La guerra in medio oriente, Gigi Hadid, Kylie Jenner e Kim Kardashian. Lezioni da una shitstorm
Milioni di follower persi e insulti online alle modelle e alle attrici che sui social hanno commentato la guerra Israele-Hamas. Le prese di posizione politiche sui social sono riservate ai professionisti del settore e ai loro spin doctor oppure e a chi non ha niente da perdere, al sottobosco dell’etica e al tribunale dei post a effetto
Andiamo subito dritti al punto, visto che in queste ore si è già parlato abbastanza dei milioni di follower persi dalle modelle e dalle attrici che sui social hanno preso posizione sulla guerra Israele-Hamas, talvolta per il solo desiderio di engagement sul tema mondiale del momento e talvolta con vero ed effettivo coinvolgimento, che è il caso di Gigi Hadid. Pur essendo di famiglia palestinese e da sempre impegnata nella causa, la modella ha scritto infatti su X-Twitter (non ci abitueremo mai a quel segno orrendo di negazione) un post molto equilibrato sul conflitto ed è stata coperta di insulti, oltre ad aver ricevuto una minaccia velata perfino dall’account dello “State of Israel”: “Ti teniamo d’occhio”.
Non si capisce, o forse e al contrario si comprende fin troppo bene dal tono degli insulti ricevuti anche da Kylie Jenner per il suo post a favore di Israele (“Qualcuno le chieda di collocare Israele su una cartina geografica” è il meno offensivo), per quale motivo una modella dovrebbe “continuare a fare il suo lavoro”, cioè a sorridere e sponsorizzare prodotti e sfilare su una passerella, senza poter godere dello stesso diritto di parola che invece riconosciamo anche al più violento e ignorante dei leoni da tastiera, quelli, cioè, che non solo non hanno alcunché da perdere da un post, ma tendenzialmente molto da guadagnare. Vediamo dunque di inquadrare il fenomeno nella sua interezza.
Punto uno: che milioni di follower di fede islamica abbiamo commentato negativamente e talvolta minacciato Kylie Jenner per essersi espressa in favore di Israele (un milione di follower persi in quarantotto ore, post rimosso, inviti a boicottare la sua linea di bellezza: “Evita di vendere i tuoi prodotti nei nostri paesi musulmani”) è tutto sommato piuttosto comprensibile.
Punto due: è non molto comprensibile ma inquadrabile nel mondo social - dominato da superficialità, ignoranza, reazioni emotive, ansia di brillare e di conquistare nuovo seguito, cioè una summa di tutte le dinamiche della massa che i sistemi di informazione di un tempo ignoravano e riuscivano a evitare, lasciando i commenti da bar nel loro luogo naturale, cioè il bancone dello spritz – anche l’ondata di odio che ha colpito l’account della sorellastra di Kylie, Kim Kardashian, di origini armene, impegnata nella difesa di tutte le minoranze, per un post sempre a favore di Israele, e sempre molto equilibrato.
Ma, punto tre, se Kylie Jenner ha sicuramente sbagliato nel cancellare il post, e per questo è stata nuovamente sottoposta a un’ondata di odio e a un potente un-following (la regola non scritta dei social, purtroppo, è chiara: quando arriva la shitstorm te la devi prendere usque ad finem, il popolo vuole sempre pascersi sotto alla ghigliottina dei potenti, è la sua occasione di rivalsa), non ci sono dubbi che a certe categorie sia di fatto vietata l’espressione pubblica del pensiero, pena la perdita di popolarità, consensi e, va da sé, denaro. Lo sappiamo da quando un decennio fa Guido Barilla venne sottoposto a un boicottaggio micidiale, ed erano tempi meno violenti, per aver detto che lui, tutto sommato, nelle pubblicità della sua pasta preferiva vedere una coppia etero, e lo sappiamo ancora meglio dopo l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia, quando – in risposta alla presa di posizione dei brand del lusso contro l’azione di Putin – un bel numero di influencer russe, ben irreggimentate ancorché in tutta evidenza poco convinte – si fecero riprendere sui loro account mentre tagliuzzavano borse Chanel.
La verità ultima è che le prese di posizione politiche sui social sono riservate ai professionisti del settore e ai loro spin doctor, abituati anche a gestire insulti di massa, e a chi non ha niente da perdere, cioè i lupi à la Fabrizio Corona, al sottobosco dell’etica e al tribunale dei post a effetto. Tutti gli altri, e in particolare chi bazzica il mondo della moda, dove la tolleranza e l’inclusione sono pratiche molto condivise, ma nell’ambito dello stesso sistema protetto, politicamente corretto, anche ipocritamente cortese ma comunque cortese davvero, e civile, deve rassegnarsi o al silenzio o alla perdita di follower. Il mondo dei lupi, che è sempre più vasto e agguerrito, della “inclusion and tolerance” si infischia altamente.
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