e la ministra dell’Università Bernini che hanno recentemente decretato un Piano formativo nazionale per la medicina di genere destinato a operatori e studenti dell’area sanitaria, e di cui l’Istituto superiore di sanità sarà il principale ente erogatore: questa roba farà parte della formazione? Nata negli anni Settanta su impulso del movimento delle donne a tutela della salute femminile, la Medicina di Genere riconosce che i corpi di donne e uomini sono diversi nelle malattie e nella risposta ai farmaci, della differenza sessuale si deve tenere conto. Ma oggi genere significa altro. Non rappresenta più il binarismo sessuale, del tutto carnale, ma il queer che eccede la regola. Un’ambiguità che ha fatto molti danni: proprio per questo la parola genere sarebbe da buttare. Senza rimpianti.