Il verde profumo di sesso
Mettete dei fiori sui vostri piselli. S’avanza un modo neo-freak di fare l’amore. La natura non è più madre ma amante
Son quelli che il bagnodoccia al muschio non basta: ci vogliono muschi veri. Sono uomini e donne – forse più donne – che la natura l’amano sul serio, più della razza umana. E che quest’amore lo praticano. Loro si sporcano le mani, le braccia, le spalle. Letteralmente. L’ecosesso comincia infatti da una passeggiata a piedi nudi sulla battigia, vissuta con intensità, come si stesse “massaggiando il pianeta”. Come un petting, insomma, o un preliminare. Sino all’orgasmo che si verifica in molti modi. Magari in solitaria, pudicamente vestite e distese in un verde eccitante – alcune donne fanno così – un verde i cui odori e sapori producono ossitocina. Oppure sempre soli ma seminando – se si è maschietti – in luoghi particolarmente belli tipo le cascate. E c’è pure chi anziché solo lo fa in compagnia: in questi casi svestirsi è tutto sommato necessario come testimoniano le foto con gli amanti d’indistinto orientamento sessuale che nel mentre prendono zolle di terra, le baciano, ci passano sopra mani e lingue e poi esplodono in boati d’eccitazione. Per saperne di più, sulle spiagge australiane, all’itinerante Ecosexual Bathhouse, tengono corsi di educazione ecosessuale dove si “sperimenta l’impollinazione” – scrive il sito – e “ci si fa guidare verso un risveglio organico, abbracciando la terra”. E ci sono ancora i classici abbraccia-alberi, con gli alberi che per le ragazze diventano omoni su cui sfregare…
Ma non si pensi ora a un fatto troppo bucolico perché l’ecosesso – possiamo testimoniare – ha tutto un suo circolo cittadino.
Metti una sera a cena, qualche sera piovosa fa. Occhi verdi, capelli pittati rosso, un nastro nero a suggellare la treccia da maga-wicca. Ed ecco verso noi la prima ecosessuale d’Italia. Sembra una donna preraffaellita. Invece viene da Roma sud, quartiere Pigneto (e da qual altro quartiere di Roma, se no?). E’ la musa della nuova poesia urbana, metropolitana, ed è ancora pioggia. Ma stavolta al Pigneto, non nel pineto. Giacché in principio fu appunto D’Annunzio, col suo ramage di volti silvani e verde vigor rude: ecosessuale liberty e libertario. Mentre oggi l’amante delle piante si chiama Giuditta Sin, sempre in omaggio al liberty ma piuttosto quello di Gustav Klimt. Non abita in Versilia né a Vienna ma nel laboratorio antropologico d’Italia. In quell’angolo di Roma dove dall’anglosfera arriva tutto dieci anni dopo – dagli ecosessuali ai collaudati queer – e dove però ci si diverte e si sperimentano ancora ideologie e narcisismi neo-freak.
Perché anche di questo parliamo quando parliamo di ecosessuali: non solo di panteismi che rivivono in spregio all’amore umano ma pure di narcisismi. Ché se t’abbracci l’arbusto alla chetichella, da solo, se nessuno vede e nessuno sa, è una cosa, e forse è pure una cosa bella (l’amore è bello, vario, e la copula mundi – prima che nel Pigneto – se l’era inventata Marsilio Ficino a Firenze, nel Quattrocento). Ma se invece hai bisogno di farlo sapere e catalogarlo, come più che in Italia fanno gli ecosessuali di San Francisco, volendo annettere la “E” all’LGBTQI, si capisce che c’è come un vuoto di vita. Come un tedio da riempire di sigle. Ed è infatti, l’ecosesso, un narcisismo che non sa più dove andare a parare. E che para così nelle piante. Fermo restando che nell’infinita catena amorosa – LGBT etc. – gli ecosessuali rappresentano comunque l’anello più divertente.
Ma torniamo ora a Roma, perché è sempre al Macro che Giuditta Sin, la nostra Marina Abramovic, organizza performance di sfregamento al terriccio. Mostre e spettacoli che ben oltre il narcisismo, con mantelli dorati ispirati a Klimt, hanno un loro perché. Ed è un po’ l’Annie Sprinkle d’Italia, ovvero la pornostar e pioniera del sesso ecologico che intervistata dal Guardian qualche anno fa (la pioggia nel Pigneto, s’è detto, arriva sempre dieci anni dopo) sostiene che non è più tempo di vedere la natura come una madre: essa è la nostra amante. Annie Sprinkle pratica il grassilingus (questa non la spieghiamo) ed è molto importante per inquadrare il fenomeno. In poche parole, Sprinkle è l’Ilona Staller della botanica, parte tutto da lei. Ma, come ci dice Giuditta, costei ha una visione piuttosto americana dell’amore ecologico. Insieme alla moglie Elizabeth Stephens, professoressa d’arte all’università della California Santa Cruz (vicinissima alla Silicon Valley), Sprinkle firmava nel 2010 il manifesto del movimento alla cui redazione partecipavano attori porno e attivisti per l’ambiente che scrivevano all’incirca così: “Facciamo l’amore con la terra… Siamo degli sporcaccioni”; e ancora: “Come consumatori puntiamo a comprare meno. Solo prodotti sostenibili, biologici e a chilometro zero”. E veniamo subito al volto più americano del fenomeno che – coi condom bio, col business-as-usual – cerca già un approdo nello star system. Leonardo DiCaprio, per dire, ecosessuato dentro, dichiara che non sposerà mai una donna che non sia ecologista.
Ma l’ecosesso, come tutte le ideologie, si dice in molti modi: dal panismo europeo al business americano. Non è un caso che la studiosa Amanda Morgan dell’Università del Nevada, ecosessuata anche lei, misuri il fenomeno secondo la scala Kinsey. Per cui da una parte c’è chi compra gingilli sostenibili (sex toys: americanate, appunto) dall’altra, all’estremo opposto, c’è chi stupra gli allori sulla scia del Bernini, o si dà al vizio solitario nel brago. Varie sfumature di uno stesso spettro, spiegano le studiose (studiose cioè docenti, professoresse, filosofe, perché a proposito di estremi s’è capito fin qui che l’ecosesso interessa perlopiù l’università e l’industria porno. Estremi opposti che tra parafilie e gender studies non son poi così lontani. Estremi che ben s’incontrano… Nelle parti basse).
Andando però al sodo, da San Francisco al Pigneto, si capisce subito che il fenomeno – narcisismo a parte – muove da un diffuso slancio antiumano. E più precisamente anti maschile, che di questi tempi si porta molto. Come in un regresso allo stadio infantile, il maschio è cattivo – dicono le ecosessuali – e le piante sono buone (e quand’è così viene sempre da domandare: che maschi frequenti ma, soprattutto, che piante coltivi?).
“Io sono ecofemminista convinta”, ci dice Giuditta Sin, “ecofemminista ancor prima che ecosessuale”. Ah-ah. “Voglio dire che la natura, in quanto amante – non madre, non matrigna ma amante – è la prima abusata dal patriarcato. E la liberazione del mio corpo di donna non avviene senza la liberazione dell’ambiente dal maschio”. Ah. Vuoi dire che il maschio colonizza la natura e che la natura, anche lei, come un po’ tutte noi, ha subìto molestie. Chiaro.
Tocca ammettere, però, che se non fosse per la patina ideologica della “molestite”, la natura-amante sarebbe quasi una bella cosa. Una cosa che fa venire in mente altre cose, non ultimo il film di Mario Martone, Capri Revolution, con le comuni di artisti a imbrattarsi di sangue di cervo nel bosco. Ma a proposito di ideologia, negli stessi termini parla Elizabeth Stephens, la prof firmataria del manifesto Ecosex: “In una società misogina, quando le persone immaginano la terra come una ‘lei’, pensano sia meno importante di un lui. E’ per questo che l’industria, coi suoi capi maschi, pensa di poter maltrattare la terra”. Terra che è tutta da amare, invece, in un capovolgimento di senso che a dispetto dell’alluvione o d’una banalissima ortica (ci scherzassero gli ecosessuali a raccogliere ortiche come Franco Battiato) ecco, a dispetto di cataclismi e di foglie pericolose su cui confricarsi, suona più o meno così: la natura è buona, non fa male, la civiltà è cattiva. Ed è un capovolgimento di senso, questo, che di tanto in tanto torna nella storia dell’uomo, legato a un doppio filo di fantasia. Con le ecosessuali che per un verso umanizzano la terra: amante rancorosa, sedotta e abbandonata, adesso in cerca di attenzioni; per l’altro additano la civiltà come delitto patriarcale.
Dall’arte all’industria, molto – quasi tutto – tocca smantellare, spiegano. Per vivere a ritmi più normali e cioè più lenti: con meno bisogni, meno lavoro, meno accumulo. In altre parole: meno capitalismo e termosifoni e più sabba e falò (e forse, anzi sicuro, aveva ragione Camille Paglia quando scriveva che fosse stato per questo genere di matriarche vivremmo ancora nelle capanne).
Ma l’ecosesso non è pura stravaganza. Al tempo in cui all’università pur di non studiare si fa il lunedì pacifista, il martedì hamassista, il giovedì gnocchi e il venerdì ambientalista, vuoi che una meraviglia come questa non diventi dottrina? Prendete per esempio il filosofo Emanuele Coccia: autore Einaudi, allievo di Giorgio Agamben, professore alla Scuola di alti studi in scienze sociali di Parigi, consulente della Fondazione Cartier (alla faccia del civvì). Coccia raggiunge vette vertiginose quando scrive che è questo il momento. Che se non ora, quando? Quando potremo sperimentare una relazione d’amore “intraspecifica”, si domanda Coccia. Che spiega ancora come “il problema ecologico sia un problema erotico”. E infine dice – Iddio vi salvi, benigni lettori – che è questo il tempo. E’ tempo questo di “accettare [dal pianeta e da tutte le sue specie] la loro proposta di matrimonio”. E alla perplessità su come ci si mariti concretamente alla terra – magari buttando anelli in laguna per sposare il mare come i veneziani dell’anno Mille – Emanuele Coccia risponde che “non è molto difficile: si tratta fondamentalmente di trattare tutte le specie come trattiamo i nostri cani. E soprattutto il contrario: lasciarci trattare come cani dalla Terra”. Ed ecco, a parte il fatto che siamo più scemi oggi che nell’anno Mille, eccoci infine al punto, eccoci al fondo della questione sì spassosa all’atto pratico – far l’amore nelle vigne – un poco meno sul versante teorico. Perché s’è capito che se la natura peggio che una madre è un’amante, ci vuole niente che si finisca nel sadomasochismo, col guinzaglio al collo.
Se finora l’abbiamo abusata, la terra, per questa stessa logica siamo pronti come cani a farci abusare. Ovvero a vivere di solo sesso con gli arboscelli. Noi e la pianta, senza termosifoni, due cuori e una capanna. Pronti a deprimere noi stessi decrescendo (felici o infelici è da vedere), ben oltre i cani pronti insomma a trasformarci in insetti (purché ecosessuati). La natura umanizzata in amante, infatti, con l’ecosesso, è un filo rosso che da Esiodo porta dritti alla “ipotesi Gaia” per cui saremmo tutti meno che cani. Per cui siamo tutti dei microbi. Secondo James Lovelock, grande ispiratore dell’eco-erotica, siamo dei parassiti della terra, che di suo è un superorganismo. Un animalone. Un po’ come scriveva Guido Ceronetti, siamo “insetti senza frontiere”, o come cantavano in The Rocky Horror Picture Show: “…and crawling on the planet’s face / some insects called the human race…”, siamo appunto parassiti. Uomini e donne – piuttosto uomini cioè maschi – insetti o per meglio dire saprofiti. Pronti a nutrirsi di quel che resta. E che dovrebbero invece rallentare, accarezzare, baciare la natura, stabilire con lei un rapporto d’amore. Sottomettersi.
Ma in tutto questo, poi, a proposito di anti-umanesimo, non è che amoreggiare coi cespugli è pure un po’ più facile che prendersi il fastidio dell’amore umano? Che comunque costa il corteggiamento della cena, la cena, per non dire dell’impaccio del conversare. L’amore umano è faticoso, la dialettica ha un peso, e nessuno, si sa, ha più tanta voglia di faticare. Né di produrre e dunque di studiare per conversare, di lavorare per pagare, d’industriarsi per corteggiare. Meglio l’alberello, che sulla soglia del bosco non ode: lui tace. E sarà che come ci disse una volta Maurizio Ferraris, ode al realismo, “l’accentuare la propensione per la natura è un’eccellente maniera per manifestare la propria indifferenza nei confronti delle persone”.
Fra ideologie e narcisismi, l’ecosesso, coi teorici e il suo manifesto, non si sa se sia qui per restare… Google dice che le ricerche sul tema aumentano di anno in anno, e secondo Elizabeth Stephens ci sono almeno centomila ecosessuali nel mondo. In qualche modo, però, si può dire che l’amore floreale è sempre esistito, dall’eterno dionisismo all’odierno Fuck the forest (prima organizzazione ecopornografica al mondo, fondata in Norvegia, che si finanzia con un sito web di foto e video di gente nuda avvinghiata agli alberi, e che stanzia parte dei fondi al salvataggio delle foreste pluviali). Ecosesso è quel richiamo della foresta, pluviale e non, che esige ritmi sostenibili, rispetto dei cicli naturali, degli animali nonché morte delle ambizioni civili che loro chiamano patriarcali (produttività, individualismo, indipendenza: non profumano come i fiori, ma che musica per noi ragazze umaniste e pro industria). Richiamo della foresta che ben si sposa agli assi portanti del secolo: da un lato il narcisismo di chi ripiega sul famolo strano (più strano che più strano non si può), dall’altro l’indifferenza per l’essere umano. In cambio di una speciale licenza scopereccia: con le piante, nelle piante, per le piante. Dal pineto al Pigneto. Su le soglie del bosco.
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