Educazione
Il baratro di questo mondo e il coraggio di uscire dall'estetica dell'eccezione
Davanti a episodi di violenza con protagonisti giovani ritenuti “come tutti gli altri” si registra un sussulto nell’opinione pubblica che richiama a una responsabilità cui non siamo più abituati. Ma questo non può bastare
È tipico delle faccende umane avvertire l’importanza di qualcosa nel momento in cui questo qualcosa incomincia a scarseggiare. E ciò vale sicuramente anche per l’educazione. Per le società del passato essa ha sempre rappresentato un compito; per la nostra sta diventando soprattutto un’emergenza e una sfida. Se fino a ieri sembrava quasi scontato che una generazione dovesse farsi carico dell’educazione e della socializzazione dei “nuovi venuti”, secondo quanto ereditato dai padri, oggi, chi più chi meno, tutti constatiamo la dissoluzione di questa sorta di automatismo. Non soltanto non è più per nulla chiaro che cosa la società si aspetta dai sui membri in termini di socializzazione, ma il clima culturale che si è venuto affermando in questi ultimi decenni è di quelli che inducono a guardare con sospetto qualsiasi pratica educativa che non sia ispirata al principio della neutralità etica. I giovani, si dice, vanno lasciati liberi di scegliere i propri valori e i propri stili di vita; alla parola socializzazione abbiamo preferito addirittura l’“autosocializzazione”: una vera contraddizione in termini, della quale facciamo finta di non accorgerci, ma che di fatto sta alla base di gran parte del disagio che affligge le giovani generazioni e non solo. Niente di strano dunque se in questo contesto sempre più frammentato e addirittura indifferente, neutro, rispetto ai valori, siano andate in crisi le principali agenzie educative: la famiglia e la scuola. Salvo poi perderci in chiacchiere per nascondere la disperazione ogni volta che la realtà, spesso in modo tragico come è accaduto in questi giorni, ne richiama il ruolo insostituibile.
Potremmo esprimere lo stesso concetto dicendo che la nostra è una società nella quale, a un certo punto, anche con la scusa dell’autonomia individuale, ci siamo tutti un po’ lavati le mani, rispetto a quello che, pur nelle mutate situazioni nelle quali viviamo, continua a rappresentare inevitabilmente il processo attraverso il quale una società riproduce (e muta) costantemente se stessa, ossia il processo di socializzazione. Per paura di ledere la libertà dell’altro, abbiamo ripiegato su una sorta di indifferenza morale, pensando che questo bastasse a salvaguardare o addirittura a rafforzare la nostra tradizione e in particolare i valori dell’autonomia e della libertà individuale. Ma oggi ci rendiamo conto che non è così. Proprio se abbiamo a cuore quei valori e una convivenza minimamente civile, è necessario alimentare un contesto nel quale essi possano veramente svilupparsi, un contesto che ha poco o nulla a che vedere con la frammentazione e la debolezza morale, tipiche delle nostre società. D’altra parte non ha senso pensare a un qualsiasi processo di socializzazione, se la società, e quindi le sue istituzioni educative fondamentali, la famiglia e la scuola, non vengono in chiaro su quelli che si ritiene debbano essere i valori ai quali educare, per i quali valga la pena spendersi. È questa la sfida di cui ci si dovrebbe far carico.
Purtroppo, anziché prendere di petto lo spaesamento etico e lo scollamento che contraddistinguono la nostra società, la nostra cultura li ha assunti come una specie di conquista. Anything goes; lasciamo che le cose seguano il loro corso spontaneo e si aggiusteranno da sole. E invece non è così. Occorre avere un occhio speciale per le ambivalenze della nostra epoca. Più libertà e più autonomia comportano indubbiamente più rischi. Non ci sono motivi per rimpiangere l’armonia prestabilita delle società del passato, ma questo non può indurci a pensare che un valore o uno stile di vita valgano l’altro. Non è questo il senso del pluralismo. Occorre piuttosto avere il coraggio di uscire da questa sorta di estetica dell’eccezione nella quale ci siamo tutti, chi più chi meno, impantanati, spesso però senza avere l’energia necessaria a vivere esteticamente. In genere riescono a farlo soltanto gli artisti.
Comprendo ovviamente che la cosiddetta “normalità” qualche volta può anche essere, e certamente lo è stata, una gabbia; comprendo altresì che sarebbe semplicemente grottesco pensare di poter tornare indietro a quella gabbia; tuttavia dobbiamo renderci conto che, se continueremo a guardare tutto senza nessun’altra bussola che non sia quella dei nostri capricci individuali, c’è il rischio che veramente non si capiscano più le differenze e che esse stesse diventino indifferenti. C’è il rischio, in altre parole, che non si riescano più a trovare nella società le risorse necessarie per poter giudicare ciò che accade.
Lo spaesamento che ci prende di fronte ai ricorrenti episodi di violenza, di cui si rendono protagonisti giovani considerati fino a quel momento “come tutti gli altri”, è in questo senso significativo. Ogni volta si ha l’impressione di registrare un sussulto nell’opinione pubblica che sembra richiamare tutti, almeno per qualche giorno, a una responsabilità cui forse non ci sentiamo più abituati; ci sentiamo come strappati fuori da quella logica dell’eccezione indifferente alla quale sottostanno la maggior parte delle nostre rappresentazioni della realtà, specialmente quelle dei media. Ma è evidente che questo non basta. Tanto è vero che il senso di vuoto continua a farla da padrone.