Il leone ferito

Così il maschio ha perso il suo posto nel mondo. Libri e idee per aiutarlo a ritrovare la bussola

Donatella Borghesi


Guerriero feroce ma al collasso. “Che devono fare gli uomini di buona volontà che si sentono persi? Rivedere il loro ruolo, la loro funzione, ciò che ci si aspetta da loro”, scrive lo storico francese Ivan Jablonka, autore di "Uomini giusti. Dal patriarcato alle nuove maschilità"

Trecentomila riservisti israeliani e i corpi speciali sono da giorni e giorni nel labirinto di Gaza. Per pessimistica assonanza, ricordano i trecento guerrieri spartani che serrano le fila dietro i loro scudi, pronti a morire. Prima dell’inizio dell’operazione, il premier Netanyahu (politicamente morto, dicono tutti) incitava i soldati a dimostrare di essere i “leoni” che sono. Sempre nelle stesse ore, migliaia di manifestanti nelle piazze di tutto il mondo gridano la loro rabbia e il loro odio verso gli israeliani, ancorché vittime del terribile pogrom del 7 ottobre. Mai come in questa infausta congiuntura storica si rivela il volto crudele e feroce dell’uomo in guerra, in una contrapposizione che ha il sapore di conflitti biblici, primordiali. E’ l’uomo soldato l’immagine maschile dominante che abbiamo tutti i giorni sotto gli occhi, il soldato supertecnologico israeliano come il più primitivo palestinese senza divisa, l’eroico e il barbaro. Anche se la guerra contemporanea ha come teatro e vittima principale la massa dei civili, i protagonisti restano gli uomini, le donne sono a casa ad aspettare di raccoglierne i resti, come sempre. (Converrebbe rileggere le parole di Simone Weil, che aveva studiato l’Iliade e si interrogava su cos’era la forza di Achille, e qual era la sua debolezza. Per capire la logica guerresca, la fragile ragazza ebrea si era consumata prima nella Guerra civile spagnola e poi nel Secondo conflitto mondiale, fino a morirne). 

 

“La brama di uccidere l’abbiamo nel sangue”, disse Freud sulla guerra. Il soldato ipertecnologico israeliano e la donna che aspetta

   

L’orrore che viviamo in questi giorni, la spirale delle violenze che può andare avanti all’infinito li aveva già individuati la psicoanalista junghiana Nicole Janigro, italo-croata, che nell’introduzione al suo La guerra moderna come malattia della civiltà (Bruno Mondadori), raccolta di scritti da Freud a Fromm, da Jung a Fornari, descriveva così la mattanza inter-jugoslava che ben conosceva: “Il copione del massacro degli abitanti di un villaggio, donne bambini, uomini e vecchi, non concede troppe digressioni, l’efferatezza dell’eccidio suscita il terrore che induce l’escalation della violenza, produce le vittime in nome delle quali d’ora in poi si combatte. La guerra delle vittime di loro si ciba, attraverso loro si racconta. Ma se tutti sono vittime, un capro espiatorio che possa salvare l’intera comunità dall’annientamento non esiste, il meccanismo sacrificale non esiste più”. Non ci sarà mai più catarsi collettiva, allora, e risuonano cupe le parole di Sigmund Freud pronunciate nella conferenza tenuta a Vienna il 16 febbraio 1915 – in piena Prima guerra mondiale – per i membri dell’associazione umanitaria austriaca-israelitica “B’nai B’rith”: “Non esiste in noi nessun ribrezzo istintivo per lo spargimento di sangue. Noi siamo i discendenti di una serie infinita di generazioni di assassini. La brama di uccidere l’abbiamo nel sangue e la ritroveremo forse presto in un altro luogo”. Sono le prime riflessioni del fondatore della psicoanalisi sulla pulsione di morte, sul senso di colpa che attanaglia l’umanità fin dalle origini, forse per l’antico crimine del parricidio, l’uccisione del padre primordiale dell’orda primitiva, che poi svilupperà in Considerazioni attuali sulla guerra e la morte.  

  

Ivan Jablonka ha scritto “Uomini giusti. Dal patriarcato alle nuove maschilità”. La rivoluzione femminista data per acquisita

  

Nelle stesse ore dei preparativi della controffensiva israeliana a Gaza, nell’attonito e inconcludente occidente, la piccola e bionda premier italiana annuncia che la sua storia con il compagno e padre di sua figlia è finita. Un comunicato che arriva dopo settimane di schiamazzi e di commenti cinici su quel giovane uomo spavaldo che ha avuto la disavventura di vivere con una donna che sotto i suoi occhi è diventata capo di stato. Ma al di là dei fuori onda di Mediaset e delle gaffe sessiste, c’è il dato di realtà che si è reso conto di essere un “secondo”, di non avere un posto da “vero uomo”, e ha perso la bussola, facendosi fuori da solo. Collego fatti e pulsioni e sentimenti apparentemente lontanissimi perché riguardano i generi e lo stato del loro rapporto di forza: la coppia Meloni/Giambruno era una coppia sicuramente sbilanciata, ma altri ce l’avevano fatta, come la Merkel e il marito scienziato, che si guardò bene di farsi beccare dal circo mediatico. Così guerrieri feroci e uomini che collassano sembrano essere i due volti opposti della maschilità contemporanea. Un’occasione per capire meglio l’attuale stato di salute del maschio del genere umano ce la fornisce uno storico francese, Ivan Jablonka, ebreo di origine polacca (i nonni morirono ad Auschwitz), autore di Uomini giusti. Dal patriarcato alle nuove maschilità, appena uscito da Moretti&Vitali. L’autore ci fa entrare nel mondo finora poco analizzato delle “vulnerabilità” maschili. “Ora il modello maschile universale di dominio, quello che è stato una megastruttura di pensiero produttrice di un sistema sociale, è scaduto”, dice nelle prime pagine del suo libro. Sì, perché dà per acquisita la rivoluzione femminista, che ha messo all’angolo il maschio. Usa parole molto chiare: “Non è più compito delle donne mettersi in causa, tormentarsi sulle proprie scelte di vita, giustificarsi a ogni piè sospinto, esaurirsi per conciliare lavoro, maternità, vita familiare e tempo libero. Tocca agli uomini colmare il loro ritardo sull’evoluzione del mondo”. Ed è inutile avere nostalgia del maschio alfa, gli uomini devono lavorare sulle faglie che si sono aperte nella loro identità. 

 
     

Monta un sordo rancore contro di lei che guadagna più del compagno, che gestisce la carta di credito e paga il mutuo, che è diventata la capofamiglia

  
“L’uomo deve continuamente provare di essere un uomo”, spiega Jablonka, non scappa dalla dittatura del testosterone. Il maschile porta in sé un’inquietudine, la paura di essere indegno del proprio sesso, il timore di non essere all’altezza, di non rispondere alle aspettative. Da qui le provocazioni, le ostentazioni, ma anche il mito del gesto eroico, perfino le “belle morti”. La paura di essere un perdente è una costante della maschilità di dominio, tanto che l’imperativo della virilità finisce per diventare un fardello. E si trasforma sempre più facilmente in violenza: contro le donne, contro i sotto-uomini, i neri, i gay. L’angoscia fondativa del maschile (che ha prodotto grande letteratura, diciamolo) si è accentuata con le grandi trasformazioni economiche e sociali del passaggio di millennio, che hanno visto ridimensionato il lavoro manuale e industriale, in cui l’uomo ha sempre trovato un riconoscimento, mentre si è sviluppato enormemente il terziario, che ha dato occupazione e identità soprattutto alle donne. Così, pur restando le differenze dei numeri dell’occupazione a svantaggio del sesso femminile, e pur resistendo una fascia molto ampia di lavoro femminile poco qualificato e sottopagato, troviamo sempre di più coppie in cui lei è occupata e lui disoccupato, coppie in cui lei guadagna più del suo compagno, che gestisce la carta di credito e paga il mutuo, che è diventata in poche parole la capofamiglia, la breadwinner. E monta un sordo rancore maschile, che non riesce a darsi parola e che molto più spesso diventa violenza, soprattutto quando lei vuole lasciarlo. Una violenza sempre più drammatizzata, come dimostrano i molti femminicidi seguiti dal suicidio dell’autore dell’assassinio (l’ultimo è di pochi giorni fa). E’ proprio quando la donna prende le distanze, quando dice “è finita”, quando vuole riprendersi la vita, è lì che l’uomo si sente perso e torna bestia o bambino, non sopporta di essere lasciato, lui che prendeva e lasciava per statuto. E colpisce e uccide, anche se stesso. 

 
Il revanscismo maschile ha preso corpo da lontano, a partire dalla grande ondata femminista dagli anni Settanta del secolo scorso. Più che denigrare le donne, gli uomini si sono sentiti vittime, espropriati dalle ambiziose, castrati dalle seduttrici, ridotti a toy-boy, esclusi dalle matriarche, perseguitati da un diffuso disprezzo. Essere un uomo è diventato impossibile, addirittura pericoloso. E il #MeToo contro le molestie sessuali ha dato l’ultimo schiaffo. Il maschio ha tutti i torti, accusato d’ufficio e portato in tribunale, indicato a dito come il nuovo nemico.

 

Gli è stato tolto tutto: l’autorità, il lavoro, la dignità, la seduzione, e cioè il diritto a essere se stesso. Così, mentre le donne volano di successo in successo, si intona il lamento dell’uomo bianco sulla via del tramonto, come testimoniano molti scrittori, da John Updike a Michel Houellebecq. Ma non tutti si danno per perdenti. Nasce la corrente del “risveglio maschile”: gruppi di sostegno, ritiri nei boschi, fratellanze, gruppi sportivi, concerti, Warrior Week per ritrovare l’energia virile e ritornare padroni del gioco. Di contro, nasce anche la corrente degli amici delle donne, degli uomini contro il sessismo: negli Usa la National Organization for Men Against Sexism, in Europa una rete Euro-Profem, parola d’ordine Zeromacho. Si parla anche di men’s lib, liberazione maschile, ma dura poco e soprattutto ottiene niente, anche perché il separatismo femminista è diffidente e non li accoglie. “Non basta denunciare il sessismo per sbarazzarsene, non basta la buona volontà”, dice Jablonka. “Prima di essere una mentalità, è un sistema sociale”. Non è perché gli uomini si preoccupano di sé che il patriarcato può sparire. E’ certamente in declino, ma le numerose patologie del maschile lo fanno durare in una sorta di fuga in avanti. “Per questo l’uomo oppressore coesiste oggi con l’uomo sofferente”.   

 

In realtà, al di là delle lamentazioni di parte, il femminismo ha prodotto una rivoluzione da cui non si torna indietro: si è rotto definitivamente il legame complementare tra uomo e donna – quello che ha tenuto in piedi per millenni la società patriarcale. Una complementarietà gerarchica, che prevedeva la donna dedita al servizio di cura e alla riproduzione, l’uomo al potere. Uscire dal cerchio patriarcale per le donne voleva dire diventare “reiette”: prostitute, pazze, zitelle. (Notava Virginia Woolf che senza quei letti rifatti, quei panni stirati, quei figli accuditi dalle donne, non ci sarebbe stata nessuna civiltà, nessuna impresa). C’era quindi un equilibrio nella differenza dei ruoli, imposto alla donna dall’uomo in cambio della protezione, sopportato e in parte eluso da lei, che man mano nei secoli si era ritagliata interstizi di libertà, come li ha definiti Daniela Brogi nel suo bel libro Lo spazio delle donne (Einaudi). Dava l’autorizzazione culturale al legame complementare il mito platonico delle due metà della mela che – ricomposte – sottendeva a ogni nascita di un amore, di un incontro felice tra i due sessi. Il maschio ancora oggi, pur disilluso, non rinuncia al sogno e ha bisogno di questa complementarietà, mentre le donne – nella dura, secolare e sanguinosa battaglia per conquistare diritti e parola e oggi anche un qualche potere – hanno lavorato su di sé, sulle loro faglie e sulle loro debolezze, ma anche sulla forza autonoma della propria identità, della propria differenza, che è diventata a poco a poco anche pensiero. E hanno avuto il coraggio di sputare su Hegel. Di un nuovo disagio di civiltà parla anche Sarantis Thanopulos, presidente della Società di psicoanalisi italiana, nel suo La solitudine della donna (Quodlibet). La civiltà si basa sul valore della differenza, il rispetto per l’alterità e il desiderio dell’altro, in uno scambio tra pari, sostiene lo psicoanalista, e la disuguaglianza ha smesso di essere legittima. Se l’uomo, detronizzato dal sistema patriarcale che ci ha governati fino ad oggi, non riesce a tollerare e godere insieme dello scambio con la nuova donna, se non accetta in sé il suo “femminile”, un esito inevitabile per lui può essere solo la violenza.

 
“Che devono fare allora gli uomini di buona volontà che si sentono persi? Rivedere il loro ruolo, il loro statuto, la loro funzione – in una parola ciò che ci si aspetta da loro. Nessuno ha ancora inventato la bussola femminista a uso maschile”, conclude molto pragmatico Ivan Jablonka. Decostruiamo il maschile, prima di tutto. “Tentiamo di reinvestire le mascolinità degradate, anticonformisti, fragili. Nelle guerre del maschile, dobbiamo stare dalla parte dei deboli. L’uomo su cui si sputa. Il liceale che balla e scrive poesie alle ragazze, il ragazzo che non riesce a imparare il suo ruolo… E’ giusto ridicolizzare gli atteggiamenti di autoritarismo maschile: il capo di stato dall’aria di monarca, il guru mediatico, il maschio alfa a capo della catena alimentare, l’Ad di settant’anni che si rifiuta di passare la mano, il giovane miliardario della Silicon Valley che sogna di colonizzare lo spazio, il rabbino di estrema destra, l’imam fulminante, perché il riso è indispensabile per il femminismo, come scrive Judith Butler… Facciamo la parodia dell’uomo di potere in ciò che ha di più sacro, la sua autorità e la sua trascendenza. Diffidiamo dei padroni che aderiscono al loro ruolo. Rinneghiamo in noi il grande macho, il bruto, il porco. Bisogna praticare la disobbedienza di genere. Bisogna perdere il rispetto. E quando si saranno rotte le mascolinità di dominio, ne usciranno degli uomini, esseri umani sbarazzatisi del giochetto virile”.

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