Al mondo che parla di “mascolinità tossica” servirebbe capire cos'è la virilità
Una virtù nient'affatto machista, scrisse Harvey Mansfield, prof. di filosofia politica di Harvard, in "Virilità". Un testo da mettere all’indice in questi giorni in cui ogni uomo viene ridotto a un criminale non ancora scoperto. E che proprio per questo è da leggere con urgenza
“Virilità. Oggi persino la parola sembra patetica e anacronistica. Sempre più attenti a esprimerci in modo neutrale rispetto al genere, stiamo trasformando il nostro linguaggio; e la virilità […] sembra incarnare l’essenza stessa del nemico da sconfiggere, il male da estirpare”. Queste sono le prime righe del libro di Harvey Mansfield, Virilità: un testo da mettere all’indice, soprattutto in questi giorni in cui ogni uomo viene ridotto a un criminale che ancora non è stato scoperto. Ma è proprio per questo che è urgente leggerlo.
L’autore, celebre e pacato professore di filosofia politica dell’Università di Harvard, giunto alla fine della sua carriera accademica, ha avvertito la necessità di fare qualcosa di a dir poco estemporaneo, tessere le lodi di una delle virtù più travisate e bistrattate del nostro tempo: la virilità. Passando in rassegna l’intera cultura occidentale dalla Grecia classica fino ai nostri giorni, chiamandola a testimone della sua tesi, il libro pone in luce la grandezza di questa virtù niente affatto machista ma, al contrario, ricca di generosità e di apertura all’altro, di spirito di sacrificio e nobile grandezza.
In un momento storico grossolanamente egalitarista, che tende non alla parità ma a una generale indistinzione, il libro di Mansfield ha davvero qualcosa di originale da dirci. La virilità è l’opposto della neutralità di genere. La virilità è una virtù che chiama l’individualità: la sua stessa essenza è l’irripetibilità del singolo che la impersona. La virilità è anche la virtù dei coraggiosi e, portata al suo massimo e al suo meglio, può addirittura assurgere ad attributo del pensiero: il coraggio di opporsi all’opinione convenzionale.
Virilità non è un testo contro il femminismo; è piuttosto una lode nostalgica e disillusa di una virtù ormai divenuta tabù. Una virtù che può appartenere anche alle donne, purché siano disposte ad emanciparsi dall’inganno neutralista che le vorrebbe non solo uguali agli uomini, ma indifferenti rispetto al genere. Secondo l’autore, a partire dagli anni Settanta, il pensiero femminista ha disconosciuto le sue origini liberali e si è convertito a un pensiero avverso tanto alla natura quanto al senso comune. Un pensiero il cui obiettivo è l’avvento della società sessualmente neutra da raggiungere nel nome e per mezzo della neutralità di genere. In quest’ottica è essenziale ridurre la nobile grandezza della virilità a espressioni ridicole e squalificanti come “mascolinità tossica”. Ed è questo filone di pensiero una delle sorgenti di quel fiume carsico che, partendo dalle università, si è impossessato anche del dibattito pubblico.
Oggi, in quella che vuole divenire una società sessualmente neutra, esiste un nuovo tabù rappresentato dalla distinzione tra i due sessi. Lo sappiamo, niente più maschio e femmina ma un’infinità di generi possibili. Eppure, ecco il cortocircuito, quando la narrazione lo richiede il maschio c’è eccome, e rappresenta quell’orco terribile che è l’ostacolo tra ciò che è reale, ossia la distinzione, e la società che si vorrebbe: la società non più senza classi ma senza sessi.
La virilità però, spiega Mansfield, è l’opposto di ogni forma di uniformazione. La virilità per mettersi alla prova cerca il dramma, è pronta ad accoglierlo, predilige tempi di guerra, conflitti, situazioni di rischio. Innesca il cambiamento o viceversa ripristina l’ordine quando il cambiamento è compiuto. In una società che cerca la neutralità e prova orrore per ogni forma di conflitto, la virilità è qualcosa da eradicare. Secondo Mansfield la virilità è stata volontariamente mal descritta per poter essere meglio squalificata ed eliminata. Essa non è tanto aggressività o tracotanza (sebbene a volte possa anche mostrarsi come tale). Piuttosto, la virilità è una forza assertiva, è sicurezza di sé ed è soprattutto coraggio attraverso cui l’individuo afferma se stesso e la sua importanza, sulla natura, sugli altri uomini e sulla minaccia del nulla.
Gli antichi greci usavano la parola andreia per indicare sia virilità sia coraggio, ossia la virtù che permette di controllare la paura. Gli uomini virili si elevano al di sopra delle proprie paure ma pur riuscendo a controllarle le portano sempre con sé. Questa esaltazione del coraggio all’interno della nostra cultura del piagnisteo, all’interno della nostra società spaventosamente suscettibile e timorosa è inaccettabile.
La virilità deve essere eliminata perché è una forma di resistenza alla richiesta di neutralità. La neutralità diviene infatti ciò che è buono e sicuro, ciò che non ha bisogno, perché non genera rischi, di coraggio virile. Nel confronto di ciascuno con la vita, del resto, qualche volta si vince e qualche volta si perde, ossia si soffre. Se potessimo conquistare la natura ed eliminare i rischi, se potessimo neutralizzare i rischi, ossia se potessimo rendere la vita ciò che non è, non avremmo bisogno della virilità.
Il moderno controllo razionale teme il coraggio più della paura, vuole sbarazzarsi della virilità, cerca di soppiantarla con misure che incoraggiano o impongono comportamenti che escludono la drammaticità. Ciò è inevitabile in una società che, fortunatamente, è molto ricca e molto pacifica (a dispetto di ciò che si vorrebbe far credere) ma che, per conservarsi tale, sembra non avere più bisogno di individui audaci e coraggiosi ma di pacifici soggetti neutri.