PERICOLI ACCADEMICI

I “decolonizzatori del sapere” devono tutto alla civiltà occidentale che criticano

Giovanni Belardelli

La storia europea e americana avrà anche prodotto crimini e orrori. Ma è grazie a lei che oggi siamo in possesso della democrazia e delle libertà moderne, a scanso di quello che vuol far credere la cancel culture

Ormai si va affermando anche da noi. Mi riferisco alla critica postcoloniale del sapere, cioè a quel movimento culturale che da qualche anno imperversa nei campus americani (e inglesi) costituendo una delle architravi della cosiddetta cancel culture. L’intera nostra civiltà – secondo questa posizione che ha visto il colpevole accodarsi della cultura liberal americana – sarebbe intossicata dal suo razzismo primigenio, da una volontà di sottomettere i popoli non bianchi esplosa con il colonialismo europeo ma risalente ben più addietro. Un convegno che si è tenuto in questi giorni all’università La Sapienza di Roma su “critica postcoloniale e decolonizzazione dei saperi” è una piccola conferma di come la decolonizzazione degli studi si sia diffusa.  

È da decenni naturalmente che si studia come lo sviluppo di intere branche della nostra cultura – pensiamo agli studi etnoantropologici – sia stato condizionato fortemente dalla contemporanea colonizzazione europea (il famoso libro di Edward Said “Orientalismo. L’immagine europea dell’oriente” è appunto del 1978). Ma l’attuale “decolonizzazione” della cultura sostiene, almeno nel mondo anglosassone, ben altro: ad esempio, che l’intera cultura classica sia affetta da “razzismo sistemico”, intrinsecamente discriminatoria nei confronti dei non bianchi e dunque da rifiutare in blocco. Come è noto una grossa parte della cancel culture consiste nel rifiuto di chiunque nel passato abbia avuto a che fare con il razzismo e il colonialismo, perché magari apparteneva a una famiglia che importava tè dalle Indie, perché il malcapitato credeva (come credevano nell’Ottocento anche Marx o Mazzini) in una superiorità della civiltà bianca, perché le sue spedizioni e ricerche sull’evoluzione delle specie si erano svolte nel quadro della politica imperiale inglese (mi riferisco naturalmente a Darwin). 

Iniziative come il citato convegno romano ci dicono che tutto questo sta affermandosi anche da noi. Anche perché è probabile che la “decolonizzazione” della cultura trovi un terreno fertile in una produzione storiografica che da qualche anno ha fatto del colonialismo, del razzismo, dei nostri crimini di guerra il fulcro delle proprie ricerche (su cos’era quest’anno la “lezione gramsciana” della Fondazione Gramsci dell’Emilia-Romagna? Ma sul razzismo nell’Italia repubblicana ovviamente). In effetti la critica postcoloniale e la tendenza a porre al centro della storia contemporanea i crimini compiuti dagli europei (e dagli americani) un punto di contatto lo hanno: sono entrambe manifestazioni di una tendenza all’odio di sé dell’occidente denunciata già quarant’anni fa da Pascal Bruckner nel “Singhiozzo dell’uomo bianco”. 

Se si trattasse di integrare le narrazioni nazionali, che spesso hanno dato poco spazio al passato coloniale o ne hanno nascosto gli aspetti negativi, ci sarebbe poco da obiettare, si tratterebbe anzi di qualcosa di assolutamente positivo. Ma le cose sono complicate dal fatto che si è affermata una diffusa criminalizzazione dell’intera esperienza coloniale occidentale. Uno dei maggiori storici francesi, Pierre Nora, ha osservato al riguardo: “Che vi siano stati dei crimini dei colonizzatori è evidente, che la colonizzazione sia stata un crimine contro l’umanità è una assurdità”. Dovrebbe essere, ma non è affatto, un giudizio scontato. Tenerne davvero conto implicherebbe qualcosa che fatichiamo a fare, nella paura d’essere giudicati male dal “progressista collettivo”. Implicherebbe riconoscere che il colonialismo europeo ha prodotto violenze e massacri ai danni delle popolazioni indigene, ma ha avuto anche aspetti positivi: spesso, ad esempio, ha portato a un miglioramento nella cura delle malattie  e dunque dell’aspettativa di vita, che si verificò – come ha fatto notare in un suo libro Niall Ferguson – prima della fine del dominio coloniale.

Ancora più difficile è riconoscere un altro aspetto, che possiamo chiarire in riferimento a uno dei massimi intellettuali dell’Ottocento europeo, John Stuart Mill. Come è noto, Mill è stato uno dei più importanti difensori della libertà moderna e un sostenitore, tra i pochi ai suoi tempi, del suffragio femminile. Eppure quest’uomo che ci appare così “avanzato” giudicava un “grave errore” pensare di applicare le stesse regole alle nazioni “civilizzate” e a quelle “barbare”, ritenendo che le prime dovessero inevitabilmente conquistare le seconde (naturalmente, secondo lui, per portarle a un livello superiore di civiltà). C’è poco da meravigliarsi: ogni epoca storica appare fatta di luci e di ombre, che di solito non sono le medesime per i contemporanei e per i posteri. A rendere forte nei campus americani la critica postcoloniale è la presenza di molti discendenti delle popolazioni ex colonizzate o degli ex schiavi. A renderla concettualmente debolissima è la sua strutturale incapacità di dar conto del fatto che la storia europea e americana ha prodotto, insieme a crimini e orrori, anche la democrazia e le libertà moderne. La sua incapacità, dunque, di spiegare come mai le feroci critiche di cui si sostanzia la cancel culture siano possibili proprio grazie a quegli strumenti – anzitutto la libertà di opinione e di stampa – che una civiltà accusata di razzismo (e anzi, a lungo effettivamente razzista) ha prodotto.

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