l'editoriale dell'elefantino
Questa storia di amore e di morte non si riesce a capire
Siamo impantanati nella chiacchiera e nell’ideologia più piatta. Ma il dolore per Giulia Cecchettin e lo sdegno e il rimorso collettivo per l’atto maschile che l’ha soppressa non si possono ridurre a uno schema politico, sociale, didattico
Razionalizzare tutto vuol dire perdere la scommessa della ragione e alla fine impantanarsi nell’ideologia, nella falsa coscienza delle cose, nella chiacchiera. Escludere la gelosia che trasforma in maniaco e in assassino un bravo ragazzo presuntivo vuol dire escludere il common sense, la via diretta, vuol dire intorcinarsi in un pasticcio di sociologia banale, di statistiche ruffiane in ambedue le direzioni d’opinione, di psicologia e di antropologia culturale senza il dono scientifico della psichiatria. Ha ragione Vito Mancuso. Esiste una mascolinità tossica che si esprime nella relazione di potere, ma non è un carattere del padre, eredità esclusivamente patrilineare, è una forzatura di possesso presente nel maschio e nella femmina, nell’essere umano che è maschio e femmina, nella storia e nella genetica di quel che siamo come corpo sociale, dalla famiglia in su.
Di questo peccato morale il maschio ha un millenario elemento di primogenitura, la gelosia come disperazione e possesso ne è lo sfondo, lo slittamento dall’accudimento al controllo ne è una palese espressione, ma alla fine non bisogna essere stupidamente filosofi per sapere che l’amore dà la vita e dà la morte in una forma decisamente inconoscibile e per questo tragica.
Appena consumata l’emozione aspra e avvilente per la ferocia sadica di un amore trasformato da un giovane uomo in fonte maniacale di violenza, è bastato un attimo, ecco che abbiamo ricostruito il latente schema amico-nemico, l’opposizione sghemba e asimmetrica dei sessi, con la ridicola, grottesca conclusione, assimilata nei luoghi di produzione dell’ideologia più piatta, che il maschio è di destra e la femmina è di sinistra, il maschio è carnefice e la femmina la sua vittima, e il padre il cattivo maestro della favola. In certe circostanze ci vuole il coraggio socratico di sapere di non sapere, molto superiore al mito romantico e rousseauiano dell’uomo naturalmente buono degradato dalla civiltà. Un bravo psichiatra o anche uno psicoanalista sincero e onesto alzerà le mani in segno di resa e tenterà mezze spiegazioni che non spiegano mai a fondo, consapevolmente, il mistero del male assoluto, togliere la vita, distruggere l’oggetto d’amore. Seguirà un tempo di silenzio nel dolore, altro che il rumore di mille manifestazioni e appelli all’educazione sentimentale e affettiva, una disciplina che non esiste al di fuori della vita e della cultura, dell’ironia e dell’intelligenza, e che certo non si può esprimere nei cunicoli del pensiero ideologico.
Si sa dall’inizio del mondo, testimone insigne Lucrezio Caro con il suo materialismo poetico, che i sessi sono in lotta tra loro. Ma l’irruzione del maniacale e del patologico è altra cosa e il dolore per Giulia Cecchettin, lo sdegno e il rimorso collettivo per l’atto maschile che l’ha soppressa, per il viaggio nell’inferno psichico di Filippo Turetta, non si possono ridurre a uno schema politico, sociale, didattico di tipo relazionale. La prima educazione affettiva e sentimentale deve cominciare dal fatto certo che in quella storia di demenza e amore e gelosia e possesso non si capisce assolutamente niente.