Il disastro causato del Seveso non è colpa del clima ma dell'inefficienza
Metropoli in tilt. Ancora. Ogni qual volta il fiume straripa riemergono le falle nel sistema di deflusso di Milano
Ci risiamo. Il Seveso è straripato. Parti di Milano sono andate in tilt. In periodi di cambiamento climatico effettivo, c’è il rischio che da questa storia si tragga la morale sbagliata. In questo caso non si tratta di un’anomalia meteorologica, ma sociologica. Il Seveso è straripato 342 volte in 140 anni (dati dei ricercatori del Politecnico di Milano). Ben oltre 100 dal 1976. Il fiume non sarebbe particolarmente significativo se non fosse che con singolare ostinazione ricorda ai milanesi che il territorio è dominato dall’acqua e dalle conseguenze delle decisioni che abbiamo preso nel passato. I romani furono i primi a deviarlo verso Milano in età repubblicana. Nel XV secolo fu fatto innestare sul Naviglio Piccolo quando i Visconti autorizzarono la costruzione del canale artificiale. Da allora varie opere hanno cercato di gestire le conseguenze della scelta di portarsi un fiume come quello in casa. Il Cavo Redefossi in zona Porta Nuova, per esempio, fu costruito nel XVIII secolo proprio per cercare di far defluire le acque del fiume nel Lambro, nella speranza di ridurre il numero di esondazioni. Poi, alla fine dell’Ottocento, Milano cominciò a tombare il fiume e il destino di questa relazione fu segnato. Il processo accelerò dopo il piano regolatore degli anni ’50. Oggi il Seveso scorre coperto per svariati chilometri. Come mai un fiume così piccolo può fare così tanti danni? Descrivere il problema non è difficile. Al suo ingresso a Milano il fiume è il gambo di un enorme imbuto: un bacino di oltre 200 chilometri quadrati, per lo più nella provincia di Como, tre quarti dei quali montagnosi, dove, quando piove, l’acqua scorre rapidamente a valle e corriva nel fiume, che poi la inietta a Milano.
Dalle statistiche storiche sappiamo che almeno una volta ogni cento anni (e nonostante il fiume esondi a monte, riducendo la pressione) all’ingresso di Milano si possono manifestare nell’ordine di 140 metri cubi al secondo. Il sistema di deflusso della città ne può accomodare meno di un terzo. Questa è l’essenza del problema, reso più grave dall’espansione della città durante il boom, quando fiumi e corsi d’acqua che erano periferici vennero progressivamente urbanizzati, aumentando il flusso che scola attraverso la città. Dagli anni 50 ci si interroga su come quadrare questo cerchio interamente di nostra creazione. Il primo passo fu la decisione di costruire il canale scolmatore di nord ovest, con la capacità di far deviare circa 30 metri cubi al secondo dal Seveso, portando l’acqua trenta chilometri a ovest, verso il fiume Ticino. L’opera, terminata negli anni 80, si è rapidamente dimostrata insufficiente. Si parlò allora di un raddoppio. Se ne fece persino una parte. Il problema è che non basta trasferire l’acqua. Bisogna anche assicurarsi che il sistema ricevente sia in grado di farla defluire. Se no invece di spostare acqua, si finiscono per spostare inondazioni. E infatti un semplice raddoppio si è rivelato infattibile. Da lì, si è deciso di aggiungere aree di laminazione (zone che permettano al corso d’acqua di espandersi in caso di piena) riducendo la portata e diminuendo la pressione. Ovviamente il problema è che queste vasche di laminazione da qualche parte a monte devono pure stare: bisogna farle nel comune di qualcuno o dietro casa di qualcun altro. E questi ne devono sopportare il costo paesaggistico e i limiti imposti al territorio senza necessariamente trarne grande beneficio. Da qui le polemiche inevitabili che riemergono ogni qual volta il fiume (come anche questa volta) esonda.
Qui sta il nocciolo della questione, che non è—come dicevo—climatica, ma sociologica. L’acqua si muove. Se partiamo dall’idea che quelli a monte non hanno responsabilità di ciò che succede a valle, non andiamo lontano. Se, allo stesso tempo, coloro che vivono a valle non compensano coloro che stanno a monte per i servizi resi, anche lì non si va da nessuna parte. Il problema centrale che da decenni piaga il Seveso, archetipo di ciò che ci aspetta in sempre più corsi d’acqua esposti a statistiche sempre più anomale, è l’incapacità di negoziare e trovare una sintesi. I fiumi sono dei grandi condomini. Quando chiudiamo la porta di casa nostra, facciamo finta che i vicini non esistano. Ma alla fine, i pianerottoli li dobbiamo gestire assieme. La riunione di condominio non sarà l’esperienza più piacevole dell’anno, ma è necessaria per gestire in maniera sensata ciò che ci unisce. L’acqua ci unisce. Dobbiamo imparare a gestirla assieme.