storia che ritorna
L'Europa e gli ebrei. Quando l'uomo è in balìa di una potenza autodistruttiva
L'individuo ha perso di vista la luce della fratellanza e il significato della libertà. Come spiegano Adorno e Horkheimer in Dialettica dell’illuminismo, la compulsione alla razionalizzazione e allo sfruttamento della natura ha reso la stessa natura umana predabile
Che cos’è la libertà? Libertà e giustizia vanno sempre di pari passo? Che cosa si può dire “umano”? Quale oscurità pulsionale pende su una razionalità che ha perso di vista il suo bene, il suo fondamento, la sua innocenza? Nel saggio di estrema attualità Gli Ebrei e l’Europa (Edizioni ETS, a cura di Luca Micaloni), scritto nel 1939, anno in cui la Germania nazista invade la Polonia, uno dei fondatori della Scuola di Francoforte, il filosofo e sociologo tedesco Max Horkheimer, di origini ebraiche, indagando le radici economiche dell’antisemitismo nella sua forma nazionalsocialista, si interroga sui rischi insiti nel principio liberale borghese, creando un parallelismo con l’ideologia economica dell’ebraismo.
Tuttavia, come Marx in Sulla questione ebraica (1843-44), di cui il testo di Horkheimer è senz’altro debitore, anche l’autore degli Studi sul pregiudizio sembra occuparsi, per usare le parole sdegnate di Gershom Scholem, dell’“ebreo allegorico” più che dell’“ebreo reale”, con le sue peculiarità etnico-religiose. Queste ultime non sono riducibili alle mere funzioni economiche e sociali di contenimento delle pulsioni. I desideri schiacciati dalla ragione illuministica che trova in sé la propria legittimazione si accorperebbero al loro stesso simulacro, il denaro, con il suo spettro freudiano e trasgressivo, mutati nella “moneta vivente” di Sade.
Nel momento in cui il liberalismo si autonomizza, separandosi dall’autoriflessione dell’uomo sul proprio agire e pensare, contraddice pericolosamente il suo stesso principio, corrompendolo. Come osserva Quirino Principe in Ritorno della filosofia (in Rivoluzione o libertà? Conversazione con Otmar Hersche, PGRECO, 2022), Horkheimer “deve ammettere che la metafisica e l’etica tradizionali rappresentavano sempre la sfera del distacco, dell’indipendenza, in un certo senso anche della libertà, una oggettività indipendente dai nostri interessi”. La teologia è centrale nelle riflessioni ultime del filosofo tedesco. Egli, pur pessimista, nostalgicamente spera che “l’assassino non possa trionfare sulla sua vittima innocente”.
Accomunati dall’analisi critica degli sviluppi del pensiero marxista, coloro che tradizionalmente vengono ascritti alla Scuola di Francoforte, ovvero, per ricordarne solo alcuni, Adorno, Marcuse, Fromm, Benjamin, ne accettano il portato rivoluzionario, ma, al contempo, colgono i limiti del materialismo dialettico, si interessano alla psicoanalisi freudiana, e considerano utopico il “regno della libertà”. Non solo: anche il raggiungimento di uno stato edenico non redimerebbe la violenza, né risarcirebbe le sofferenze subite, tantomeno restituirebbe alla vita gli innocenti.
E’ possibile sottrarsi al sortilegio del dominio e a una cultura di massa che, come osserva l’autore di Eclisse della ragione, è sempre il sintomo di una ragione strumentale? Non è, forse, la riflessione sulla libertà il fine ultimo di ogni pensare filosofico? Qual è il valore della filosofia, del pensiero critico, di fronte a un destino tecnocratico che sembra sempre più assomigliare a una merce, marchiato com’è da un processo di reificazione della ragione, frutto della stessa volontà di dominio e di possesso, che, al suo acme, generò il nazismo? Come sottolineano Adorno e Horkheimer in Dialettica dell’illuminismo (Einaudi, 2010), la compulsione alla razionalizzazione e allo sfruttamento della natura, con un effetto boomerang, ha reso la stessa natura umana predabile. Così, come vediamo, purtroppo di nuovo, l’uomo è in balìa di una potenza autodistruttiva, che ha perduto la luce della fratellanza e il significato della libertà.
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